13 Gennaio 2025 - Categoria: cultura

Riformare la Chiesa di Fulvio De Giorgi

Fulvio De Giorgi

La Chiesa è storicamente davanti ad un bivio decisivo: ostruire (il soffio dello Spirito) o costruire (guidata dallo Spirito); continuare con dinamiche ormai obsolete e adagiarsi nel torpore di un’età di decadenza comatosa o avviare, con coraggio ed entusiasmo, una svolta radicale e aprire a una “forma” nuova di cattolicesimo. Vi è oggi un problema generale che non è solo di una parte dei fedeli: si tratta di considerare qual è il “blocco” o i “blocchi”, che fanno resistenza allo Spirito e intristiscono l’ambiente ecclesiale. Tutti ostacoli che vanno superati con scelte chiare ed efficaci, ma non dettate da ingegneria canonico-ecclesiastica, né decise a colpi di maggioranza, come in un braccio di ferro politico. Queste pagine offrono riflessioni per compiere scelte ormai ineludibili e, anzi, già in forte ritardo.

Fulvio De Giorgi è professore ordinario di Storia dell’educazione presso l’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia. Tra le sue pubblicazioni per Morcelliana: Paolo VI. Il papa del Moderno (2018 2ed.); La scuola italiana di spiritualità. Da Rosmini a Montini (2020). Nel catalogo Scholé: Più coraggio! Chiesa, famiglie, sessualità (2015); La Repubblica grigia. Cattolici, cittadinanza, educazione alla democrazia (2016); Il figliol prodigo. Parabola dell’educazione (2018); Quale sinodo per la Chiesa italiana? Dieci proposte(2021); Il Metodo Italiano nell’educazione contemporanea. Rosmini, Bosco, Montessori, Milani (2023). Ha inoltre curato: i testi di Maria Montessori Dio e il bambino e altri scritti inediti (2013) e Il Peccato Originale (2019); la Nuova storia della pedagogia (2024) e, con A. Gaudio e F. Pruneri, la Storia della scuola italiana (2024).

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11 Gennaio 2025 - Categoria: educazione

ESORTAZIONE APOSTOLICA POSTSINODALE AMORIS LAETITIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

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ESORTAZIONE APOSTOLICA
POSTSINODALE
AMORIS LAETITIA
DEL SANTO PADRE
FRANCESCO
AI VESCOVI
AI PRESBITERI E AI DIACONI
ALLE PERSONE CONSACRATE
AGLI SPOSI CRISTIANI
E A TUTTI I FEDELI LAICI
SULL’AMORE NELLA FAMIGLIA

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1. La gioia dell’amore che si vive nelle famiglie è anche il giubilo della Chiesa. Come hanno indicato i Padri sinodali, malgrado i numerosi segni di crisi del matrimonio, «il desiderio di famiglia resta vivo, in specie fra i giovani, e motiva la Chiesa».[1] Come risposta a questa aspirazione «l’annuncio cristiano che riguarda la famiglia è davvero una buona notizia».[2]

2. Il cammino sinodale ha permesso di porre sul tappeto la situazione delle famiglie nel mondo attuale, di allargare il nostro sguardo e di ravvivare la nostra consapevolezza sull’importanza del matrimonio e della famiglia. Al tempo stesso, la complessità delle tematiche proposte ci ha mostrato la necessità di continuare ad approfondire con libertà alcune questioni dottrinali, morali, spirituali e pastorali. La riflessione dei pastori e dei teologi, se è fedele alla Chiesa, onesta, realistica e creativa, ci aiuterà a raggiungere una maggiore chiarezza. I dibattiti che si trovano nei mezzi di comunicazione o nelle pubblicazioni e perfino tra i ministri della Chiesa vanno da un desiderio sfrenato di cambiare tutto senza sufficiente riflessione o fondamento, all’atteggiamento che pretende di risolvere tutto applicando normative generali o traendo conclusioni eccessive da alcune riflessioni teologiche.

3. Ricordando che il tempo è superiore allo spazio, desidero ribadire che non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero. Naturalmente, nella Chiesa è necessaria una unità di dottrina e di prassi, ma ciò non impedisce che esistano diversi modi di interpretare alcuni aspetti della dottrina o alcune conseguenze che da essa derivano. Questo succederà fino a quando lo Spirito ci farà giungere alla verità completa (cfr Gv 16,13), cioè quando ci introdurrà perfettamente nel mistero di Cristo e potremo vedere tutto con il suo sguardo. Inoltre, in ogni paese o regione si possono cercare soluzioni più inculturate, attente alle tradizioni e alle sfide locali. Infatti, «le culture sono molto diverse tra loro e ogni principio generale […] ha bisogno di essere inculturato, se vuole essere osservato e applicato».[3]

4. In ogni modo, devo dire che il cammino sinodale ha portato in sé una grande bellezza e ha offerto molta luce. Ringrazio per i tanti contributi che mi hanno aiutato a considerare i problemi delle famiglie del mondo in tutta la loro ampiezza. L’insieme degli interventi dei Padri, che ho ascoltato con costante attenzione, mi è parso un prezioso poliedro, costituito da molte legittime preoccupazioni e da domande oneste e sincere. Perciò ho ritenuto opportuno redigere una Esortazione Apostolica postsinodale che raccolga contributi dei due recenti Sinodi sulla famiglia, unendo altre considerazioni che possano orientare la riflessione, il dialogo e la prassi pastorale, e al tempo stesso arrechino coraggio, stimolo e aiuto alle famiglie nel loro impegno e nelle loro difficoltà.

5. Questa Esortazione acquista un significato speciale nel contesto di questo Anno Giubilare della Misericordia. In primo luogo, perché la intendo come una proposta per le famiglie cristiane, che le stimoli a stimare i doni del matrimonio e della famiglia, e a mantenere un amore forte e pieno di valori quali la generosità, l’impegno, la fedeltà e la pazienza. In secondo luogo, perché si propone di incoraggiare tutti ad essere segni di misericordia e di vicinanza lì dove la vita familiare non si realizza perfettamente o non si svolge con pace e gioia.

6. Nello sviluppo del testo, comincerò con un’apertura ispirata alle Sacre Scritture, che conferisca un tono adeguato. A partire da lì considererò la situazione attuale delle famiglie, in ordine a tenere i piedi per terra. Poi ricorderò alcuni elementi essenziali dell’insegnamento della Chiesa circa il matrimonio e la famiglia, per fare spazio così ai due capitoli centrali, dedicati all’amore. In seguito metterò in rilievo alcune vie pastorali che ci orientino a costruire famiglie solide e feconde secondo il piano di Dio, e dedicherò un capitolo all’educazione dei figli. Quindi mi soffermerò su un invito alla misericordia e al discernimento pastorale davanti a situazioni che non rispondono pienamente a quello che il Signore ci propone, e infine traccerò brevi linee di spiritualità familiare.

7. A causa della ricchezza dei due anni di riflessioni che ha apportato il cammino sinodale, la presente Esortazione affronta, con stili diversi, molti e svariati temi. Questo spiega la sua inevitabile estensione. Perciò non consiglio una lettura generale affrettata. Potrà essere meglio valorizzata, sia dalle famiglie sia dagli operatori di pastorale familiare, se la approfondiranno pazientemente una parte dopo l’altra, o se vi cercheranno quello di cui avranno bisogno in ogni circostanza concreta. E’ probabile, ad esempio, che i coniugi si riconoscano di più nei capitoli quarto e quinto, che gli operatori pastorali abbiano particolare interesse per il capitolo sesto, e che tutti si vedano molto interpellati dal capitolo ottavo. Spero che ognuno, attraverso la lettura, si senta chiamato a prendersi cura con amore della vita delle famiglie, perché esse «non sono un problema, sono principalmente un’opportunità».[4]

 

CAPITOLO PRIMO

ALLA LUCE DELLA PAROLA

8. La Bibbia è popolata da famiglie, da generazioni, da storie di amore e di crisi familiari, fin dalla prima pagina, dove entra in scena la famiglia di Adamo ed Eva, con il suo carico di violenza ma anche con la forza della vita che continua (cfr Gen 4), fino all’ultima pagina dove appaiono le nozze della Sposa e dell’Agnello (cfr Ap 21,2.9). Le due case che Gesù descrive, costruite sulla roccia o sulla sabbia (cfr Mt 7,24-27), rappresentano tante situazioni familiari, create dalla libertà di quanti vi abitano, perché, come scrive il poeta, «ogni casa è un candelabro».[5] Entriamo ora in una di queste case, guidati dal Salmista, attraverso un canto che ancora oggi si proclama sia nella liturgia nuziale ebraica sia in quella cristiana:

«Beato chi teme il Signore
e cammina nelle sue vie.
Della fatica delle tue mani ti nutrirai,
sarai felice e avrai ogni bene.
La tua sposa come vite feconda
nell’intimità della tua casa;
i tuoi figli come virgulti d’ulivo
intorno alla tua mensa.
Ecco com’è benedetto
l’uomo che teme il Signore.
Ti benedica il Signore da Sion.
Possa tu vedere il bene di Gerusalemme
tutti i giorni della tua vita!
Possa tu vedere i figli dei tuoi figli!
Pace su Israele!» (Sal 128,1-6).

Tu e la tua sposa

9. Varchiamo dunque la soglia di questa casa serena, con la sua famiglia seduta intorno alla mensa festiva. Al centro troviamo la coppia del padre e della madre con tutta la loro storia d’amore. In loro si realizza quel disegno primordiale che Cristo stesso evoca con intensità: «Non avete letto che il Creatore da principio li fece maschio e femmina?» (Mt 19,4). E riprende il mandato del Libro della Genesi: «Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne» (Gen2,24).

10. I due grandiosi capitoli iniziali della Genesi ci offrono la rappresentazione della coppia umana nella sua realtà fondamentale. In quel testo iniziale della Bibbia brillano alcune affermazioni decisive. La prima, citata sinteticamente da Gesù, afferma: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò» (1,27). Sorprendentemente, l’“immagine di Dio” ha come parallelo esplicativo proprio la coppia “maschio e femmina”. Questo significa che Dio stesso è sessuato o che lo accompagna una compagna divina, come credevano alcune religioni antiche? Ovviamente no, perché sappiamo con quanta chiarezza la Bibbia ha respinto come idolatriche queste credenze diffuse tra i cananei della Terra Santa. Si preserva la trascendenza di Dio, ma, dato che è al tempo stesso il Creatore, la fecondità della coppia umana è “immagine” viva ed efficace, segno visibile dell’atto creatore.

11. La coppia che ama e genera la vita è la vera “scultura” vivente (non quella di pietra o d’oro che il Decalogo proibisce), capace di manifestare il Dio creatore e salvatore. Perciò l’amore fecondo viene ad essere il simbolo delle realtà intime di Dio (cfr Gen 1,28; 9,7; 17,2-5.16; 28,3; 35,11; 48,3-4). A questo si deve che la narrazione del Libro della Genesi, seguendo la cosiddetta “tradizione sacerdotale”, sia attraversata da varie sequenze genealogiche (cfr 4,17-22.25-26; 5; 10; 11,10-32; 25,1-4.12-17.19-26; 36): infatti la capacità di generare della coppia umana è la via attraverso la quale si sviluppa la storia della salvezza. In questa luce, la relazione feconda della coppia diventa un’immagine per scoprire e descrivere il mistero di Dio, fondamentale nella visione cristiana della Trinità che contempla in Dio il Padre, il Figlio e lo Spirito d’amore. Il Dio Trinità è comunione d’amore, e la famiglia è il suo riflesso vivente. Ci illuminano le parole di san Giovanni Paolo II: «Il nostro Dio, nel suo mistero più intimo, non è solitudine, bensì una famiglia, dato che ha in sé paternità, filiazione e l’essenza della famiglia che è l’amore. Questo amore, nella famiglia divina, è lo Spirito Santo».[6]La famiglia non è dunque qualcosa di estraneo alla stessa essenza divina.[7] Questo aspetto trinitario della coppia ha una nuova rappresentazione nella teologia paolina quando l’Apostolo la mette in relazione con il “mistero” dell’unione tra Cristo e la Chiesa (cfr Ef 5,21-33).

12. Ma Gesù, nella sua riflessione sul matrimonio, ci rimanda a un’altra pagina del Libro della Genesi, il capitolo 2, dove appare un mirabile ritratto della coppia con dettagli luminosi. Ne scegliamo solo due. Il primo è l’inquietudine dell’uomo che cerca «un aiuto che gli corrisponda» (vv. 18.20), capace di risolvere quella solitudine che lo disturba e che non è placata dalla vicinanza degli animali e di tutto il creato. L’espressione originale ebraica ci rimanda a una relazione diretta, quasi “frontale” – gli occhi negli occhi – in un dialogo anche tacito, perché nell’amore i silenzi sono spesso più eloquenti delle parole. E’ l’incontro con un volto, un “tu” che riflette l’amore divino ed è «il primo dei beni, un aiuto adatto a lui e una colonna d’appoggio» (Sir 36,26), come dice un saggio biblico. O anche come esclamerà la sposa del Cantico dei Cantici in una stupenda professione d’amore e di donazione nella reciprocità: «Il mio amato è mio e io sono sua […] Io sono del mio amato e il mio amato è mio» (2,16; 6,3).

13. Da questo incontro che guarisce la solitudine sorgono la generazione e la famiglia. Questo è il secondo dettaglio che possiamo rilevare: Adamo, che è anche l’uomo di tutti i tempi e di tutte le regioni del nostro pianeta, insieme con sua moglie dà origine a una nuova famiglia, come ripete Gesù citando la Genesi: «Si unirà a sua moglie e i due saranno un’unica carne» (Mt 19,5; cfr Gen 2,24). Il verbo “unirsi” nell’originale ebraico indica una stretta sintonia, un’adesione fisica e interiore, fino al punto che si utilizza per descrivere l’unione con Dio: «A te si stringe l’anima mia» (Sal 63,9), canta l’orante. Si evoca così l’unione matrimoniale non solamente nella sua dimensione sessuale e corporea, ma anche nella sua donazione volontaria d’amore. Il frutto di questa unione è “diventare un’unica carne”, sia nell’abbraccio fisico, sia nell’unione dei due cuori e della vita e, forse, nel figlio che nascerà dai due, il quale porterà in sé, unendole sia geneticamente sia spiritualmente, le due “carni”.

I tuoi figli come virgulti d’ulivo

14. Riprendiamo il canto del Salmista. In esso compaiono, dentro la casa dove l’uomo e la sua sposa sono seduti a mensa, i figli, che li accompagnano «come virgulti d’ulivo» (Sal 128,3), ossia pieni di energia e di vitalità. Se i genitori sono come le fondamenta della casa, i figli sono come le “pietre vive” della famiglia (cfr 1 Pt 2,5). E’ significativo che nell’Antico Testamento la parola che compare più volte dopo quella divina (YHWH, il “Signore”) è “figlio” (ben), un vocabolo che rimanda al verbo ebraico che significa “costruire” (banah). Per questo nel Salmo 127 si esalta il dono dei figli con immagini che si riferiscono sia all’edificazione di una casa, sia alla vita sociale e commerciale che si svolgeva presso la porta della città: «Se il Signore non costruisce la casa, invano si affaticano i costruttori […] Ecco eredità del Signore sono i figli, è sua ricompensa il frutto del grembo. Come frecce in mano a un guerriero sono i figli avuti in giovinezza. Beato l’uomo che ne ha piena la faretra: non dovrà vergognarsi quando verrà alla porta a trattare con i propri nemici» (vv. 1.3-5). E’ vero che queste immagini riflettono la cultura di una società antica, però la presenza dei figli è in ogni caso un segno di pienezza della famiglia nella continuità della medesima storia della salvezza, di generazione in generazione.

15. In questa prospettiva possiamo porre un’altra dimensione della famiglia. Sappiamo che nel Nuovo Testamento si parla della “Chiesa che si riunisce nella casa” (cfr 1 Cor 16,19; Rm 16,5; Col 4,15; Fm 2). Lo spazio vitale di una famiglia si poteva trasformare in chiesa domestica, in sede dell’Eucaristia, della presenza di Cristo seduto alla stessa mensa. Indimenticabile è la scena dipinta nell’Apocalisse: «Sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (3,20). Così si delinea una casa che porta al proprio interno la presenza di Dio, la preghiera comune e perciò la benedizione del Signore. E’ ciò che si afferma nel Salmo 128 che abbiamo preso come base: «Ecco com’è benedetto l’uomo che teme il Signore. Ti benedica il Signore da Sion» (vv. 4-5).

16. La Bibbia considera la famiglia anche come la sede della catechesi dei figli. Questo brilla nella descrizione della celebrazione pasquale (cfr Es 12,26-27; Dt 6,20-25), e in seguito fu esplicitato nella haggadah giudaica, ossia nella narrazione dialogica che accompagna il rito della cena pasquale. Ancora di più, un Salmo esalta l’annuncio familiare della fede: «Ciò che abbiamo udito e conosciuto e i nostri padri ci hanno raccontato non lo terremo nascosto ai nostri figli, raccontando alla generazione futura le azioni gloriose e potenti del Signore e le meraviglie che egli ha compiuto. Ha stabilito un insegnamento in Giacobbe, ha posto una legge in Israele, che ha comandato ai nostri padri di far conoscere ai loro figli, perché la conosca la generazione futura, i figli che nasceranno. Essi poi si alzeranno a raccontarlo ai loro figli» (78,3-6). Pertanto, la famiglia è il luogo dove i genitori diventano i primi maestri della fede per i loro figli. E’ un compito “artigianale”, da persona a persona: «Quando tuo figlio un domani ti chiederà […] tu gli risponderai…» (Es 13,14). Così le diverse generazioni intoneranno il loro canto al Signore, «i giovani e le ragazze, i vecchi insieme ai bambini» (Sal 148,12).

17. I genitori hanno il dovere di compiere con serietà lo loro missione educativa, come insegnano spesso i sapienti della Bibbia (cfr Pr 3,11-12; 6,20-22; 13,1; 29,17). I figli sono chiamati ad accogliere e praticare il comandamento: «Onora tuo padre e tua madre» (Es 20,12), dove il verbo “onorare” indica l’adempimento degli impegni familiari e sociali nella loro pienezza, senza trascurarli con pretese scusanti religiose (cfr Mc 7,11-13). Infatti, «chi onora il padre espia i peccati, chi onora sua madre è come chi accumula tesori» (Sir 3,3-4).

18. Il Vangelo ci ricorda anche che i figli non sono una proprietà della famiglia, ma hanno davanti il loro personale cammino di vita. Se è vero che Gesù si presenta come modello di obbedienza ai suoi genitori terreni, stando loro sottomesso (cfr Lc 2,51), è pure certo che Egli mostra che la scelta di vita del figlio e la sua stessa vocazione cristiana possono esigere un distacco per realizzare la propria dedizione al Regno di Dio (cfr Mt 10,34-37; Lc 9,59-62). Di più, Egli stesso, a dodici anni, risponde a Maria e a Giuseppe che ha una missione più alta da compiere al di là della sua famiglia storica (cfr Lc 2,48-50). Perciò esalta la necessità di altri legami più profondi anche dentro le relazioni familiari: «Mia madre e i miei fratelli sono questi: coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica» (Lc 8,21). D’altra parte, nell’attenzione che Egli riserva ai bambini – considerati nella società del Vicino Oriente antico come soggetti privi di diritti particolari e come parte della proprietà familiare – Gesù arriva al punto di presentarli agli adulti quasi come maestri, per la loro fiducia semplice e spontanea verso gli altri: «In verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli» (Mt 18,3-4).

Un sentiero di sofferenza e di sangue

19. L’idillio presentato dal Salmo 128 non nega una realtà amara che segna tutte le Sacre Scritture. E’ la presenza del dolore, del male, della violenza che lacerano la vita della famiglia e la sua intima comunione di vita e di amore. Non per nulla il discorso di Cristo sul matrimonio (cfr Mt 19,3-9) è inserito all’interno di una disputa sul divorzio. La Parola di Dio è testimone costante di questa dimensione oscura che si apre già all’inizio quando, con il peccato, la relazione d’amore e di purezza tra l’uomo e la donna si trasforma in un dominio: «Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ed egli ti dominerà» (Gen 3,16).

20. E’ un sentiero di sofferenza e di sangue che attraversa molte pagine della Bibbia, a partire dalla violenza fratricida di Caino su Abele e dai vari litigi tra i figli e tra le spose dei patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe, per giungere poi alle tragedie che riempiono di sangue la famiglia di Davide, fino alle molteplici difficoltà familiari che solcano il racconto di Tobia o l’amara confessione di Giobbe abbandonato: «I miei fratelli si sono allontanati da me, persino i miei familiari mi sono diventati estranei. […] Il mio fiato è ripugnante per mia moglie e faccio ribrezzo ai figli del mio grembo» (Gb 19,13.17).

21. Gesù stesso nasce in una famiglia modesta, che ben presto deve fuggire in una terra straniera. Egli entra nella casa di Pietro dove la suocera di lui giace malata (cfr Mc 1,30-31); si lascia coinvolgere nel dramma della morte nella casa di Giairo e in quella di Lazzaro (cfr Mc 5,22-24.35-43; Gv 11,1-44); ascolta il grido disperato della vedova di Nain davanti a suo figlio morto (cfr Lc 7,11-15); accoglie l’invocazione del padre dell’epilettico in un piccolo villaggio di campagna (cfr Mc 9,17-27). Incontra pubblicani come Matteo e Zaccheo nelle loro case (cfr Mt 9,9-13; Lc 19,1-10), e anche peccatori, come la donna che irrompe nella casa del fariseo (cfr Lc 7,36-50). Conosce le ansie e le tensioni delle famiglie e le inserisce nelle sue parabole: dai figli che se ne vanno di casa in cerca di avventura (cfr Lc 15,11-32) fino ai figli difficili con comportamenti inspiegabili (cfr Mt 21,28-31) o vittime della violenza (cfr Mc 12,1-9). E ancora si preoccupa per le nozze che corrono il rischio di risultare imbarazzanti per la mancanza di vino (cfr Gv 2,1-10) o per la latitanza degli invitati (cfr Mt 22,1-10), come pure conosce l’incubo per la perdita di una moneta in una famiglia povera (cfr Lc 15,8-10).

22. In questo breve percorso possiamo riscontrare che la Parola di Dio non si mostra come una sequenza di tesi astratte, bensì come una compagna di viaggio anche per le famiglie che sono in crisi o attraversano qualche dolore, e indica loro la meta del cammino, quando Dio «asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno» (Ap 21,4).

La fatica delle tue mani

23. All’inizio del Salmo 128, si presenta il padre come un lavoratore, che con l’opera delle sue mani può sostenere il benessere fisico e la serenità della sua famiglia: «Della fatica delle tue mani ti nutrirai, sarai felice e avrai ogni bene» (v. 2). Che il lavoro sia una parte fondamentale della dignità della vita umana, lo si deduce dalle prime pagine della Bibbia, quando si dice che «il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gen 2,15). E’ la rappresentazione del lavoratore che trasforma la materia e sfrutta le energie del creato, producendo il «pane di fatica» (Sal 127,2), oltre a coltivare sé stesso.

24. Il lavoro rende possibile nello stesso tempo lo sviluppo della società, il sostentamento della famiglia e anche la sua stabilità e la sua fecondità: «Possa tu vedere il bene di Gerusalemme tutti i giorni della tua vita! Possa tu vedere i figli dei tuoi figli!» (Sal 128,5-6). Nel Libro dei Proverbi si presenta anche il compito della madre di famiglia, il cui lavoro viene descritto in tutte le sue particolarità quotidiane, attirando la lode dello sposo e dei figli (cfr 31,10-31). Lo stesso apostolo Paolo si mostrava orgoglioso di aver vissuto senza essere di peso per gli altri, perché lavorò con le sue mani assicurandosi così il sostentamento (cfr At 18,3; 1 Cor 4,12; 9,12). Era talmente convinto della necessità del lavoro, che stabilì una ferrea norma per le sue comunità: «Chi non vuole lavorare, neppure mangi» (2 Ts 3,10; cfr 1 Ts 4,11).

25. Detto questo, si capisce come la disoccupazione e la precarietà lavorativa diventino sofferenza, come si registra nel piccolo Libro di Rut e come ricorda Gesù nella parabola dei lavoratori che stanno seduti, in un ozio forzato, nella piazza del paese (cfr Mt 20,1-16), o come Egli sperimenta nel fatto stesso di essere tante volte circondato da bisognosi e affamati. E’ ciò che la società sta vivendo tragicamente in molti paesi, e questa mancanza di lavoro colpisce in diversi modi la serenità delle famiglie.

26. Nemmeno possiamo dimenticare la degenerazione che il peccato introduce nella società, quando l’essere umano si comporta come tiranno nei confronti della natura, devastandola, usandola in modo egoistico e persino brutale. Le conseguenze sono al tempo stesso la desertificazione del suolo (cfr Gen 3,17-19) e gli squilibri economici e sociali, contro i quali si leva con chiarezza la voce dei profeti, da Elia (cfr 1 Re 21) fino alle parole che Gesù stesso pronuncia contro l’ingiustizia (cfr Lc 12,13-21; 16,1-31).

La tenerezza dell’abbraccio

27. Cristo ha introdotto come segno distintivo dei suoi discepoli soprattutto la legge dell’amore e del dono di sé agli altri (cfr Mt22,39; Gv 13,34), e l’ha fatto attraverso un principio che un padre e una madre sono soliti testimoniare nella propria esistenza: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (Gv 15,13). Frutto dell’amore sono anche la misericordia e il perdono. In questa linea, è molto emblematica la scena che mostra un’adultera sulla spianata del tempio di Gerusalemme, circondata dai suoi accusatori, e poi sola con Gesù che non la condanna e la invita ad una vita più dignitosa (cfr Gv8,1-11).

28. Nell’orizzonte dell’amore, essenziale nell’esperienza cristiana del matrimonio e della famiglia, risalta anche un’altra virtù, piuttosto ignorata in questi tempi di relazioni frenetiche e superficiali: la tenerezza. Ricorriamo al dolce e intenso Salmo 131. Come si riscontra anche in altri testi (cfr Es 4,22; Is 49,15; Sal 27,10), l’unione tra il fedele e il suo Signore si esprime con tratti dell’amore paterno e materno. Qui appare la delicata e tenera intimità che esiste tra la madre e il suo bambino, un neonato che dorme in braccio a sua madre dopo essere stato allattato. Si tratta – come indica la parola ebraica gamul – di un bambino già svezzato, che si afferra coscientemente alla madre che lo porta al suo petto. E’ dunque un’intimità consapevole e non meramente biologica. Perciò il salmista canta: «Io resto quieto e sereno: come un bimbo svezzato in braccio a sua madre» (Sal 131,2). Parallelamente, possiamo rifarci ad un’altra scena, là dove il profeta Osea pone in bocca a Dio come padre queste parole commoventi: «Quando Israele era fanciullo, io l’ho amato […] (gli) insegnavo a camminare tenendolo per mano […] Io lo traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore, ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia, mi chinavo su di lui per dargli da mangiare» (11,1.3-4).

29. Con questo sguardo, fatto di fede e di amore, di grazia e di impegno, di famiglia umana e di Trinità divina, contempliamo la famiglia che la Parola di Dio affida nelle mani dell’uomo, della donna e dei figli perché formino una comunione di persone che sia immagine dell’unione tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. L’attività generativa ed educativa è, a sua volta, un riflesso dell’opera creatrice del Padre. La famiglia è chiamata a condividere la preghiera quotidiana, la lettura della Parola di Dio e la comunione eucaristica per far crescere l’amore e convertirsi sempre più in tempio dove abita lo Spirito.

30. Davanti ad ogni famiglia si presenta l’icona della famiglia di Nazaret, con la sua quotidianità fatta di fatiche e persino di incubi, come quando dovette patire l’incomprensibile violenza di Erode, esperienza che si ripete tragicamente ancor oggi in tante famiglie di profughi rifiutati e inermi. Come i magi, le famiglie sono invitate a contemplare il Bambino e la Madre, a prostrarsi e ad adorarlo (cfr Mt 2,11). Come Maria, sono esortate a vivere con coraggio e serenità le loro sfide familiari, tristi ed entusiasmanti, e a custodire e meditare nel cuore le meraviglie di Dio (cfr Lc 2,19.51). Nel tesoro del cuore di Maria ci sono anche tutti gli avvenimenti di ciascuna delle nostre famiglie, che ella conserva premurosamente. Perciò può aiutarci a interpretarli per riconoscere nella storia familiare il messaggio di Dio.

 

CAPITOLO SECONDO

LA REALTÀ E LE SFIDE DELLE FAMIGLIE

31. Il bene della famiglia è decisivo per il futuro del mondo e della Chiesa. Sono innumerevoli le analisi che si sono fatte sul matrimonio e la famiglia, sulle loro difficoltà e sfide attuali. E’ sano prestare attenzione alla realtà concreta, perché «le richieste e gli appelli dello Spirito risuonano anche negli stessi avvenimenti della storia», attraverso i quali «la Chiesa può essere guidata ad una intelligenza più profonda dell’inesauribile mistero del matrimonio e della famiglia».[8] Non pretendo di presentare qui tutto ciò che si potrebbe dire circa i diversi temi relativi alla famiglia nel contesto attuale. Ma poiché i Padri sinodali hanno apportato uno sguardo sulla realtà delle famiglie di tutto il mondo, ritengo opportuno raccogliere alcuni dei loro contributi pastorali, aggiungendo altre preoccupazioni che provengono dal mio proprio sguardo.

La situazione attuale della famiglia

32. « Fedeli all’insegnamento di Cristo guardiamo alla realtà della famiglia oggi in tutta la sua complessità, nelle sue luci e nelle sue ombre. […] Il cambiamento antropologico-culturale influenza oggi tutti gli aspetti della vita e richiede un approccio analitico e diversificato».[9] Nel contesto di vari decenni fa, i Vescovi di Spagna riconoscevano già una realtà domestica con maggiori spazi di libertà, «con un’equa ripartizione di incarichi, responsabilità e compiti […] Valorizzando di più la comunicazione personale tra gli sposi, si contribuisce a umanizzare l’intera convivenza familiare […] Né la società in cui viviamo né quella verso la quale camminiamo permettono la sopravvivenza indiscriminata di forme e modelli del passato».[10] Ma «siamo consapevoli dell’orientamento principale dei cambiamenti antropologico-culturali, in ragione dei quali gli individui sono meno sostenuti che in passato dalle strutture sociali nella loro vita affettiva e familiare».[11]

33. D’altra parte, «bisogna egualmente considerare il crescente pericolo rappresentato da un individualismo esasperato che snatura i legami familiari e finisce per considerare ogni componente della famiglia come un’isola, facendo prevalere, in certi casi, l’idea di un soggetto che si costruisce secondo i propri desideri assunti come un assoluto».[12] «Le tensioni indotte da una esasperata cultura individualistica del possesso e del godimento generano all’interno delle famiglie dinamiche di insofferenza e di aggressività».[13]Vorrei aggiungere il ritmo della vita attuale, lo stress, l’organizzazione sociale e lavorativa, perché sono fattori culturali che mettono a rischio la possibilità di scelte permanenti. Nello stesso tempo troviamo fenomeni ambigui. Per esempio, si apprezza una personalizzazione che punta sull’autenticità invece che riprodurre comportamenti prestabiliti. E’ un valore che può promuovere le diverse capacità e la spontaneità, ma che, orientato male, può creare atteggiamenti di costante diffidenza, fuga dagli impegni, chiusura nella comodità, arroganza. La libertà di scegliere permette di proiettare la propria vita e coltivare il meglio di sé, ma, se non ha obiettivi nobili e disciplina personale, degenera in una incapacità di donarsi generosamente. Di fatto, in molti paesi dove diminuisce il numero di matrimoni, cresce il numero di persone che decidono di vivere sole, o che convivono senza coabitare. Possiamo rilevare anche un lodevole senso di giustizia; però, se male inteso, esso trasforma i cittadini in clienti che pretendono soltanto la prestazione di servizi.

34. Se questi rischi si trasferiscono al modo di intendere la famiglia, questa può trasformarsi in un luogo di passaggio, al quale ci si rivolge quando pare conveniente per sé, o dove si va a reclamare diritti, mentre i vincoli rimangono abbandonati alla precarietà volubile dei desideri e delle circostanze. In fondo, oggi è facile confondere la genuina libertà con l’idea che ognuno giudica come gli pare, come se al di là degli individui non ci fossero verità, valori, principi che ci orientino, come se tutto fosse uguale e si dovesse permettere qualsiasi cosa. In tale contesto, l’ideale matrimoniale, con un impegno di esclusività e di stabilità, finisce per essere distrutto dalle convenienze contingenti o dai capricci della sensibilità. Si teme la solitudine, si desidera uno spazio di protezione e di fedeltà, ma nello stesso tempo cresce il timore di essere catturati da una relazione che possa rimandare il soddisfacimento delle aspirazioni personali.

35. Come cristiani non possiamo rinunciare a proporre il matrimonio allo scopo di non contraddire la sensibilità attuale, per essere alla moda, o per sentimenti di inferiorità di fronte al degrado morale e umano. Staremmo privando il mondo dei valori che possiamo e dobbiamo offrire. Certo, non ha senso fermarsi a una denuncia retorica dei mali attuali, come se con ciò potessimo cambiare qualcosa. Neppure serve pretendere di imporre norme con la forza dell’autorità. Ci è chiesto uno sforzo più responsabile e generoso, che consiste nel presentare le ragioni e le motivazioni per optare in favore del matrimonio e della famiglia, così che le persone siano più disposte a rispondere alla grazia che Dio offre loro.

36. Al tempo stesso dobbiamo essere umili e realisti, per riconoscere che a volte il nostro modo di presentare le convinzioni cristiane e il modo di trattare le persone hanno aiutato a provocare ciò di cui oggi ci lamentiamo, per cui ci spetta una salutare reazione di autocritica. D’altra parte, spesso abbiamo presentato il matrimonio in modo tale che il suo fine unitivo, l’invito a crescere nell’amore e l’ideale di aiuto reciproco sono rimasti in ombra per un accento quasi esclusivo posto sul dovere della procreazione. Né abbiamo fatto un buon accompagnamento dei nuovi sposi nei loro primi anni, con proposte adatte ai loro orari, ai loro linguaggi, alle loro preoccupazioni più concrete. Altre volte abbiamo presentato un ideale teologico del matrimonio troppo astratto, quasi artificiosamente costruito, lontano dalla situazione concreta e dalle effettive possibilità delle famiglie così come sono. Questa idealizzazione eccessiva, soprattutto quando non abbiamo risvegliato la fiducia nella grazia, non ha fatto sì che il matrimonio sia più desiderabile e attraente, ma tutto il contrario.

37. Per molto tempo abbiamo creduto che solamente insistendo su questioni dottrinali, bioetiche e morali, senza motivare l’apertura alla grazia, avessimo già sostenuto a sufficienza le famiglie, consolidato il vincolo degli sposi e riempito di significato la loro vita insieme. Abbiamo difficoltà a presentare il matrimonio più come un cammino dinamico di crescita e realizzazione che come un peso da sopportare per tutta la vita. Stentiamo anche a dare spazio alla coscienza dei fedeli, che tante volte rispondono quanto meglio possibile al Vangelo in mezzo ai loro limiti e possono portare avanti il loro personale discernimento davanti a situazioni in cui si rompono tutti gli schemi. Siamo chiamati a formare le coscienze, non a pretendere di sostituirle.

38. Dobbiamo ringraziare per il fatto che la maggior parte della gente stima le relazioni familiari che vogliono durare nel tempo e che assicurano il rispetto all’altro. Perciò si apprezza che la Chiesa offra spazi di accompagnamento e di assistenza su questioni connesse alla crescita dell’amore, al superamento dei conflitti e all’educazione dei figli. Molti stimano la forza della grazia che sperimentano nella Riconciliazione sacramentale e nell’Eucaristia, che permette loro di sostenere le sfide del matrimonio e della famiglia. In alcuni paesi, specialmente in diverse parti dell’Africa, il secolarismo non è riuscito a indebolire alcuni valori tradizionali e in ogni matrimonio si produce una forte unione tra due famiglie allargate, dove ancora si mantiene un sistema ben definito di gestione di conflitti e difficoltà. Nel mondo attuale si apprezza anche la testimonianza dei coniugi che non solo hanno perseverato nel tempo, ma continuano a portare avanti un progetto comune e conservano l’affetto. Questo apre la porta a una pastorale positiva, accogliente, che rende possibile un approfondimento graduale delle esigenze del Vangelo. Tuttavia, molte volte abbiamo agito con atteggiamento difensivo e sprechiamo le energie pastorali moltiplicando gli attacchi al mondo decadente, con poca capacità propositiva per indicare strade di felicità. Molti non percepiscono che il messaggio della Chiesa sul matrimonio e la famiglia sia stato un chiaro riflesso della predicazione e degli atteggiamenti di Gesù, il quale nel contempo proponeva un ideale esigente e non perdeva mai la vicinanza compassionevole alle persone fragili come la samaritana o la donna adultera.

39. Questo non significa non riconoscere più la decadenza culturale che non promuove l’amore e la dedizione. Le consultazioni previe ai due ultimi Sinodi hanno fatto emergere diversi sintomi della “cultura del provvisorio”. Mi riferisco, per esempio, alla rapidità con cui le persone passano da una relazione affettiva ad un’altra. Credono che l’amore, come nelle reti sociali, si possa connettere o disconnettere a piacimento del consumatore e anche bloccare velocemente. Penso anche al timore che suscita la prospettiva di un impegno permanente, all’ossessione per il tempo libero, alle relazioni che calcolano costi e benefici e si mantengono unicamente se sono un mezzo per rimediare alla solitudine, per avere protezione o per ricevere qualche servizio. Si trasferisce alle relazioni affettive quello che accade con gli oggetti e con l’ambiente: tutto è scartabile, ciascuno usa e getta, spreca e rompe, sfrutta e spreme finché serve. E poi addio. Il narcisismo rende le persone incapaci di guardare al di là di sé stesse, dei propri desideri e necessità. Ma chi utilizza gli altri prima o poi finisce per essere utilizzato, manipolato e abbandonato con la stessa logica. E’ degno di nota il fatto che le rotture dei legami avvengono molte volte tra persone adulte che cercano una sorta di “autonomia” e rifiutano l’ideale di invecchiare insieme prendendosi cura l’uno dell’altro e sostenendosi.

40. «A rischio di banalizzare, potremmo dire che viviamo in una cultura che spinge i giovani a non formare una famiglia, perché mancano loro possibilità per il futuro. Ma questa stessa cultura presenta ad altri così tante opzioni che anch’essi sono dissuasi dal formare una famiglia».[14] In alcuni paesi, molti giovani «spesso sono indotti a rimandare le nozze per problemi di tipo economico, lavorativo o di studio. Talora anche per altri motivi, come l’influenza delle ideologie che svalutano il matrimonio e la famiglia, l’esperienza del fallimento di altre coppie che essi non vogliono rischiare, il timore verso qualcosa che considerano troppo grande e sacro, le opportunità sociali ed i vantaggi economici che derivano dalla convivenza, una concezione meramente emotiva e romantica dell’amore, la paura di perdere la libertà e l’autonomia, il rifiuto di qualcosa concepito come istituzionale e burocratico».[15]Abbiamo bisogno di trovare le parole, le motivazioni e le testimonianze che ci aiutino a toccare le fibre più intime dei giovani, là dove sono più capaci di generosità, di impegno, di amore e anche di eroismo, per invitarli ad accettare con entusiasmo e coraggio la sfida del matrimonio.

41. I Padri sinodali hanno fatto riferimento alle attuali «tendenze culturali che sembrano imporre un’affettività senza limiti, […] un’affettività narcisistica, instabile e mutevole che non aiuta sempre i soggetti a raggiungere una maggiore maturità». Si sono detti preoccupati per «una certa diffusione della pornografia e della commercializzazione del corpo, favorita anche da un uso distorto di internet» e per la «situazione di quelle persone che sono obbligate a praticare la prostituzione». In questo contesto, «le coppie sono talvolta incerte, esitanti e faticano a trovare i modi per crescere. Molti sono quelli che tendono a restare negli stadi primari della vita emozionale e sessuale. La crisi della coppia destabilizza la famiglia e può arrivare attraverso le separazioni e i divorzi a produrre serie conseguenze sugli adulti, i figli e la società, indebolendo l’individuo e i legami sociali».[16] Le crisi coniugali frequentemente si affrontano «in modo sbrigativo e senza il coraggio della pazienza, della verifica, del perdono reciproco, della riconciliazione e anche del sacrificio. I fallimenti danno, così, origine a nuove relazioni, nuove coppie, nuove unioni e nuovi matrimoni, creando situazioni famigliari complesse e problematiche per la scelta cristiana».[17]

42. «Anche il calo demografico, dovuto ad una mentalità antinatalista e promosso dalle politiche mondiali di salute riproduttiva, non solo determina una situazione in cui l’avvicendarsi delle generazioni non è più assicurato, ma rischia di condurre nel tempo a un impoverimento economico e a una perdita di speranza nell’avvenire. Lo sviluppo delle biotecnologie ha avuto anch’esso un forte impatto sulla natalità».[18] Possono aggiungersi altri fattori come «l’industrializzazione, la rivoluzione sessuale, il timore della sovrappopolazione, i problemi economici, […]. La società dei consumi può anche dissuadere le persone dall’avere figli anche solo per mantenere la loro libertà e il proprio stile di vita».[19] E’ vero che la retta coscienza degli sposi, quando sono stati molto generosi nella trasmissione della vita, può orientarli alla decisione di limitare il numero dei figli per motivi sufficientemente seri, ma sempre «per amore di questa dignità della coscienza la Chiesa rigetta con tutte le sue forze gli interventi coercitivi dello Stato a favore di contraccezione, sterilizzazione o addirittura aborto».[20] Tali misure sono inaccettabili anche in luoghi con alto tasso di natalità, ma è da rilevare che i politici le incoraggiano anche in alcuni paesi che soffrono il dramma di un tasso di natalità molto basso. Come hanno indicato i Vescovi della Corea, questo è «agire in un modo contraddittorio e venendo meno al proprio dovere».[21]

43. L’indebolimento della fede e della pratica religiosa in alcune società ha effetti sulle famiglie e le lascia più sole con le loro difficoltà. I Padri hanno affermato che «una delle più grandi povertà della cultura attuale è la solitudine, frutto dell’assenza di Dio nella vita delle persone e della fragilità delle relazioni. C’è anche una sensazione generale di impotenza nei confronti della realtà socio-economica che spesso finisce per schiacciare le famiglie. […] Spesso le famiglie si sentono abbandonate per il disinteresse e la poca attenzione da parte delle istituzioni. Le conseguenze negative dal punto di vista dell’organizzazione sociale sono evidenti: dalla crisi demografica alle difficoltà educative, dalla fatica nell’accogliere la vita nascente all’avvertire la presenza degli anziani come un peso, fino al diffondersi di un disagio affettivo che arriva talvolta alla violenza. È responsabilità dello Stato creare le condizioni legislative e di lavoro per garantire l’avvenire dei giovani e aiutarli a realizzare il loro progetto di fondare una famiglia».[22]

44. La mancanza di una abitazione dignitosa o adeguata porta spesso a rimandare la formalizzazione di una relazione. Occorre ricordare che «la famiglia ha il diritto a un’abitazione decente, adatta per la vita della famiglia e proporzionata al numero dei membri, in un ambiente che provveda i servizi di base per la vita della famiglia e della comunità».[23] Una famiglia e una casa sono due cose che si richiamano a vicenda. Questo esempio mostra che dobbiamo insistere sui diritti della famiglia, e non solo sui diritti individuali. La famiglia è un bene da cui la società non può prescindere, ma ha bisogno di essere protetta.[24] La difesa di questi diritti è «un appello profetico in favore dell’istituzione familiare, la quale deve essere rispettata e difesa da tutte le usurpazioni»,[25]soprattutto nel contesto attuale dove solitamente occupa poco spazio nei progetti politici. Le famiglie hanno, tra gli altri diritti, quello di «poter fare assegnamento su una adeguata politica familiare da parte delle pubbliche autorità nell’ambito giuridico, economico, sociale e fiscale».[26] A volte sono drammatiche le angustie delle famiglie quando, in presenza della malattia di una persona cara, non hanno accesso a servizi sanitari adeguati, o quando si prolunga il tempo senza che si ottenga un impiego dignitoso. «Le coercizioni economiche escludono l’accesso delle famiglie all’educazione, alla vita culturale e alla vita sociale attiva. L’attuale sistema economico produce diverse forme di esclusione sociale. Le famiglie soffrono in modo particolare i problemi che riguardano il lavoro. Le possibilità per i giovani sono poche e l’offerta di lavoro è molto selettiva e precaria. Le giornate lavorative sono lunghe e spesso appesantite da lunghi tempi di trasferta. Questo non aiuta i familiari a ritrovarsi tra loro e con i figli, in modo da alimentare quotidianamente le loro relazioni».[27]

45. «Molti sono i bambini che nascono fuori dal matrimonio, specie in alcuni Paesi, e molti quelli che poi crescono con uno solo dei genitori o in un contesto familiare allargato o ricostituito. […] Lo sfruttamento sessuale dell’infanzia costituisce poi una delle realtà più scandalose e perverse della società attuale. Anche le società attraversate dalla violenza a causa della guerra, del terrorismo o della presenza della criminalità organizzata, vedono situazioni familiari deteriorate e soprattutto nelle grandi metropoli e nelle loro periferie cresce il cosiddetto fenomeno dei bambini di strada».[28] L’abuso sessuale dei bambini diventa ancora più scandaloso quando avviene in luoghi dove essi devono essere protetti, particolarmente nelle famiglie, nelle scuole e nelle comunità e istituzioni cristiane.[29]

46. Le migrazioni «rappresentano un altro segno dei tempi da affrontare e comprendere con tutto il carico di conseguenze sulla vita familiare».[30] L’ultimo Sinodo ha dato una grande importanza a questa problematica, affermando che «tocca, con modalità differenti, intere popolazioni, in diverse parti del mondo. La Chiesa ha esercitato in questo campo un ruolo di primo piano. La necessità di mantenere e sviluppare questa testimonianza evangelica (cf. Mt 25,35) appare oggi più che mai urgente. […] La mobilità umana, che corrisponde al naturale movimento storico dei popoli, può rivelarsi un’autentica ricchezza tanto per la famiglia che emigra quanto per il paese che la accoglie. Altra cosa è la migrazione forzata delle famiglie, frutto di situazioni di guerra, di persecuzione, di povertà, di ingiustizia, segnata dalle peripezie di un viaggio che mette spesso in pericolo la vita, traumatizza le persone e destabilizza le famiglie. L’accompagnamento dei migranti esige una pastorale specifica rivolta alle famiglie in migrazione, ma anche ai membri dei nuclei familiari rimasti nei luoghi d’origine. Ciò deve essere attuato nel rispetto delle loro culture, della formazione religiosa ed umana da cui provengono, della ricchezza spirituale dei loro riti e tradizioni, anche mediante una cura pastorale specifica. […] Le migrazioni appaiono particolarmente drammatiche e devastanti per le famiglie e per gli individui quando hanno luogo al di fuori della legalità e sono sostenute da circuiti internazionali di tratta degli esseri umani. Lo stesso può dirsi quando riguardano donne o bambini non accompagnati, costretti a soggiorni prolungati nei luoghi di passaggio, nei campi profughi, dove è impossibile avviare un percorso di integrazione. La povertà estrema e altre situazioni di disgregazione inducono talvolta le famiglie perfino a vendere i propri figli per la prostituzione o per il traffico di organi».[31] «Le persecuzioni dei cristiani, come anche quelle di minoranze etniche e religiose, in diverse parti del mondo, specialmente in Medio Oriente, rappresentano una grande prova: non solo per la Chiesa, ma anche per l’intera comunità internazionale. Ogni sforzo va sostenuto per favorire la permanenza di famiglie e comunità cristiane nelle loro terre di origine».[32]

47. I Padri hanno dedicato speciale attenzione anche «alle famiglie delle persone con disabilità, in cui l’handicap, che irrompe nella vita, genera una sfida, profonda e inattesa, e sconvolge gli equilibri, i desideri, le aspettative. […] Meritano grande ammirazione le famiglie che accettano con amore la difficile prova di un figlio disabile. Esse danno alla Chiesa e alla società una testimonianza preziosa di fedeltà al dono della vita. La famiglia potrà scoprire, insieme alla comunità cristiana, nuovi gesti e linguaggi, forme di comprensione e di identità, nel cammino di accoglienza e cura del mistero della fragilità. Le persone con disabilità costituiscono per la famiglia un dono e un’opportunità per crescere nell’amore, nel reciproco aiuto e nell’unità. […] La famiglia che accetta con lo sguardo della fede la presenza di persone con disabilità potrà riconoscere e garantire la qualità e il valore di ogni vita, con i suoi bisogni, i suoi diritti e le sue opportunità. Essa solleciterà servizi e cure, e promuoverà compagnia ed affetto, in ogni fase della vita».[33] Desidero sottolineare che l’attenzione dedicata tanto ai migranti quanto alle persone con disabilità è un segno dello Spirito. Infatti entrambe le situazioni sono paradigmatiche: mettono specialmente in gioco il modo in cui si vive oggi la logica dell’accoglienza misericordiosa e dell’integrazione delle persone fragili.

48. «La maggior parte delle famiglie rispetta gli anziani, li circonda di affetto e li considera una benedizione. Uno speciale apprezzamento va alle associazioni e ai movimenti familiari che operano in favore degli anziani, sotto l’aspetto spirituale e sociale […]. Nelle società altamente industrializzate, ove il loro numero tende ad aumentare mentre decresce la natalità, essi rischiano di essere percepiti come un peso. D’altra parte le cure che essi richiedono mettono spesso a dura prova i loro cari».[34] «La valorizzazione della fase conclusiva della vita è oggi tanto più necessaria quanto più si tenta di rimuovere in ogni modo il momento del trapasso. La fragilità e dipendenza dell’anziano talora vengono sfruttate iniquamente per mero vantaggio economico. Numerose famiglie ci insegnano che è possibile affrontare le ultime tappe della vita valorizzando il senso del compimento e dell’integrazione dell’intera esistenza nel mistero pasquale. Un gran numero di anziani è accolto in strutture ecclesiali dove possono vivere in un ambiente sereno e familiare sul piano materiale e spirituale. L’eutanasia e il suicidio assistito sono gravi minacce per le famiglie in tutto il mondo. La loro pratica è legale in molti Stati. La Chiesa, mentre contrasta fermamente queste prassi, sente il dovere di aiutare le famiglie che si prendono cura dei loro membri anziani e ammalati».[35]

49. Voglio mettere in risalto la situazione delle famiglie schiacciate dalla miseria, penalizzate in tanti modi, dove i limiti della vita si vivono in maniera lacerante. Se tutti incontrano difficoltà, in una casa molto povera queste diventano più dure.[36] Per esempio, se una donna deve allevare suo figlio da sola, per una separazione o per altre cause, e deve lavorare senza la possibilità di lasciarlo a un’altra persona, lui cresce in un abbandono che lo espone ad ogni tipo di rischio, e la sua maturazione personale resta compromessa. Nelle difficili situazioni che vivono le persone più bisognose, la Chiesa deve avere una cura speciale per comprendere, consolare, integrare, evitando di imporre loro una serie di norme come se fossero delle pietre, ottenendo con ciò l’effetto di farle sentire giudicate e abbandonate proprio da quella Madre che è chiamata a portare loro la misericordia di Dio. In tal modo, invece di offrire la forza risanatrice della grazia e la luce del Vangelo, alcuni vogliono “indottrinare” il Vangelo, trasformarlo in «pietre morte da scagliare contro gli altri».[37]

Alcune sfide

50. Le risposte ricevute alle due consultazioni, effettuate durante il cammino sinodale, hanno menzionato le più diverse situazioni che pongono nuove sfide. Oltre a quelle già indicate, molti si sono riferiti alla funzione educativa, che si trova in difficoltà perché, tra le altre cause, i genitori tornano a casa stanchi e senza voglia di parlare, in tante famiglie non c’è più nemmeno l’abitudine di mangiare insieme, e cresce una gran varietà di offerte di distrazioni oltre la dipendenza dalla televisione. Questo rende difficile la trasmissione della fede da genitori a figli. Altri hanno segnalato che le famiglie sono spesso malate di un’enorme ansietà. Sembra che siano più preoccupate di prevenire problemi futuri che di condividere il presente. Questo, che è una questione culturale, si aggrava a causa di un futuro professionale incerto, dell’insicurezza economica, o del timore per l’avvenire dei figli.

51. E’ stata menzionata anche la tossicodipendenza come una delle piaghe della nostra epoca, che fa soffrire molte famiglie, e non di rado finisce per distruggerle. Qualcosa di simile succede con l’alcolismo, il gioco e altre dipendenze. La famiglia potrebbe essere il luogo della prevenzione e delle buone regole, ma la società e la politica non arrivano a capire che una famiglia a rischio «perde la capacità di reazione per aiutare i suoi membri […] Notiamo le gravi conseguenze di questa rottura in famiglie distrutte, figli sradicati, anziani abbandonati, bambini orfani di genitori vivi, adolescenti e giovani disorientati e senza regole».[38] Come hanno indicato i Vescovi del Messico, ci sono tristi situazioni di violenza familiare che sono terreno fertile per nuove forme di aggressività sociale, perché «le relazioni familiari spiegano anche la predisposizione a una personalità violenta. Le famiglie che influiscono in tal senso sono quelle che mancano di comunicazione; quelle in cui predominano atteggiamenti difensivi e i membri non si appoggiano tra loro; in cui non ci sono attività familiari che favoriscano la partecipazione; in cui le relazioni dei genitori tra loro sono spesso conflittuali e violente, e quelle genitori-figli si caratterizzano per atteggiamenti ostili. La violenza intrafamiliare è scuola di risentimento e di odio nelle relazioni umane fondamentali».[39]

52. Nessuno può pensare che indebolire la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio sia qualcosa che giova alla società. Accade il contrario: pregiudica la maturazione delle persone, la cura dei valori comunitari e lo sviluppo etico delle città e dei villaggi. Non si avverte più con chiarezza che solo l’unione esclusiva e indissolubile tra un uomo e una donna svolge una funzione sociale piena, essendo un impegno stabile e rendendo possibile la fecondità. Dobbiamo riconoscere la grande varietà di situazioni familiari che possono offrire una certa regola di vita, ma le unioni di fatto o tra persone dello stesso sesso, per esempio, non si possono equiparare semplicisticamente al matrimonio. Nessuna unione precaria o chiusa alla trasmissione della vita ci assicura il futuro della società. Ma chi si occupa oggi di sostenere i coniugi, di aiutarli a superare i rischi che li minacciano, di accompagnarli nel loro ruolo educativo, di stimolare la stabilità dell’unione coniugale?

53. «In alcune società vige ancora la pratica della poligamia; in altri contesti permane la pratica dei matrimoni combinati. […] In molti contesti, e non solo occidentali, si va diffondendo ampiamente la prassi della convivenza che precede il matrimonio o anche quella di convivenze non orientate ad assumere la forma di un vincolo istituzionale».[40] In diversi paesi la legislazione facilita lo sviluppo di una molteplicità di alternative, così che un matrimonio connotato da esclusività, indissolubilità e apertura alla vita finisce per apparire una proposta antiquata tra molte altre. Avanza in molti paesi una decostruzione giuridica della famiglia che tende ad adottare forme basate quasi esclusivamente sul paradigma dell’autonomia della volontà. Benché sia legittimo e giusto che si respingano vecchie forme di famiglia “tradizionale” caratterizzate dall’autoritarismo e anche dalla violenza, questo non dovrebbe portare al disprezzo del matrimonio bensì alla riscoperta del suo vero senso e al suo rinnovamento. La forza della famiglia «risiede essenzialmente nella sua capacità di amare e di insegnare ad amare. Per quanto ferita possa essere una famiglia, essa può sempre crescere a partire dall’amore».[41]

54. In questo breve sguardo sulla realtà, desidero rilevare che, per quanto ci siano stati notevoli miglioramenti nel riconoscimento dei diritti della donna e nella sua partecipazione allo spazio pubblico, c’è ancora molto da crescere in alcuni paesi. Non sono ancora del tutto sradicati costumi inaccettabili. Anzitutto la vergognosa violenza che a volte si usa nei confronti delle donne, i maltrattamenti familiari e varie forme di schiavitù che non costituiscono una dimostrazione di forza mascolina bensì un codardo degrado. La violenza verbale, fisica e sessuale che si esercita contro le donne in alcune coppie di sposi contraddice la natura stessa dell’unione coniugale. Penso alla grave mutilazione genitale della donna in alcune culture, ma anche alla disuguaglianza dell’accesso a posti di lavoro dignitosi e ai luoghi in cui si prendono le decisioni. La storia ricalca le orme degli eccessi delle culture patriarcali, dove la donna era considerata di seconda classe, ma ricordiamo anche la pratica dell’“utero in affitto” o la «strumentalizzazione e mercificazione del corpo femminile nell’attuale cultura mediatica».[42] C’è chi ritiene che molti problemi attuali si sono verificati a partire dall’emancipazione della donna. Ma questo argomento non è valido, «è una falsità, non è vero. E’ una forma di maschilismo».[43]L’identica dignità tra l’uomo e la donna ci porta a rallegrarci del fatto che si superino vecchie forme di discriminazione, e che in seno alle famiglie si sviluppi uno stile di reciprocità. Se sorgono forme di femminismo che non possiamo considerare adeguate, ammiriamo ugualmente l’opera dello Spirito nel riconoscimento più chiaro della dignità della donna e dei suoi diritti.

55. L’uomo «riveste un ruolo egualmente decisivo nella vita della famiglia, con particolare riferimento alla protezione e al sostegno della sposa e dei figli. […] Molti uomini sono consapevoli dell’importanza del proprio ruolo nella famiglia e lo vivono con le qualità peculiari dell’indole maschile. L’assenza del padre segna gravemente la vita familiare, l’educazione dei figli e il loro inserimento nella società. La sua assenza può essere fisica, affettiva, cognitiva e spirituale. Questa carenza priva i figli di un modello adeguato del comportamento paterno».[44]

56. Un’altra sfida emerge da varie forme di un’ideologia, genericamente chiamata gender, che «nega la differenza e la reciprocità naturale di uomo e donna. Essa prospetta una società senza differenze di sesso, e svuota la base antropologica della famiglia. Questa ideologia induce progetti educativi e orientamenti legislativi che promuovono un’identità personale e un’intimità affettiva radicalmente svincolate dalla diversità biologica fra maschio e femmina. L’identità umana viene consegnata ad un’opzione individualistica, anche mutevole nel tempo».[45] E’ inquietante che alcune ideologie di questo tipo, che pretendono di rispondere a certe aspirazioni a volte comprensibili, cerchino di imporsi come un pensiero unico che determini anche l’educazione dei bambini. Non si deve ignorare che «sesso biologico (sex) e ruolo sociale-culturale del sesso (gender), si possono distinguere, ma non separare».[46] D’altra parte, «la rivoluzione biotecnologica nel campo della procreazione umana ha introdotto la possibilità di manipolare l’atto generativo, rendendolo indipendente dalla relazione sessuale tra uomo e donna. In questo modo, la vita umana e la genitorialità sono divenute realtà componibili e scomponibili, soggette prevalentemente ai desideri di singoli o di coppie».[47] Una cosa è comprendere la fragilità umana o la complessità della vita, altra cosa è accettare ideologie che pretendono di dividere in due gli aspetti inseparabili della realtà. Non cadiamo nel peccato di pretendere di sostituirci al Creatore. Siamo creature, non siamo onnipotenti. Il creato ci precede e dev’essere ricevuto come dono. Al tempo stesso, siamo chiamati a custodire la nostra umanità, e ciò significa anzitutto accettarla e rispettarla come è stata creata.

57. Rendo grazie a Dio perché molte famiglie, che sono ben lontane dal considerarsi perfette, vivono nell’amore, realizzano la propria vocazione e vanno avanti anche se cadono tante volte lungo il cammino. A partire dalle riflessioni sinodali non rimane uno stereotipo della famiglia ideale, bensì un interpellante mosaico formato da tante realtà diverse, piene di gioie, drammi e sogni. Le realtà che ci preoccupano sono sfide. Non cadiamo nella trappola di esaurirci in lamenti autodifensivi, invece di suscitare una creatività missionaria. In tutte le situazioni «la Chiesa avverte la necessità di dire una parola di verità e di speranza. […] I grandi valori del matrimonio e della famiglia cristiana corrispondono alla ricerca che attraversa l’esistenza umana».[48] Se constatiamo molte difficoltà, esse sono – come hanno affermato i Vescovi della Colombia – un invito a «liberare in noi le energie della speranza traducendole in sogni profetici, azioni trasformatrici e immaginazione della carità».[49]

 

CAPITOLO TERZO

LO SGUARDO RIVOLTO A GESÙ: LA VOCAZIONE DELLA FAMIGLIA

58. Davanti alle famiglie e in mezzo ad esse deve sempre nuovamente risuonare il primo annuncio, ciò che è «più bello, più grande, più attraente e allo stesso tempo più necessario»[50], e «deve occupare il centro dell’attività evangelizzatrice».[51] È l’annuncio principale, «quello che si deve sempre tornare ad ascoltare in modi diversi e che si deve sempre tornare ad annunciare durante la catechesi in una forma o nell’altra».[52] Perché «non c’è nulla di più solido, di più profondo, di più sicuro, di più consistente e di più saggio di tale annuncio» e «tutta la formazione cristiana è prima di tutto l’approfondimento del kerygma».[53]

59. Il nostro insegnamento sul matrimonio e la famiglia non può cessare di ispirarsi e di trasfigurarsi alla luce di questo annuncio di amore e di tenerezza, per non diventare mera difesa di una dottrina fredda e senza vita. Infatti, non si può neppure comprendere pienamente il mistero della famiglia cristiana se non alla luce dell’infinito amore del Padre, che si è manifestato in Cristo, il quale si è donato sino alla fine ed è vivo in mezzo a noi. Perciò desidero contemplare Cristo vivente che è presente in tante storie d’amore, e invocare il fuoco dello Spirito su tutte le famiglie del mondo.

60. Entro tale quadro, questo breve capitolo raccoglie una sintesi dell’insegnamento della Chiesa sul matrimonio e la famiglia. Anche a questo riguardo citerò diversi contributi presentati dai Padri sinodali nelle loro considerazioni sulla luce che ci offre la fede. Essi sono partiti dallo sguardo di Gesù e hanno indicato che Egli «ha guardato alle donne e agli uomini che ha incontrato con amore e tenerezza, accompagnando i loro passi con verità, pazienza e misericordia, nell’annunciare le esigenze del Regno di Dio».[54] Allo stesso modo, il Signore ci accompagna oggi nel nostro impegno per vivere e trasmettere il Vangelo della famiglia.

Gesù recupera e porta a compimento il progetto divino

61. Di fronte a quelli che proibivano il matrimonio, il Nuovo Testamento insegna che «ogni creazione di Dio è buona e nulla va rifiutato» (1 Tm 4,4). Il matrimonio è un «dono» del Signore (cfr 1 Cor 7,7). Nello stesso tempo, a causa di tale valutazione positiva, si pone un forte accento sull’avere cura di questo dono divino: «Il matrimonio sia rispettato da tutti e il letto nuziale sia senza macchia» (Eb 13,4). Tale dono di Dio include la sessualità: «Non rifiutatevi l’un l’altro» (1 Cor 7,5).

62. I Padri sinodali hanno ricordato che Gesù, «riferendosi al disegno primigenio sulla coppia umana, riafferma l’unione indissolubile tra l’uomo e la donna, pur dicendo che “per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così” (Mt 19,8). L’indissolubilità del matrimonio (“Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi”: Mt19,6), non è innanzitutto da intendere come “giogo” imposto agli uomini, bensì come un “dono” fatto alle persone unite in matrimonio. […] La condiscendenza divina accompagna sempre il cammino umano, guarisce e trasforma il cuore indurito con la sua grazia, orientandolo verso il suo principio, attraverso la via della croce. Dai Vangeli emerge chiaramente l’esempio di Gesù, che […] annunciò il messaggio concernente il significato del matrimonio come pienezza della rivelazione che recupera il progetto originario di Dio (cfr Mt 19,3)».[55]

63. «Gesù, che ha riconciliato ogni cosa in sé, ha riportato il matrimonio e la famiglia alla loro forma originale (cfr Mc 10,1-12). La famiglia e il matrimonio sono stati redenti da Cristo (cfr Ef 5,21-32), restaurati a immagine della Santissima Trinità, mistero da cui scaturisce ogni vero amore. L’alleanza sponsale, inaugurata nella creazione e rivelata nella storia della salvezza, riceve la piena rivelazione del suo significato in Cristo e nella sua Chiesa. Da Cristo attraverso la Chiesa, il matrimonio e la famiglia ricevono la grazia necessaria per testimoniare l’amore di Dio e vivere la vita di comunione. Il Vangelo della famiglia attraversa la storia del mondo sin dalla creazione dell’uomo ad immagine e somiglianza di Dio (cfr Gen 1,26-27) fino al compimento del mistero dell’Alleanza in Cristo alla fine dei secoli con le nozze dell’Agnello (cfr Ap 19,9)».[56]

64. «L’esempio di Gesù è paradigmatico per la Chiesa. […] Egli ha inaugurato la sua vita pubblica con il segno di Cana, compiuto ad un banchetto di nozze (cfr Gv 2,1-11). […] Ha condiviso momenti quotidiani di amicizia con la famiglia di Lazzaro e le sue sorelle (cfr Lc 10,38) e con la famiglia di Pietro (cfr Mt 8,14). Ha ascoltato il pianto dei genitori per i loro figli, restituendoli alla vita (cfr Mc 5,41; Lc 7,14-15) e manifestando così il vero significato della misericordia, la quale implica il ristabilimento dell’Alleanza (cfr Giovanni Paolo II, Dives in misericordia, 4). Ciò appare chiaramente negli incontri con la donna samaritana (cfr Gv 4,1-30) e con l’adultera (cfr Gv8,1-11), nei quali la percezione del peccato si desta davanti all’amore gratuito di Gesù».[57]

65. L’incarnazione del Verbo in una famiglia umana, a Nazaret, commuove con la sua novità la storia del mondo. Abbiamo bisogno di immergerci nel mistero della nascita di Gesù, nel sì di Maria all’annuncio dell’angelo, quando venne concepita la Parola nel suo seno; anche nel sì di Giuseppe, che ha dato il nome a Gesù e si fece carico di Maria; nella festa dei pastori al presepe; nell’adorazione dei Magi; nella fuga in Egitto, in cui Gesù partecipa al dolore del suo popolo esiliato, perseguitato e umiliato; nella religiosa attesa di Zaccaria e nella gioia che accompagna la nascita di Giovanni Battista; nella promessa compiuta per Simeone e Anna nel tempio; nell’ammirazione dei dottori della legge mentre ascoltano la saggezza di Gesù adolescente. E quindi penetrare nei trenta lunghi anni nei quali Gesù si guadagnò il pane lavorando con le sue mani, sussurrando le orazioni e la tradizione credente del suo popolo ed educandosi nella fede dei suoi padri, fino a farla fruttificare nel mistero del Regno. Questo è il mistero del Natale e il segreto di Nazaret, pieno di profumo di famiglia! E’ il mistero che tanto ha affascinato Francesco di Assisi, Teresa di Gesù Bambino e Charles de Foucauld, e al quale si dissetano anche le famiglie cristiane per rinnovare la loro speranza e la loro gioia.

66. «L’alleanza di amore e fedeltà, di cui vive la Santa Famiglia di Nazaret, illumina il principio che dà forma ad ogni famiglia, e la rende capace di affrontare meglio le vicissitudini della vita e della storia. Su questo fondamento, ogni famiglia, pur nella sua debolezza, può diventare una luce nel buio del mondo. “Qui comprendiamo il modo di vivere in famiglia. Nazaret ci ricordi che cos’è la famiglia, cos’è la comunione di amore, la sua bellezza austera e semplice, il suo carattere sacro e inviolabile; ci faccia vedere come è dolce ed insostituibile l’educazione in famiglia, ci insegni la sua funzione naturale nell’ordine sociale” (Paolo VI, Discorso a Nazaret, 5 gennaio 1964)».[58]

La famiglia nei documenti della Chiesa

67. Il Concilio Ecumenico Vaticano II, nella Costituzione pastorale Gaudium et spes, si è occupato della promozione della dignità del matrimonio e della famiglia (cfr nn. 47-52). «Esso ha definito il matrimonio come comunità di vita e di amore (cfr 48), mettendo l’amore al centro della famiglia […]. Il “vero amore tra marito e moglie” (49) implica la mutua donazione di sé, include e integra la dimensione sessuale e l’affettività, corrispondendo al disegno divino (cfr 48-49). Inoltre sottolinea il radicamento in Cristo degli sposi: Cristo Signore “viene incontro ai coniugi cristiani nel sacramento del matrimonio” (48) e con loro rimane. Nell’incarnazione, Egli assume l’amore umano, lo purifica, lo porta a pienezza, e dona agli sposi, con il suo Spirito, la capacità di viverlo, pervadendo tutta la loro vita di fede, speranza e carità. In questo modo gli sposi sono come consacrati e, mediante una grazia propria, edificano il Corpo di Cristo e costituiscono una Chiesa domestica (cfr Lumen gentium, 11), così che la Chiesa, per comprendere pienamente il suo mistero, guarda alla famiglia cristiana, che lo manifesta in modo genuino».[59]

68. In seguito, «il beato Paolo VI, sulla scia del Concilio Vaticano II, ha approfondito la dottrina sul matrimonio e sulla famiglia. In particolare, con l’Enciclica Humanae vitae, ha messo in luce il legame intrinseco tra amore coniugale e generazione della vita: “L’amore coniugale richiede dagli sposi che essi conoscano convenientemente la loro missione di paternità responsabile, sulla quale oggi a buon diritto tanto si insiste e che va anch’essa esattamente compresa. […] L’esercizio responsabile della paternità implica dunque che i coniugi riconoscano i propri doveri verso Dio, verso se stessi, verso la famiglia e verso la società, in una giusta gerarchia dei valori» (n. 10). Nell’Esortazione Apostolica Evangelii nuntiandi, Paolo VI ha evidenziato il rapporto tra la famiglia e la Chiesa».[60]

69. «San Giovanni Paolo II ha dedicato alla famiglia una particolare attenzione attraverso le sue catechesi sull’amore umano, la Lettera alle famiglie Gratissimam sane e soprattutto con l’Esortazione apostolica Familiaris consortio. In tali documenti, il Pontefice ha definito la famiglia “via della Chiesa”; ha offerto una visione d’insieme sulla vocazione all’amore dell’uomo e della donna; ha proposto le linee fondamentali per la pastorale della famiglia e per la presenza della famiglia nella società. In particolare, trattando della carità coniugale (cfr Familiaris consortio, 13), ha descritto il modo in cui i coniugi, nel loro mutuo amore, ricevono il dono dello Spirito di Cristo e vivono la loro chiamata alla santità».[61]

70. «Benedetto XVI, nell’Enciclica Deus caritas est, ha ripreso il tema della verità dell’amore tra uomo e donna, che s’illumina pienamente solo alla luce dell’amore di Cristo crocifisso (cfr 2). Egli ribadisce come “il matrimonio basato su un amore esclusivo e definitivo diventa l’icona del rapporto di Dio con il suo popolo e viceversa: il modo di amare di Dio diventa la misura dell’amore umano” (11). Inoltre, nell’Enciclica Caritas in veritate, evidenzia l’importanza dell’amore come principio di vita nella società (cfr 44), luogo in cui s’impara l’esperienza del bene comune».[62]

Il sacramento del matrimonio

71. «La Scrittura e la Tradizione ci aprono l’accesso a una conoscenza della Trinità che si rivela con tratti familiari. La famiglia è immagine di Dio, che […] è comunione di persone. Nel battesimo, la voce del Padre designa Gesù come suo Figlio amato, e in questo amore ci è dato di riconoscere lo Spirito Santo (cfr Mc 1,10-11). Gesù, che ha riconciliato ogni cosa in sé e ha redento l’uomo dal peccato, non solo ha riportato il matrimonio e la famiglia alla loro forma originale, ma ha anche elevato il matrimonio a segno sacramentale del suo amore per la Chiesa (cfr Mt 19,1-12; Mc 10,1-12; Ef 5,21-32). Nella famiglia umana, radunata da Cristo, è restituita la “immagine e somiglianza” della Santissima Trinità (cfr Gen 1,26), mistero da cui scaturisce ogni vero amore. Da Cristo, attraverso la Chiesa, il matrimonio e la famiglia ricevono la grazia dello Spirito Santo, per testimoniare il Vangelo dell’amore di Dio».[63]

72. Il sacramento del matrimonio non è una convenzione sociale, un rito vuoto o il mero segno esterno di un impegno. Il sacramento è un dono per la santificazione e la salvezza degli sposi, perché «la loro reciproca appartenenza è la rappresentazione reale, per il tramite del segno sacramentale, del rapporto stesso di Cristo con la Chiesa. Gli sposi sono pertanto il richiamo permanente per la Chiesa di ciò che è accaduto sulla Croce; sono l’uno per l’altra, e per i figli, testimoni della salvezza, di cui il sacramento li rende partecipi».[64] Il matrimonio è una vocazione, in quanto è una risposta alla specifica chiamata a vivere l’amore coniugale come segno imperfetto dell’amore tra Cristo e la Chiesa. Pertanto, la decisione di sposarsi e di formare una famiglia dev’essere frutto di un discernimento vocazionale.

73. «Il dono reciproco costitutivo del matrimonio sacramentale è radicato nella grazia del battesimo che stabilisce l’alleanza fondamentale di ogni persona con Cristo nella Chiesa. Nella reciproca accoglienza e con la grazia di Cristo i nubendi si promettono dono totale, fedeltà e apertura alla vita, essi riconoscono come elementi costitutivi del matrimonio i doni che Dio offre loro, prendendo sul serio il loro vicendevole impegno, in suo nome e di fronte alla Chiesa. Ora, nella fede è possibile assumere i beni del matrimonio come impegni meglio sostenibili mediante l’aiuto della grazia del sacramento. […] Pertanto, lo sguardo della Chiesa si volge agli sposi come al cuore della famiglia intera che volge anch’essa lo sguardo verso Gesù».[65] Il sacramento non è una “cosa” o una “forza”, perché in realtà Cristo stesso «viene incontro ai coniugi cristiani attraverso il sacramento del matrimonio. Egli rimane con loro, dà loro la forza di seguirlo prendendo su di sé la propria croce, di rialzarsi dopo le loro cadute, di perdonarsi vicendevolmente, di portare gli uni i pesi degli altri».[66] Il matrimonio cristiano è un segno che non solo indica quanto Cristo ha amato la sua Chiesa nell’Alleanza sigillata sulla Croce, ma rende presente tale amore nella comunione degli sposi. Unendosi in una sola carne rappresentano lo sposalizio del Figlio di Dio con la natura umana. Per questo «nelle gioie del loro amore e della loro vita familiare egli concede loro, fin da quaggiù, una pregustazione del banchetto delle nozze dell’Agnello».[67] Benché «l’analogia tra la coppia marito-moglie e quella Cristo-Chiesa» sia una «analogia imperfetta»,[68] essa invita ad invocare il Signore perché riversi il suo amore dentro i limiti delle relazioni coniugali.

74. L’unione sessuale, vissuta in modo umano e santificata dal sacramento, è a sua volta per gli sposi via di crescita nella vita della grazia. È il «mistero nuziale».[69] Il valore dell’unione dei corpi è espresso nelle parole del consenso, dove i coniugi si sono accolti e si sono donati reciprocamente per condividere tutta la vita. Queste parole conferiscono un significato alla sessualità, liberandola da qualsiasi ambiguità. Tuttavia, in realtà, tutta la vita in comune degli sposi, tutta la rete delle relazioni che tesseranno tra loro, con i loro figli e con il mondo, sarà impregnata e irrobustita dalla grazia del sacramento che sgorga dal mistero dell’Incarnazione e della Pasqua, in cui Dio ha espresso tutto il suo amore per l’umanità e si è unito intimamente ad essa. Non saranno mai soli con le loro forze ad affrontare le sfide che si presentano. Essi sono chiamati a rispondere al dono di Dio con il loro impegno, la loro creatività, la loro resistenza e lotta quotidiana, ma potranno sempre invocare lo Spirito Santo che ha consacrato la loro unione, perché la grazia ricevuta si manifesti nuovamente in ogni nuova situazione.

75. Secondo la tradizione latina della Chiesa, nel sacramento del matrimonio i ministri sono l’uomo e la donna che si sposano,[70] i quali, manifestando il loro mutuo consenso ed esprimendolo nel reciproco dono corporale, ricevono un grande dono. Il loro consenso e l’unione dei corpi sono gli strumenti dell’azione divina che li rende una sola carne. Nel Battesimo è stata consacrata la loro capacità di unirsi in matrimonio come ministri del Signore per rispondere alla chiamata di Dio. Pertanto, quando due coniugi non cristiani ricevono il Battesimo, non è necessario che rinnovino la promessa matrimoniale ed è sufficiente che non la rifiutino, dal momento che, a causa del Battesimo che ricevono, la loro unione diventa per ciò stesso sacramentale. Il Diritto Canonico riconosce anche la validità di alcuni matrimoni che si celebrano senza un ministro ordinato.[71] Infatti l’ordine naturale è stato assunto dalla redenzione di Gesù Cristo, in maniera tale che «tra i battezzati, non può sussistere un valido contratto matrimoniale, che non sia per ciò stesso sacramento».[72] La Chiesa può esigere che l’atto sia pubblico, la presenza di testimoni e altre condizioni che sono mutate nel corso della storia, però questo non toglie ai due sposi il loro carattere di ministri del sacramento, né diminuisce la centralità del consenso dell’uomo e della donna, che è ciò che di per sé stabilisce il vincolo sacramentale. In ogni caso, abbiamo bisogno di riflettere ulteriormente circa l’azione divina nel rito nuziale, che è posta in grande risalto nelle Chiese orientali, con l’attribuire particolare importanza alla benedizione dei contraenti come segno del dono dello Spirito.

Semi del Verbo e situazioni imperfette

76. «Il Vangelo della famiglia nutre pure quei semi che ancora attendono di maturare, e deve curare quegli alberi che si sono inariditi e necessitano di non essere trascurati»,[73] in modo che, partendo dal dono di Cristo nel sacramento, «siano pazientemente condotti oltre, giungendo ad una conoscenza più ricca e ad una integrazione più piena di questo Mistero nella loro vita».[74]

77. Assumendo l’insegnamento biblico secondo il quale tutto è stato creato da Cristo e in vista di Cristo (cfr Col 1,16), i Padri sinodali hanno ricordato che «l’ordine della redenzione illumina e compie quello della creazione. Il matrimonio naturale, pertanto, si comprende pienamente alla luce del suo compimento sacramentale: solo fissando lo sguardo su Cristo si conosce fino in fondo la verità sui rapporti umani. “In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo. […] Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione” (Gaudium et spes, 22). Risulta particolarmente opportuno comprendere in chiave cristocentrica le proprietà naturali del matrimonio, che costituiscono il bene dei coniugi (bonum coniugum)»,[75] che comprende l’unità, l’apertura alla vita, la fedeltà e l’indissolubilità, e all’interno del matrimonio cristiano anche l’aiuto reciproco nel cammino verso una più piena amicizia con il Signore. «Il discernimento della presenza dei semina Verbi nelle altre culture (cfr Ad gentes, 11) può essere applicato anche alla realtà matrimoniale e familiare. Oltre al vero matrimonio naturale ci sono elementi positivi presenti nelle forme matrimoniali di altre tradizioni religiose»,[76] benché non manchino neppure le ombre. Possiamo affermare che «ogni persona che desideri formare in questo mondo una famiglia che insegni ai figli a gioire per ogni azione che si proponga di vincere il male – una famiglia che mostri che lo Spirito è vivo e operante –, troverà la gratitudine e la stima, a qualunque popolo, religione o regione appartenga».[77]

78. «Lo sguardo di Cristo, la cui luce rischiara ogni uomo (cfr Gv 1,9; Gaudium et spes, 22) ispira la cura pastorale della Chiesa verso i fedeli che semplicemente convivono o che hanno contratto matrimonio soltanto civile o sono divorziati risposati. Nella prospettiva della pedagogia divina, la Chiesa si volge con amore a coloro che partecipano alla sua vita in modo imperfetto: invoca con essi la grazia della conversione, li incoraggia a compiere il bene, a prendersi cura con amore l’uno dell’altro e a mettersi al servizio della comunità nella quale vivono e lavorano. […] Quando l’unione raggiunge una notevole stabilità attraverso un vincolo pubblico – ed è connotata da affetto profondo, da responsabilità nei confronti della prole, da capacità di superare le prove – può essere vista come un’occasione da accompagnare verso il sacramento del matrimonio, laddove questo sia possibile».[78]

79. «Di fronte a situazioni difficili e a famiglie ferite, occorre sempre ricordare un principio generale: “Sappiano i pastori che, per amore della verità, sono obbligati a ben discernere le situazioni” (Familiaris consortio, 84). Il grado di responsabilità non è uguale in tutti i casi, e possono esistere fattori che limitano la capacità di decisione. Perciò, mentre va espressa con chiarezza la dottrina, sono da evitare giudizi che non tengono conto della complessità delle diverse situazioni, ed è necessario essere attenti al modo in cui le persone vivono e soffrono a motivo della loro condizione».[79]

La trasmissione della vita e l’educazione dei figli

80. Il matrimonio è in primo luogo una «intima comunità di vita e di amore coniugale»[80] che costituisce un bene per gli stessi sposi,[81] e la sessualità «è ordinata all’amore coniugale dell’uomo e della donna».[82] Perciò anche «i coniugi ai quali Dio non ha concesso di avere figli, possono nondimeno avere una vita coniugale piena di senso, umanamente e cristianamente».[83] Ciò nonostante, questa unione è ordinata alla generazione «per la sua stessa natura».[84] Il bambino che nasce «non viene ad aggiungersi dall’esterno al reciproco amore degli sposi; sboccia al cuore stesso del loro mutuo dono, di cui è frutto e compimento».[85] Non giunge come alla fine di un processo, ma invece è presente dall’inizio del loro amore come una caratteristica essenziale che non può venire negata senza mutilare lo stesso amore. Fin dall’inizio l’amore rifiuta ogni impulso di chiudersi in sé stesso e si apre a una fecondità che lo prolunga oltre la sua propria esistenza. Dunque nessun atto genitale degli sposi può negare questo significato,[86] benché per diverse ragioni non sempre possa di fatto generare una nuova vita.

81. Il figlio chiede di nascere da un tale amore e non in qualsiasi modo, dal momento che egli «non è qualcosa di dovuto ma un dono»,[87] che è «il frutto dello specifico atto dell’amore coniugale dei suoi genitori».[88] Perché «secondo l’ordine della creazione l’amore coniugale tra un uomo e una donna e la trasmissione della vita sono ordinati l’uno all’altra (cfr Gen 1,27-28). In questo modo il Creatore ha reso partecipi l’uomo e la donna dell’opera della sua creazione e li ha contemporaneamente resi strumenti del suo amore, affidando alla loro responsabilità il futuro dell’umanità attraverso la trasmissione della vita umana».[89]

82. I Padri sinodali hanno affermato che «non è difficile constatare il diffondersi di una mentalità che riduce la generazione della vita a una variabile della progettazione individuale o di coppia».[90] L’insegnamento della Chiesa «aiuta a vivere in maniera armoniosa e consapevole la comunione tra i coniugi, in tutte le sue dimensioni, insieme alla responsabilità generativa. Va riscoperto il messaggio dell’Enciclica Humanae vitae di Paolo VI, che sottolinea il bisogno di rispettare la dignità della persona nella valutazione morale dei metodi di regolazione della natalità […] La scelta dell’adozione e dell’affido esprime una particolare fecondità dell’esperienza coniugale».[91] Con particolare gratitudine, la Chiesa «sostiene le famiglie che accolgono, educano e circondano del loro affetto i figli diversamente abili».[92]

83. In questo contesto, non posso non affermare che, se la famiglia è il santuario della vita, il luogo dove la vita è generata e curata, costituisce una lacerante contraddizione il fatto che diventi il luogo dove la vita viene negata e distrutta. È così grande il valore di una vita umana, ed è così inalienabile il diritto alla vita del bambino innocente che cresce nel seno di sua madre, che in nessun modo è possibile presentare come un diritto sul proprio corpo la possibilità di prendere decisioni nei confronti di tale vita, che è un fine in sé stessa e che non può mai essere oggetto di dominio da parte di un altro essere umano. La famiglia protegge la vita in ogni sua fase e anche al suo tramonto. Perciò «a coloro che operano nelle strutture sanitarie si rammenta l’obbligo morale dell’obiezione di coscienza. Allo stesso modo, la Chiesa non solo sente l’urgenza di affermare il diritto alla morte naturale, evitando l’accanimento terapeutico e l’eutanasia», ma «rigetta fermamente la pena di morte».[93]

84. I Padri hanno voluto sottolineare anche che «una delle sfide fondamentali di fronte a cui si trovano le famiglie oggi è sicuramente quella educativa, resa più impegnativa e complessa dalla realtà culturale attuale e della grande influenza dei media».[94] «La Chiesa svolge un ruolo prezioso di sostegno alle famiglie, partendo dall’iniziazione cristiana, attraverso comunità accoglienti».[95] Tuttavia mi sembra molto importante ricordare che l’educazione integrale dei figli è «dovere gravissimo» e allo stesso tempo «diritto primario» dei genitori.[96] Non si tratta solamente di un’incombenza o di un peso, ma anche di un diritto essenziale e insostituibile che sono chiamati a difendere e che nessuno dovrebbe pretendere di togliere loro. Lo Stato offre un servizio educativo in maniera sussidiaria, accompagnando la funzione non delegabile dei genitori, che hanno il diritto di poter scegliere con libertà il tipo di educazione – accessibile e di qualità – che intendono dare ai figli secondo le proprie convinzioni. La scuola non sostituisce i genitori bensì è ad essi complementare. Questo è un principio basilare: «Qualsiasi altro collaboratore nel processo educativo deve agire in nome dei genitori, con il loro consenso e, in una certa misura, anche su loro incarico».[97] Tuttavia «si è aperta una frattura tra famiglia e società, tra famiglia e scuola, il patto educativo oggi si è rotto; e così, l’alleanza educativa della società con la famiglia è entrata in crisi».[98]

85. La Chiesa è chiamata a collaborare, con un’azione pastorale adeguata, affinché gli stessi genitori possano adempiere la loro missione educativa. Deve farlo aiutandoli sempre a valorizzare il loro ruolo specifico, e a riconoscere che coloro che hanno ricevuto il sacramento del matrimonio diventano veri ministri educativi, perché nel formare i loro figli edificano la Chiesa,[99] e nel farlo accettano una vocazione che Dio propone loro.[100]

La famiglia e la Chiesa

86. «Con intima gioia e profonda consolazione, la Chiesa guarda alle famiglie che restano fedeli agli insegnamenti del Vangelo, ringraziandole e incoraggiandole per la testimonianza che offrono. Grazie ad esse, infatti, è resa credibile la bellezza del matrimonio indissolubile e fedele per sempre. Nella famiglia, “che si potrebbe chiamare Chiesa domestica” (Lumen gentium, 11), matura la prima esperienza ecclesiale della comunione tra persone, in cui si riflette, per grazia, il mistero della Santa Trinità. “È qui che si apprende la fatica e la gioia del lavoro, l’amore fraterno, il perdono generoso, sempre rinnovato, e soprattutto il culto divino attraverso la preghiera e l’offerta della propria vita” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1657)».[101]

87. La Chiesa è famiglia di famiglie, costantemente arricchita dalla vita di tutte le Chiese domestiche. Pertanto, «in virtù del sacramento del matrimonio ogni famiglia diventa a tutti gli effetti un bene per la Chiesa. In questa prospettiva sarà certamente un dono prezioso, per l’oggi della Chiesa, considerare anche la reciprocità tra famiglia e Chiesa: la Chiesa è un bene per la famiglia, la famiglia è un bene per la Chiesa. La custodia del dono sacramentale del Signore coinvolge non solo la singola famiglia, ma la stessa comunità cristiana».[102]

88. L’amore vissuto nelle famiglie è una forza permanente per la vita della Chiesa. «Il fine unitivo del matrimonio è un costante richiamo al crescere e all’approfondirsi di questo amore. Nella loro unione di amore gli sposi sperimentano la bellezza della paternità e della maternità; condividono i progetti e le fatiche, i desideri e le preoccupazioni; imparano la cura reciproca e il perdono vicendevole. In questo amore celebrano i loro momenti felici e si sostengono nei passaggi difficili della loro storia di vita […] La bellezza del dono reciproco e gratuito, la gioia per la vita che nasce e la cura amorevole di tutti i membri, dai piccoli agli anziani, sono alcuni dei frutti che rendono unica e insostituibile la risposta alla vocazione della famiglia»,[103] tanto per la Chiesa quanto per l’intera società.

 

CAPITOLO QUARTO

L’AMORE NEL MATRIMONIO

89. Tutto quanto è stato detto non è sufficiente ad esprimere il vangelo del matrimonio e della famiglia se non ci soffermiamo in modo specifico a parlare dell’amore. Perché non potremo incoraggiare un cammino di fedeltà e di reciproca donazione se non stimoliamo la crescita, il consolidamento e l’approfondimento dell’amore coniugale e familiare. In effetti, la grazia del sacramento del matrimonio è destinata prima di tutto «a perfezionare l’amore dei coniugi».[104] Anche in questo caso rimane valido che, anche «se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla. E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe» (1 Cor 13,2-3). La parola “amore”, tuttavia, che è una delle più utilizzate, molte volte appare sfigurata.[105]

Il nostro amore quotidiano

90. Nel cosiddetto inno alla carità scritto da San Paolo, riscontriamo alcune caratteristiche del vero amore:

«La carità è paziente,
benevola è la carità;
non è invidiosa,
non si vanta,
non si gonfia d’orgoglio,
non manca di rispetto,
non cerca il proprio interesse,
non si adira,
non tiene conto del male ricevuto,
non gode dell’ingiustizia
ma si rallegra della verità.
Tutto scusa,
tutto crede,
tutto spera,
tutto sopporta» (1 Cor 13,4-7).

Questo si vive e si coltiva nella vita che condividono tutti i giorni gli sposi, tra di loro e con i loro figli. Perciò è prezioso soffermarsi a precisare il senso delle espressioni di questo testo, per tentarne un’applicazione all’esistenza concreta di ogni famiglia.

Pazienza

91. La prima espressione utilizzata è macrothymei. La traduzione non è semplicemente “che sopporta ogni cosa”, perché questa idea viene espressa alla fine del v. 7. Il senso si coglie dalla traduzione greca dell’Antico Testamento, dove si afferma che Dio è «lento all’ira» (Es 34,6; Nm 14,18). Si mostra quando la persona non si lascia guidare dagli impulsi e evita di aggredire. È una caratteristica del Dio dell’Alleanza che chiama ad imitarlo anche all’interno della vita familiare. I testi in cui Paolo fa uso di questo termine si devono leggere sullo sfondo del libro della Sapienza (cfr 11,23; 12,2.15-18): nello stesso tempo in cui si loda la moderazione di Dio al fine di dare spazio al pentimento, si insiste sul suo potere che si manifesta quando agisce con misericordia. La pazienza di Dio è esercizio di misericordia verso il peccatore e manifesta l’autentico potere.

92. Essere pazienti non significa lasciare che ci maltrattino continuamente, o tollerare aggressioni fisiche, o permettere che ci trattino come oggetti. Il problema si pone quando pretendiamo che le relazioni siano idilliache o che le persone siano perfette, o quando ci collochiamo al centro e aspettiamo unicamente che si faccia la nostra volontà. Allora tutto ci spazientisce, tutto ci porta a reagire con aggressività. Se non coltiviamo la pazienza, avremo sempre delle scuse per rispondere con ira, e alla fine diventeremo persone che non sanno convivere, antisociali incapaci di dominare gli impulsi, e la famiglia si trasformerà in un campo di battaglia. Per questo la Parola di Dio ci esorta: «Scompaiano da voi ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità» (Ef 4,31). Questa pazienza si rafforza quando riconosco che anche l’altro possiede il diritto a vivere su questa terra insieme a me, così com’è. Non importa se è un fastidio per me, se altera i miei piani, se mi molesta con il suo modo di essere o con le sue idee, se non è in tutto come mi aspettavo. L’amore comporta sempre un senso di profonda compassione, che porta ad accettare l’altro come parte di questo mondo, anche quando agisce in un modo diverso da quello che io avrei desiderato.

Atteggiamento di benevolenza

93. Segue la parola chresteuetai, che è unica in tutta la Bibbia, derivata da chrestos (persona buona, che mostra la sua bontà nelle azioni). Però, considerata la posizione in cui si trova, in stretto parallelismo con il verbo precedente, ne diventa un complemento. In tal modo Paolo vuole mettere in chiaro che la “pazienza” nominata al primo posto non è un atteggiamento totalmente passivo, bensì è accompagnata da un’attività, da una reazione dinamica e creativa nei confronti degli altri. Indica che l’amore fa del bene agli altri e li promuove. Perciò si traduce come “benevola”.

94. Nell’insieme del testo si vede che Paolo vuole insistere sul fatto che l’amore non è solo un sentimento, ma che si deve intendere nel senso che il verbo “amare” ha in ebraico, vale a dire: “fare il bene”. Come diceva sant’Ignazio di Loyola, «l’amore si deve porre più nelle opere che nelle parole».[106] In questo modo può mostrare tutta la sua fecondità, e ci permette di sperimentare la felicità di dare, la nobiltà e la grandezza di donarsi in modo sovrabbondante, senza misurare, senza esigere ricompense, per il solo gusto di dare e di servire.

Guarendo l’invidia

95. Quindi si rifiuta come contrario all’amore un atteggiamento espresso con il termine zelos (gelosia o invidia). Significa che nell’amore non c’è posto per il provare dispiacere a causa del bene dell’altro (cfr At 7,9; 17,5). L’invidia è una tristezza per il bene altrui che dimostra che non ci interessa la felicità degli altri, poiché siamo esclusivamente concentrati sul nostro benessere. Mentre l’amore ci fa uscire da noi stessi, l’invidia ci porta a centrarci sul nostro io. Il vero amore apprezza i successi degli altri, non li sente come una minaccia, e si libera del sapore amaro dell’invidia. Accetta il fatto che ognuno ha doni differenti e strade diverse nella vita. Dunque fa in modo di scoprire la propria strada per essere felice, lasciando che gli altri trovino la loro.

96. In definitiva si tratta di adempiere quello che richiedevano gli ultimi due comandamenti della Legge di Dio: «Non desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo né la sua schiava, né il suo bue né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo» (Es 20,17). L’amore ci porta a un sincero apprezzamento di ciascun essere umano, riconoscendo il suo diritto alla felicità. Amo quella persona, la guardo con lo sguardo di Dio Padre, che ci dona tutto «perché possiamo goderne» (1 Tm 6,17), e dunque accetto dentro di me che possa godere di un buon momento. Questa stessa radice dell’amore, in ogni caso, è quella che mi porta a rifiutare l’ingiustizia per il fatto che alcuni hanno troppo e altri non hanno nulla, o quella che mi spinge a far sì che anche quanti sono scartati dalla società possano vivere un po’ di gioia. Questo però non è invidia, ma desiderio di equità.

Senza vantarsi o gonfiarsi

97. Segue l’espressione perpereuetai, che indica la vanagloria, l’ansia di mostrarsi superiori per impressionare gli altri con un atteggiamento pedante e piuttosto aggressivo. Chi ama, non solo evita di parlare troppo di sé stesso, ma inoltre, poiché è centrato negli altri, sa mettersi al suo posto, senza pretendere di stare al centro. La parola seguente – physioutai – è molto simile, perché indica che l’amore non è arrogante. Letteralmente esprime il fatto che non si “ingrandisce” di fronte agli altri, e indica qualcosa di più sottile. Non è solo un’ossessione per mostrare le proprie qualità, ma fa anche perdere il senso della realtà. Ci si considera più grandi di quello che si è perché ci si crede più “spirituali” o “saggi”. Paolo usa questo verbo altre volte, per esempio per dire che «la conoscenza riempie di orgoglio, mentre l’amore edifica» (1 Cor 8,1). Vale a dire, alcuni si credono grandi perché sanno più degli altri, e si dedicano a pretendere da loro e a controllarli, quando in realtà quello che ci rende grandi è l’amore che comprende, cura, sostiene il debole. In un altro versetto lo utilizza per criticare quelli che si “gonfiano d’orgoglio” (cfr 1 Cor 4,18), ma in realtà hanno più verbosità che vero “potere” dello Spirito (cfr 1 Cor 4,19).

98. E’ importante che i cristiani vivano questo atteggiamento nel loro modo di trattare i familiari poco formati nella fede, fragili o meno sicuri nelle loro convinzioni. A volte accade il contrario: quelli che, nell’ambito della loro famiglia, si suppone siano cresciuti maggiormente, diventano arroganti e insopportabili. L’atteggiamento dell’umiltà appare qui come qualcosa che è parte dell’amore, perché per poter comprendere, scusare e servire gli altri di cuore, è indispensabile guarire l’orgoglio e coltivare l’umiltà. Gesù ricordava ai suoi discepoli che nel mondo del potere ciascuno cerca di dominare l’altro, e per questo dice loro: «tra voi non sarà così» (Mt 20,26). La logica dell’amore cristiano non è quella di chi si sente superiore agli altri e ha bisogno di far loro sentire il suo potere, ma quella per cui «chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore» (Mt 20,27). Nella vita familiare non può regnare la logica del dominio degli uni sugli altri, o la competizione per vedere chi è più intelligente o potente, perché tale logica fa venir meno l’amore. Vale anche per la famiglia questo consiglio: «Rivestitevi tutti di umiltà gli uni verso gli altri, perché Dio resiste ai superbi, ma dà grazia agli umili» (1 Pt 5,5).

Amabilità

99. Amare significa anche rendersi amabili, e qui trova senso l’espressione aschemonei. Vuole indicare che l’amore non opera in maniera rude, non agisce in modo scortese, non è duro nel tratto. I suoi modi, le sue parole, i suoi gesti, sono gradevoli e non aspri o rigidi. Detesta far soffrire gli altri. La cortesia «è una scuola di sensibilità e disinteresse» che esige dalla persona che «coltivi la sua mente e i suoi sensi, che impari ad ascoltare, a parlare e in certi momenti a tacere».[107] Essere amabile non è uno stile che un cristiano possa scegliere o rifiutare: è parte delle esigenze irrinunciabili dell’amore, perciò «ogni essere umano è tenuto ad essere affabile con quelli che lo circondano».[108] Ogni giorno, «entrare nella vita dell’altro, anche quando fa parte della nostra vita, chiede la delicatezza di un atteggiamento non invasivo, che rinnova la fiducia e il rispetto. […] E l’amore, quanto più è intimo e profondo, tanto più esige il rispetto della libertà e la capacità di attendere che l’altro apra la porta del suo cuore».[109]

100. Per disporsi ad un vero incontro con l’altro, si richiede uno sguardo amabile posato su di lui. Questo non è possibile quando regna un pessimismo che mette in rilievo i difetti e gli errori altrui, forse per compensare i propri complessi. Uno sguardo amabile ci permette di non soffermarci molto sui limiti dell’altro, e così possiamo tollerarlo e unirci in un progetto comune, anche se siamo differenti. L’amore amabile genera vincoli, coltiva legami, crea nuove reti d’integrazione, costruisce una solida trama sociale. In tal modo protegge sé stesso, perché senza senso di appartenenza non si può sostenere una dedizione agli altri, ognuno finisce per cercare unicamente la propria convenienza e la convivenza diventa impossibile. Una persona antisociale crede che gli altri esistano per soddisfare le sue necessità, e che quando lo fanno compiono solo il loro dovere. Dunque non c’è spazio per l’amabilità dell’amore e del suo linguaggio. Chi ama è capace di dire parole di incoraggiamento, che confortano, che danno forza, che consolano, che stimolano. Vediamo, per esempio, alcune parole che Gesù diceva alle persone: «Coraggio figlio!» (Mt 9,2). «Grande è la tua fede!» (Mt 15,28). «Alzati!» (Mc 5,41). «Va’ in pace» (Lc 7,50). «Non abbiate paura» (Mt 14,27). Non sono parole che umiliano, che rattristano, che irritano, che disprezzano. Nella famiglia bisogna imparare questo linguaggio amabile di Gesù.

Distacco generoso

101. Abbiamo detto molte volte che per amare gli altri occorre prima amare sé stessi. Tuttavia, questo inno all’amore afferma che l’amore “non cerca il proprio interesse”, o che “non cerca quello che è suo”. Questa espressione si usa pure in un altro testo: «Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri» (Fil 2,4). Davanti ad un’affermazione così chiara delle Scritture, bisogna evitare di attribuire priorità all’amore per sé stessi come se fosse più nobile del dono di sé stessi agli altri. Una certa priorità dell’amore per sé stessi può intendersi solamente come una condizione psicologica, in quanto chi è incapace di amare sé stesso incontra difficoltà ad amare gli altri: «Chi è cattivo con sé stesso con chi sarà buono? […] Nessuno è peggiore di chi danneggia sé stesso» (Sir 14,5-6).

102. Però lo stesso Tommaso d’Aquino ha spiegato che «è più proprio della carità voler amare che voler essere amati»[110] e che, in effetti, «le madri, che sono quelle che amano di più, cercano più di amare che di essere amate».[111] Perciò l’amore può spingersi oltre la giustizia e straripare gratuitamente, «senza sperarne nulla» (Lc 6,35), fino ad arrivare all’amore più grande, che è «dare la vita» per gli altri (Gv 15,13). È ancora possibile questa generosità che permette di donare gratuitamente, e di donare sino alla fine? Sicuramente è possibile, perché è ciò che chiede il Vangelo: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,8).

Senza violenza interiore

103. Se la prima espressione dell’inno ci invitava alla pazienza che evita di reagire bruscamente di fronte alle debolezze o agli errori degli altri, adesso appare un’altra parola – paroxynetai – che si riferisce ad una reazione interiore di indignazione provocata da qualcosa di esterno. Si tratta di una violenza interna, di una irritazione non manifesta che ci mette sulla difensiva davanti agli altri, come se fossero nemici fastidiosi che occorre evitare. Alimentare tale aggressività intima non serve a nulla. Ci fa solo ammalare e finisce per isolarci. L’indignazione è sana quando ci porta a reagire di fronte a una grave ingiustizia, ma è dannosa quando tende ad impregnare tutti i nostri atteggiamenti verso gli altri.

104. Il Vangelo invita piuttosto a guardare la trave nel proprio occhio (cfr Mt 7,5), e come cristiani non possiamo ignorare il costante invito della Parola di Dio a non alimentare l’ira: «Non lasciarti vincere dal male» (Rm 12,21). «E non stanchiamoci di fare il bene» (Gal 6,9). Una cosa è sentire la forza dell’aggressività che erompe e altra cosa è acconsentire ad essa, lasciare che diventi un atteggiamento permanente: «Adiratevi, ma non peccate; non tramonti il sole sopra la vostra ira» (Ef 4,26). Perciò, non bisogna mai finire la giornata senza fare pace in famiglia. «E come devo fare la pace? Mettermi in ginocchio? No! Soltanto un piccolo gesto, una cosina così, e l’armonia familiare torna. Basta una carezza, senza parole. Ma mai finire la giornata in famiglia senza fare la pace!».[112]La reazione interiore di fronte a una molestia causata dagli altri dovrebbe essere anzitutto benedire nel cuore, desiderare il bene dell’altro, chiedere a Dio che lo liberi e lo guarisca: «Rispondete augurando il bene. A questo infatti siete stati chiamati da Dio per avere in eredità la sua benedizione» (1 Pt 3,9). Se dobbiamo lottare contro un male, facciamolo, ma diciamo sempre “no” alla violenza interiore.

Perdono

105. Se permettiamo ad un sentimento cattivo di penetrare nelle nostre viscere, diamo spazio a quel rancore che si annida nel cuore. La frase logizetai to kakon significa “tiene conto del male”, “se lo porta annotato”, vale a dire, è rancoroso. Il contrario è il perdono, un perdono fondato su un atteggiamento positivo, che tenta di comprendere la debolezza altrui e prova a cercare delle scuse per l’altra persona, come Gesù che disse: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). Invece la tendenza è spesso quella di cercare sempre più colpe, di immaginare sempre più cattiverie, di supporre ogni tipo di cattive intenzioni, e così il rancore va crescendo e si radica. In tal modo, qualsiasi errore o caduta del coniuge può danneggiare il vincolo d’amore e la stabilità familiare. Il problema è che a volte si attribuisce ad ogni cosa la medesima gravità, con il rischio di diventare crudeli per qualsiasi errore dell’altro. La giusta rivendicazione dei propri diritti si trasforma in una persistente e costante sete di vendetta più che in una sana difesa della propria dignità.

106. Quando siamo stati offesi o delusi, il perdono è possibile e auspicabile, ma nessuno dice che sia facile. La verità è che «la comunione familiare può essere conservata e perfezionata solo con un grande spirito di sacrificio. Esige, infatti, una pronta e generosa disponibilità di tutti e di ciascuno alla comprensione, alla tolleranza, al perdono, alla riconciliazione. Nessuna famiglia ignora come l’egoismo, il disaccordo, le tensioni, i conflitti aggrediscano violentemente e a volte colpiscano mortalmente la propria comunione: di qui le molteplici e varie forme di divisione nella vita familiare».[113]

107. Oggi sappiamo che per poter perdonare abbiamo bisogno di passare attraverso l’esperienza liberante di comprendere e perdonare noi stessi. Tante volte i nostri sbagli, o lo sguardo critico delle persone che amiamo, ci hanno fatto perdere l’affetto verso noi stessi. Questo ci induce alla fine a guardarci dagli altri, a fuggire dall’affetto, a riempirci di paure nelle relazioni interpersonali. Dunque, poter incolpare gli altri si trasforma in un falso sollievo. C’è bisogno di pregare con la propria storia, di accettare sé stessi, di saper convivere con i propri limiti, e anche di perdonarsi, per poter avere questo medesimo atteggiamento verso gli altri.

108. Ma questo presuppone l’esperienza di essere perdonati da Dio, giustificati gratuitamente e non per i nostri meriti. Siamo stati raggiunti da un amore previo ad ogni nostra opera, che offre sempre una nuova opportunità, promuove e stimola. Se accettiamo che l’amore di Dio è senza condizioni, che l’affetto del Padre non si deve comprare né pagare, allora potremo amare al di là di tutto, perdonare gli altri anche quando sono stati ingiusti con noi. Diversamente, la nostra vita in famiglia cesserà di essere un luogo di comprensione, accompagnamento e stimolo, e sarà uno spazio di tensione permanente e di reciproco castigo.

Rallegrarsi con gli altri

109. L’espressione chairei epi te adikia indica qualcosa di negativo insediato nel segreto del cuore della persona. È l’atteggiamento velenoso di chi si rallegra quando vede che si commette ingiustizia verso qualcuno. La frase si completa con quella che segue, che si esprime in modo positivo: synchairei te aletheia: si compiace della verità. Vale a dire, si rallegra per il bene dell’altro, quando viene riconosciuta la sua dignità, quando si apprezzano le sue capacità e le sue buone opere. Questo è impossibile per chi deve sempre paragonarsi e competere, anche con il proprio coniuge, fino al punto di rallegrarsi segretamente per i suoi fallimenti.

110. Quando una persona che ama può fare del bene a un altro, o quando vede che all’altro le cose vanno bene, lo vive con gioia e in quel modo dà gloria a Dio, perché «Dio ama chi dona con gioia» (2 Cor 9,7), nostro Signore apprezza in modo speciale chi si rallegra della felicità dell’altro. Se non alimentiamo la nostra capacità di godere del bene dell’altro e ci concentriamo soprattutto sulle nostre necessità, ci condanniamo a vivere con poca gioia, dal momento che, come ha detto Gesù, «si è più beati nel dare che nel ricevere!» (At 20,35). La famiglia dev’essere sempre il luogo in cui chiunque faccia qualcosa di buono nella vita, sa che lì lo festeggeranno insieme a lui.

Tutto scusa

111. L’elenco si completa con quattro espressioni che parlano di una totalità: “tutto”. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. In questo modo, si sottolinea con forza il dinamismo contro-culturale dell’amore, capace di far fronte a qualsiasi cosa lo possa minacciare.

112. In primo luogo si afferma che “tutto scusa” (panta stegei). Si differenzia da “non tiene conto del male”, perché questo termine ha a che vedere con l’uso della lingua; può significare “mantenere il silenzio” circa il negativo che può esserci nell’altra persona. Implica limitare il giudizio, contenere l’inclinazione a lanciare una condanna dura e implacabile. «Non condannate e non sarete condannati» (Lc 6,37). Benché vada contro il nostro uso abituale della lingua, la Parola di Dio ci chiede: «Non sparlate gli uni degli altri, fratelli» (Gc 4,11). Soffermarsi a danneggiare l’immagine dell’altro è un modo per rafforzare la propria, per scaricare i rancori e le invidie senza fare caso al danno che causiamo. Molte volte si dimentica che la diffamazione può essere un grande peccato, una seria offesa a Dio, quando colpisce gravemente la buona fama degli altri procurando loro dei danni molto difficili da riparare. Per questo la Parola di Dio è così dura con la lingua, dicendo che è «il mondo del male» che «contagia tutto il corpo e incendia tutta la nostra vita» (Gc 3,6), «è un male ribelle, è piena di veleno mortale» (Gc 3,8). Se «con essa malediciamo gli uomini fatti a somiglianza di Dio» (Gc 3,9), l’amore si prende cura dell’immagine degli altri, con una delicatezza che porta a preservare persino la buona fama dei nemici. Nel difendere la legge divina non bisogna mai dimenticare questa esigenza dell’amore.

113. Gli sposi che si amano e si appartengono, parlano bene l’uno dell’altro, cercano di mostrare il lato buono del coniuge al di là delle sue debolezze e dei suoi errori. In ogni caso, mantengono il silenzio per non danneggiarne l’immagine. Però non è soltanto un gesto esterno, ma deriva da un atteggiamento interiore. E non è neppure l’ingenuità di chi pretende di non vedere le difficoltà e i punti deboli dell’altro, bensì è l’ampiezza dello sguardo di chi colloca quelle debolezze e quegli sbagli nel loro contesto; ricorda che tali difetti sono solo una parte, non sono la totalità dell’essere dell’altro. Un fatto sgradevole nella relazione non è la totalità di quella relazione. Dunque si può accettare con semplicità che tutti siamo una complessa combinazione di luci e ombre. L’altro non è soltanto quello che a me dà fastidio. È molto più di questo. Per la stessa ragione, non pretendo che il suo amore sia perfetto per apprezzarlo. Mi ama come è e come può, con i suoi limiti, ma il fatto che il suo amore sia imperfetto non significa che sia falso o che non sia reale. È reale, ma limitato e terreno. Perciò, se pretendo troppo, in qualche modo me lo farà capire, dal momento che non potrà né accetterà di giocare il ruolo di un essere divino né di stare al servizio di tutte le mie necessità. L’amore convive con l’imperfezione, la scusa, e sa stare in silenzio davanti ai limiti della persona amata.

Ha fiducia

114. Panta pisteuei: “tutto crede”. Per il contesto, non si deve intendere questa “fede” in senso teologico, bensì in quello corrente di “fiducia”. Non si tratta soltanto di non sospettare che l’altro stia mentendo o ingannando. Tale fiducia fondamentale riconosce la luce accesa da Dio che si nasconde dietro l’oscurità, o la brace che arde ancora sotto le ceneri.

115. Questa stessa fiducia rende possibile una relazione di libertà. Non c’è bisogno di controllare l’altro, di seguire minuziosamente i suoi passi, per evitare che sfugga dalle nostre braccia. L’amore ha fiducia, lascia in libertà, rinuncia a controllare tutto, a possedere, a dominare. Questa libertà, che rende possibili spazi di autonomia, apertura al mondo e nuove esperienze, permette che la relazione si arricchisca e non diventi una endogamia senza orizzonti. In tal modo i coniugi, ritrovandosi, possono vivere la gioia di condividere quello che hanno ricevuto e imparato al di fuori del cerchio familiare. Nello stesso tempo rende possibili la sincerità e la trasparenza, perché quando uno sa che gli altri confidano in lui e ne apprezzano la bontà di fondo, allora si mostra com’è, senza occultamenti. Uno che sa che sospettano sempre di lui, che lo giudicano senza compassione, che non lo amano in modo incondizionato, preferirà mantenere i suoi segreti, nascondere le sue cadute e debolezze, fingersi quello che non è. Viceversa, una famiglia in cui regna una solida e affettuosa fiducia, e dove si torna sempre ad avere fiducia nonostante tutto, permette che emerga la vera identità dei suoi membri e fa sì che spontaneamente si rifiuti l’inganno, la falsità e la menzogna.

Spera

116. Panta elpizei: non dispera del futuro. In connessione con la parola precedente, indica la speranza di chi sa che l’altro può cambiare. Spera sempre che sia possibile una maturazione, un sorprendente sbocciare di bellezza, che le potenzialità più nascoste del suo essere germoglino un giorno. Non vuol dire che tutto cambierà in questa vita. Implica accettare che certe cose non accadano come uno le desidera, ma che forse Dio scriva diritto sulle righe storte di quella persona e tragga qualche bene dai mali che essa non riesce a superare in questa terra.

117. Qui si fa presente la speranza nel suo senso pieno, perché comprende la certezza di una vita oltre la morte. Quella persona, con tutte le sue debolezze, è chiamata alla pienezza del Cielo. Là, completamente trasformata dalla risurrezione di Cristo, non esisteranno più le sue fragilità, le sue oscurità né le sue patologie. Là l’essere autentico di quella persona brillerà con tutta la sua potenza di bene e di bellezza. Questo altresì ci permette, in mezzo ai fastidi di questa terra, di contemplare quella persona con uno sguardo soprannaturale, alla luce della speranza, e attendere quella pienezza che un giorno riceverà nel Regno celeste, benché ora non sia visibile.

Tutto sopporta

118. Panta hypomenei significa che sopporta con spirito positivo tutte le contrarietà. Significa mantenersi saldi nel mezzo di un ambiente ostile. Non consiste soltanto nel tollerare alcune cose moleste, ma in qualcosa di più ampio: una resistenza dinamica e costante, capace di superare qualsiasi sfida. È amore malgrado tutto, anche quando tutto il contesto invita a un’altra cosa. Manifesta una dose di eroismo tenace, di potenza contro qualsiasi corrente negativa, una opzione per il bene che niente può rovesciare. Questo mi ricorda le parole di Martin Luther King, quando ribadiva la scelta dell’amore fraterno anche in mezzo alle peggiori persecuzioni e umiliazioni: «La persona che ti odia di più, ha qualcosa di buono dentro di sé; e anche la nazione che più odia, ha qualcosa di buono in sé; anche la razza che più odia, ha qualcosa di buono in sé. E quando arrivi al punto di guardare il volto di ciascun essere umano e vedi molto dentro di lui quello che la religione chiama “immagine di Dio”, cominci ad amarlo nonostante tutto. Non importa quello che fa, tu vedi lì l’immagine di Dio. C’è un elemento di bontà di cui non ti potrai mai sbarazzare […] Un altro modo in cui ami il tuo nemico è questo: quando si presenta l’opportunità di sconfiggere il tuo nemico, quello è il momento nel quale devi decidere di non farlo […] Quando ti elevi al livello dell’amore, della sua grande bellezza e potere, l’unica cosa che cerchi di sconfiggere sono i sistemi maligni. Le persone che sono intrappolate da quel sistema le ami, però cerchi di sconfiggere quel sistema […] Odio per odio intensifica solo l’esistenza dell’odio e del male nell’universo. Se io ti colpisco e tu mi colpisci, e ti restituisco il colpo e tu mi restituisci il colpo, e così di seguito, è evidente che si continua all’infinito. Semplicemente non finisce mai. Da qualche parte, qualcuno deve avere un po’ di buon senso, e quella è la persona forte. La persona forte è la persona che è capace di spezzare la catena dell’odio, la catena del male […] Qualcuno deve avere abbastanza fede e moralità per spezzarla e iniettare dentro la stessa struttura dell’universo l’elemento forte e potente dell’amore».[114]

119. Nella vita familiare c’è bisogno di coltivare questa forza dell’amore, che permette di lottare contro il male che la minaccia. L’amore non si lascia dominare dal rancore, dal disprezzo verso le persone, dal desiderio di ferire o di far pagare qualcosa. L’ideale cristiano, e in modo particolare nella famiglia, è amore malgrado tutto. A volte ammiro, per esempio, l’atteggiamento di persone che hanno dovuto separarsi dal coniuge per proteggersi dalla violenza fisica, e tuttavia, a causa della carità coniugale che sa andare oltre i sentimenti, sono stati capaci di agire per il suo bene, benché attraverso altri, in momenti di malattia, di sofferenza o di difficoltà. Anche questo è amore malgrado tutto.

Crescere nella carità coniugale

120. L’inno di san Paolo, che abbiamo percorso, ci permette di passare alla carità coniugale. Essa è l’amore che unisce gli sposi,[115] santificato, arricchito e illuminato dalla grazia del sacramento del matrimonio. È «un’unione affettiva»,[116] spirituale e oblativa, che però raccoglie in sé la tenerezza dell’amicizia e la passione erotica, benché sia in grado di sussistere anche quando i sentimenti e la passione si indebolissero. Il Papa Pio XI ha insegnato che tale amore permea tutti i doveri della vita coniugale e «tiene come il primato della nobiltà».[117] Infatti, tale amore forte, versato dallo Spirito Santo, è il riflesso dell’Alleanza indistruttibile tra Cristo e l’umanità, culminata nella dedizione sino alla fine, sulla croce: «Lo Spirito, che il Signore effonde, dona il cuore nuovo e rende l’uomo e la donna capaci di amarsi come Cristo ci ha amato. L’amore coniugale raggiunge quella pienezza a cui è interiormente ordinato, la carità coniugale».[118]

121. Il matrimonio è un segno prezioso, perché «quando un uomo e una donna celebrano il sacramento del Matrimonio, Dio, per così dire, si “rispecchia” in essi, imprime in loro i propri lineamenti e il carattere indelebile del suo amore. Il matrimonio è l’icona dell’amore di Dio per noi. Anche Dio, infatti, è comunione: le tre Persone del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo vivono da sempre e per sempre in unità perfetta. Ed è proprio questo il mistero del Matrimonio: Dio fa dei due sposi una sola esistenza».[119] Questo comporta conseguenze molto concrete e quotidiane, perché gli sposi, «in forza del Sacramento, vengono investiti di una vera e propria missione, perché possano rendere visibile, a partire dalle cose semplici, ordinarie, l’amore con cui Cristo ama la sua Chiesa, continuando a donare la vita per lei».[120]

122. Tuttavia, non è bene confondere piani differenti: non si deve gettare sopra due persone limitate il tremendo peso di dover riprodurre in maniera perfetta l’unione che esiste tra Cristo e la sua Chiesa, perché il matrimonio come segno implica «un processo dinamico, che avanza gradualmente con la progressiva integrazione dei doni di Dio».[121]

Tutta la vita, tutto in comune

123. Dopo l’amore che ci unisce a Dio, l’amore coniugale è la «più grande amicizia».[122] E’ un’unione che possiede tutte le caratteristiche di una buona amicizia: ricerca del bene dell’altro, reciprocità, intimità, tenerezza, stabilità, e una somiglianza tra gli amici che si va costruendo con la vita condivisa. Però il matrimonio aggiunge a tutto questo un’esclusività indissolubile, che si esprime nel progetto stabile di condividere e costruire insieme tutta l’esistenza. Siamo sinceri e riconosciamo i segni della realtà: chi è innamorato non progetta che tale relazione possa essere solo per un periodo di tempo, chi vive intensamente la gioia di sposarsi non pensa a qualcosa di passeggero; coloro che accompagnano la celebrazione di un’unione piena d’amore, anche se fragile, sperano che possa durare nel tempo; i figli non solo desiderano che i loro genitori si amino, ma anche che siano fedeli e rimangano sempre uniti. Questi e altri segni mostrano che nella stessa natura dell’amore coniugale vi è l’apertura al definitivo. L’unione che si cristallizza nella promessa matrimoniale per sempre, è più che una formalità sociale o una tradizione, perché si radica nelle inclinazioni spontanee della persona umana; e, per i credenti, è un’alleanza davanti a Dio che esige fedeltà: «Il Signore è testimone fra te e la donna della tua giovinezza, che hai tradito, mentre era la tua compagna, la donna legata a te da un patto: […] nessuno tradisca la donna della sua giovinezza. Perché io detesto il ripudio» (Ml 2,14.15.16).

124. Un amore debole o malato, incapace di accettare il matrimonio come una sfida che richiede di lottare, di rinascere, di reinventarsi e ricominciare sempre di nuovo fino alla morte, non è in grado di sostenere un livello alto di impegno. Cede alla cultura del provvisorio, che impedisce un processo costante di crescita. Però «promettere un amore che sia per sempre è possibile quando si scopre un disegno più grande dei propri progetti, che ci sostiene e ci permette di donare l’intero futuro alla persona amata».[123]Perché tale amore possa attraversare tutte le prove e mantenersi fedele nonostante tutto, si richiede il dono della grazia che lo fortifichi e lo elevi. Come diceva san Roberto Bellarmino, «il fatto che un uomo e una donna si uniscano in un legame esclusivo e indissolubile, in modo che non possano separarsi, quali che siano le difficoltà, e persino quando si sia persa la speranza della prole, questo non può avvenire senza un grande mistero».[124]

125. Il matrimonio, inoltre, è un’amicizia che comprende le note proprie della passione, ma sempre orientata verso un’unione via via più stabile e intensa. Perché «non è stato istituito soltanto per la procreazione», ma affinché l’amore reciproco «abbia le sue giuste manifestazioni, si sviluppi e arrivi a maturità»[125]. Questa peculiare amicizia tra un uomo e una donna acquista un carattere totalizzante che si dà unicamente nell’unione coniugale. Proprio perché è totalizzante questa unione è anche esclusiva, fedele e aperta alla generazione. Si condivide ogni cosa, compresa la sessualità, sempre nel reciproco rispetto. Il Concilio Vaticano II lo ha affermato dicendo che «un tale amore, unendo assieme valori umani e divini, conduce gli sposi al libero e mutuo dono di sé stessi, che si esprime mediante sentimenti e gesti di tenerezza e pervade tutta quanta la vita dei coniugi».[126]

Gioia e bellezza

126. Nel matrimonio è bene avere cura della gioia dell’amore. Quando la ricerca del piacere è ossessiva, rinchiude in un solo ambito e non permette di trovare altri tipi di soddisfazione. La gioia, invece, allarga la capacità di godere e permette di trovare gusto in realtà varie, anche nelle fasi della vita in cui il piacere si spegne. Per questo san Tommaso diceva che si usa la parola “gioia” per riferirsi alla dilatazione dell’ampiezza del cuore.[127] La gioia matrimoniale, che si può vivere anche in mezzo al dolore, implica accettare che il matrimonio è una necessaria combinazione di gioie e di fatiche, di tensioni e di riposo, di sofferenze e di liberazioni, di soddisfazioni e di ricerche, di fastidi e di piaceri, sempre nel cammino dell’amicizia, che spinge gli sposi a prendersi cura l’uno dell’altro: «prestandosi un mutuo aiuto e servizio».[128]

127. L’amore di amicizia si chiama “carità” quando si coglie e si apprezza “l’alto valore” che ha l’altro.[129] La bellezza – “l’alto valore” dell’altro che non coincide con le sue attrattive fisiche o psicologiche – ci permette di gustare la sacralità della sua persona senza l’imperiosa necessità di possederla. Nella società dei consumi si impoverisce il senso estetico e così si spegne la gioia. Tutto esiste per essere comprato, posseduto e consumato; anche le persone. La tenerezza, invece, è una manifestazione di questo amore che si libera dal desiderio egoistico di possesso egoistico. Ci porta a vibrare davanti a una persona con un immenso rispetto e con un certo timore di farle danno o di toglierle la sua libertà. L’amore per l’altro implica tale gusto di contemplare e apprezzare ciò che è bello e sacro del suo essere personale, che esiste al di là dei miei bisogni. Questo mi permette di ricercare il suo bene anche quando so che non può essere mio o quando è diventato fisicamente sgradevole, aggressivo o fastidioso. Perciò, «dall’amore per cui a uno è gradita un’altra persona dipende il fatto che le dia qualcosa gratis».[130]

128. L’esperienza estetica dell’amore si esprime in quello sguardo che contempla l’altro come un fine in sé stesso, quand’anche sia malato, vecchio o privo di attrattive sensibili. Lo sguardo che apprezza ha un’importanza enorme e lesinarlo produce di solito un danno. Quante cose fanno a volte i coniugi e i figli per essere considerati e tenuti in conto! Molte ferite e crisi hanno la loro origine nel momento in cui smettiamo di contemplarci. Questo è ciò che esprimono alcune lamentele e proteste che si sentono nelle famiglie. “Mio marito non mi guarda, sembra che per lui io sia invisibile”. “Per favore, guardami quando ti parlo”. “Mia moglie non mi guarda più, ora ha occhi solo per i figli”. “A casa mia non interesso a nessuno e neppure mi vedono, come se non esistessi”. L’amore apre gli occhi e permette di vedere, al di là di tutto, quanto vale un essere umano.

129. La gioia di tale amore contemplativo va coltivata. Dal momento che siamo fatti per amare, sappiamo che non esiste gioia maggiore che nel condividere un bene: «Regala e accetta regali, e divertiti» (Sir 14,16). Le gioie più intense della vita nascono quando si può procurare la felicità degli altri, in un anticipo del Cielo. Va ricordata la felice scena del film Il pranzo di Babette, dove la generosa cuoca riceve un abbraccio riconoscente e un elogio: «Come delizierai gli angeli!». È dolce e consolante la gioia che deriva dal procurare diletto agli altri, di vederli godere. Tale gioia, effetto dell’amore fraterno, non è quella della vanità di chi guarda sé stesso, ma quella di chi ama e si compiace del bene dell’amato, che si riversa nell’altro e diventa fecondo in lui.

130. Per altro verso, la gioia si rinnova nel dolore. Come diceva sant’Agostino, «quanto maggiore è stato il pericolo nella battaglia, tanto più intensa è la gioia nel trionfo».[131] Dopo aver sofferto e combattuto uniti, i coniugi possono sperimentare che ne è valsa la pena, perché hanno ottenuto qualcosa di buono, hanno imparato qualcosa insieme, o perché possono maggiormente apprezzare quello che hanno. Poche gioie umane sono tanto profonde e festose come quando due persone che si amano hanno conquistato insieme qualcosa che è loro costato un grande sforzo condiviso.

Sposarsi per amore

131. Voglio dire ai giovani che nulla di tutto questo viene pregiudicato quando l’amore assume la modalità dell’istituzione matrimoniale. L’unione trova in tale istituzione il modo di incanalare la sua stabilità e la sua crescita reale e concreta. E’ vero che l’amore è molto di più di un consenso esterno o di una forma di contratto matrimoniale, ma è altrettanto certo che la decisione di dare al matrimonio una configurazione visibile nella società con determinati impegni, manifesta la sua rilevanza: mostra la serietà dell’identificazione con l’altro, indica un superamento dell’individualismo adolescenziale, ed esprime la ferma decisione di appartenersi l’un l’altro. Sposarsi è un modo di esprimere che realmente si è abbandonato il nido materno per tessere altri legami forti e assumere una nuova responsabilità di fronte ad un’altra persona. Questo vale molto di più di una mera associazione spontanea per la mutua gratificazione, che sarebbe una privatizzazione del matrimonio. Il matrimonio come istituzione sociale è protezione e strumento per l’impegno reciproco, per la maturazione dell’amore, perché la decisione per l’altro cresca in solidità, concretezza e profondità, e al tempo stesso perché possa compiere la sua missione nella società. Perciò il matrimonio va oltre ogni moda passeggera e persiste. La sua essenza è radicata nella natura stessa della persona umana e del suo carattere sociale. Implica una serie di obblighi, che scaturiscono però dall’amore stesso, da un amore tanto determinato e generoso che è capace di rischiare il futuro.

132. Scegliere il matrimonio in questo modo esprime la decisione reale ed effettiva di trasformare due strade in un’unica strada, accada quel che accada e nonostante qualsiasi sfida. A causa della serietà di questo impegno pubblico di amore, non può essere una decisione affrettata, ma per la stessa ragione non la si può rimandare indefinitamente. Impegnarsi con un altro in modo esclusivo e definitivo comporta sempre una quota di rischio e di scommessa audace. Il rifiuto di assumere tale impegno è egoistico, interessato, meschino, non riesce a riconoscere i diritti dell’altro e non arriva mai a presentarlo alla società come degno di essere amato incondizionatamente. D’altra parte, quelli che sono veramente innamorati, tendono a manifestare agli altri il loro amore. L’amore concretizzato in un matrimonio contratto davanti agli altri, con tutti gli obblighi che derivano da questa istituzionalizzazione, è manifestazione e protezione di un “sì” che si dà senza riserve e senza restrizioni. Quel “sì” significa dire all’altro che potrà sempre fidarsi, che non sarà abbandonato se perderà attrattiva, se avrà difficoltà o se si offriranno nuove possibilità di piacere o di interessi egoistici.

Amore che si manifesta e cresce

133. L’amore di amicizia unifica tutti gli aspetti della vita matrimoniale e aiuta i membri della famiglia ad andare avanti in tutte le sue fasi. Perciò i gesti che esprimono tale amore devono essere costantemente coltivati, senza avarizia, ricchi di parole generose. Nella famiglia «è necessario usare tre parole. Vorrei ripeterlo. Tre parole: permesso, grazie, scusa. Tre parole chiave!».[132] «Quando in una famiglia non si è invadenti e si chiede “permesso”, quando in una famiglia non si è egoisti e si impara a dire “grazie”, e quando in una famiglia uno si accorge che ha fatto una cosa brutta e sa chiedere “scusa”, in quella famiglia c’è pace e c’è gioia».[133] Non siamo avari nell’utilizzare queste parole, siamo generosi nel ripeterle giorno dopo giorno, perché «alcuni silenzi pesano, a volte anche in famiglia, tra marito e moglie, tra padri e figli, tra fratelli».[134] Invece le parole adatte, dette al momento giusto, proteggono e alimentano l’amore giorno dopo giorno.

134. Tutto questo si realizza in un cammino di permanente crescita. Questa forma così particolare di amore che è il matrimonio, è chiamata ad una costante maturazione, perché ad essa bisogna sempre applicare quello che san Tommaso d’Aquino diceva della carità: «La carità, in ragione della sua natura, non ha un limite di aumento, essendo essa una partecipazione dell’infinita carità, che è lo Spirito Santo. […] Nemmeno da parte del soggetto le si può porre un limite, poiché col crescere della carità, cresce sempre più anche la capacità di un aumento ulteriore ».[135] San Paolo esortava con forza: «Il Signore vi faccia crescere e sovrabbondare nell’amore fra voi e verso tutti» (1 Ts 3,12); e aggiunge: «Riguardo all’amore fraterno […] vi esortiamo, fratelli, a progredire ancora di più» (1 Ts 4,9-10). Ancora di più. L’amore matrimoniale non si custodisce prima di tutto parlando dell’indissolubilità come di un obbligo, o ripetendo una dottrina, ma fortificandolo grazie ad una crescita costante sotto l’impulso della grazia. L’amore che non cresce inizia a correre rischi, e possiamo crescere soltanto corrispondendo alla grazia divina mediante più atti di amore, con atti di affetto più frequenti, più intensi, più generosi, più teneri, più allegri. Il marito e la moglie «sperimentano il senso della propria unità e sempre più pienamente la conseguono».[136] Il dono dell’amore divino che si effonde sugli sposi è al tempo stesso un appello ad un costante sviluppo di questo regalo della grazia.

135. Non fanno bene alcune fantasie su un amore idilliaco e perfetto, privato in tal modo di ogni stimolo a crescere. Un’idea celestiale dell’amore terreno dimentica che il meglio è quello che non è stato ancora raggiunto, il vino maturato col tempo. Come hanno ricordato i Vescovi del Cile, «non esistono le famiglie perfette che ci propone la pubblicità ingannevole e consumistica. In esse non passano gli anni, non esistono le malattie, il dolore, la morte […]. La pubblicità consumistica mostra un’illusione che non ha nulla a che vedere con la realtà che devono affrontare giorno per giorno i padri e la madri di famiglia».[137] È più sano accettare con realismo i limiti, le sfide e le imperfezioni, e dare ascolto all’appello a crescere uniti, a far maturare l’amore e a coltivare la solidità dell’unione, accada quel che accada.

Il dialogo

136. Il dialogo è una modalità privilegiata e indispensabile per vivere, esprimere e maturare l’amore nella vita coniugale e familiare. Ma richiede un lungo e impegnativo tirocinio. Uomini e donne, adulti e giovani, hanno modi diversi di comunicare, usano linguaggi differenti, si muovono con altri codici. Il modo di fare domande, la modalità delle risposte, il tono utilizzato, il momento e molti altri fattori possono condizionare la comunicazione. Inoltre, è sempre necessario sviluppare alcuni atteggiamenti che sono espressione di amore e rendono possibile il dialogo autentico.

137. Darsi tempo, tempo di qualità, che consiste nell’ascoltare con pazienza e attenzione, finché l’altro abbia espresso tutto quello che aveva bisogno di esprimere. Questo richiede l’ascesi di non incominciare a parlare prima del momento adatto. Invece di iniziare ad offrire opinioni o consigli, bisogna assicurarsi di aver ascoltato tutto quello che l’altro ha la necessità di dire. Questo implica fare silenzio interiore per ascoltare senza rumori nel cuore e nella mente: spogliarsi di ogni fretta, mettere da parte le proprie necessità e urgenze, fare spazio. Molte volte uno dei coniugi non ha bisogno di una soluzione ai suoi problemi ma di essere ascoltato. Deve percepire che è stata colta la sua pena, la sua delusione, la sua paura, la sua ira, la sua speranza, il suo sogno. Tuttavia sono frequenti queste lamentele: “Non mi ascolta. Quando sembra che lo stia facendo, in realtà sta pensando ad un’altra cosa”. “Parlo e sento che sta aspettando che finisca una buona volta”. “Quando parlo tenta di cambiare argomento, o mi dà risposte rapide per chiudere la conversazione”.

138. Sviluppare l’abitudine di dare importanza reale all’altro. Si tratta di dare valore alla sua persona, di riconoscere che ha il diritto di esistere, a pensare in maniera autonoma e ad essere felice. Non bisogna mai sottovalutare quello che può dire o reclamare, benché sia necessario esprimere il proprio punto di vista. È qui sottesa la convinzione secondo la quale tutti hanno un contributo da offrire, perché hanno un’altra esperienza della vita, perché guardano le cose da un altro punto di vista, perché hanno maturato altre preoccupazioni e hanno altre abilità e intuizioni. È possibile riconoscere la verità dell’altro, l’importanza delle sue più profonde preoccupazioni e il sottofondo di quello che dice, anche dietro parole aggressive. Per tale ragione bisogna cercare di mettersi nei suoi panni e di interpretare la profondità del suo cuore, individuare quello che lo appassiona e prendere quella passione come punto di partenza per approfondire il dialogo.

139. Ampiezza mentale, per non rinchiudersi con ossessione su poche idee, e flessibilità per poter modificare o completare le proprie opinioni. È possibile che dal mio pensiero e dal pensiero dell’altro possa emergere una nuova sintesi che arricchisca entrambi. L’unità alla quale occorre aspirare non è uniformità, ma una “unità nella diversità” o una “diversità riconciliata”. In questo stile arricchente di comunione fraterna, i diversi si incontrano, si rispettano e si apprezzano, mantenendo tuttavia differenti sfumature e accenti che arricchiscono il bene comune. C’è bisogno di liberarsi dall’obbligo di essere uguali. E ci vuole anche astuzia per accorgersi in tempo delle “interferenze” che possono comparire, in modo che non distruggano un processo di dialogo. Per esempio, riconoscere i cattivi sentimenti che potrebbero emergere e relativizzarli affinché non pregiudichino la comunicazione. È importante la capacità di esprimere ciò che si sente senza ferire; utilizzare un linguaggio e un modo di parlare che possano essere più facilmente accettati o tollerati dall’altro, benché il contenuto sia esigente; esporre le proprie critiche senza però scaricare l’ira come forma di vendetta, ed evitare un linguaggio moralizzante che cerchi soltanto di aggredire, ironizzare, incolpare, ferire. Molte discussioni nella coppia non sono per questioni molto gravi. A volte si tratta di cose piccole, poco rilevanti, ma quello che altera gli animi è il modo di pronunciarle o l’atteggiamento che si assume nel dialogo.

140. Avere gesti di attenzione per l’altro e dimostrazioni di affetto. L’amore supera le peggiori barriere. Quando si può amare qualcuno o quando ci sentiamo amati da lui, riusciamo a comprendere meglio quello che vuole esprimere e farci capire. Superare la fragilità che ci porta ad avere timore dell’altro come se fosse un “concorrente”. È molto importante fondare la propria sicurezza su scelte profonde, convinzioni e valori, e non sul vincere una discussione o sul fatto che ci venga data ragione.

141. Infine, riconosciamo che affinché il dialogo sia proficuo bisogna avere qualcosa da dire, e ciò richiede una ricchezza interiore che si alimenta nella lettura, nella riflessione personale, nella preghiera e nell’apertura alla società. Diversamente, le conversazioni diventano noiose e inconsistenti. Quando ognuno dei coniugi non cura il proprio spirito e non esiste una varietà di relazioni con altre persone, la vita familiare diventa endogamica e il dialogo si impoverisce.

Amore appassionato

142. Il Concilio Vaticano II ha insegnato che questo amore coniugale «abbraccia il bene di tutta la persona; perciò ha la possibilità di arricchire di particolare dignità le espressioni del corpo e della vita psichica e di nobilitarle come elementi e segni speciali dell’amicizia coniugale».[138] Ci deve essere qualche ragione per il fatto che un amore senza piacere né passione non è sufficiente a simboleggiare l’unione del cuore umano con Dio: «Tutti i mistici hanno affermato che l’amore soprannaturale e l’amore celeste trovano i simboli di cui vanno alla ricerca nell’amore matrimoniale, più che nell’amicizia, più che nel sentimento filiale o nella dedizione a una causa. E il motivo risiede giustamente nella sua totalità».[139] Perché allora non soffermarci a parlare dei sentimenti e della sessualità nel matrimonio?

Il mondo delle emozioni

143. Desideri, sentimenti, emozioni, quello che i classici chiamavano “passioni”, occupano un posto importante nel matrimonio. Si generano quando un “altro” si fa presente e si manifesta nella propria vita. È proprio di ogni essere vivente tendere verso un’altra realtà, e questa tendenza presenta sempre segni affettivi basilari: il piacere o il dolore, la gioia o la pena, la tenerezza o il timore. Sono il presupposto dell’attività psicologica più elementare. L’essere umano è un vivente di questa terra e tutto quello che fa e cerca è carico di passioni.

144. Gesù, come vero uomo, viveva le cose con una carica di emotività. Perciò lo addolorava il rifiuto di Gerusalemme (cfr Mt 23,37) e questa situazione gli faceva versare lacrime (cfr Lc 19,41). Ugualmente provava compassione di fronte alla sofferenza della gente (cfr Mc 6,34). Vedendo piangere gli altri si commuoveva e si turbava (cfr Gv 11,33), ed Egli stesso pianse la morte di un amico (cfr Gv 11,35). Queste manifestazioni della sua sensibilità mostravano fino a che punto il suo cuore umano era aperto agli altri.

145. Provare un’emozione non è qualcosa di moralmente buono o cattivo per sé stesso.[140] Incominciare a provare desiderio o rifiuto non è peccaminoso né riprovevole. Quello che è bene o male è l’atto che uno compie spinto o accompagnato da una passione. Ma se i sentimenti sono alimentati, ricercati e a causa di essi commettiamo cattive azioni, il male sta nella decisione di alimentarli e negli atti cattivi che ne conseguono. Sulla stessa linea, provare piacere per qualcuno non è di per sé un bene. Se con tale piacere io faccio in modo che quella persona diventi mia schiava, il sentimento sarà al servizio del mio egoismo. Credere che siamo buoni solo perché “proviamo dei sentimenti” è un tremendo inganno. Ci sono persone che si sentono capaci di un grande amore solo perché hanno una grande necessità di affetto, però non sono in grado di lottare per la felicità degli altri e vivono rinchiusi nei propri desideri. In tal caso i sentimenti distolgono dai grandi valori e nascondono un egocentrismo che non rende possibile coltivare una vita in famiglia sana e felice.

146. D’altro canto, se una passione accompagna l’atto libero, può manifestare la profondità di quella scelta. L’amore matrimoniale porta a fare in modo che tutta la vita emotiva diventi un bene per la famiglia e sia al servizio della vita in comune. La maturità giunge in una famiglia quando la vita emotiva dei suoi membri si trasforma in una sensibilità che non domina né oscura le grandi opzioni e i valori ma che asseconda la loro libertà,[141] sorge da essa, la arricchisce, la abbellisce e la rende più armoniosa per il bene di tutti.

Dio ama la gioia dei suoi figli

147. Questo richiede un cammino pedagogico, un processo che comporta delle rinunce. È una convinzione della Chiesa che molte volte è stata rifiutata, come se fosse nemica della felicità umana. Benedetto XVI ha raccolto questo interrogativo con grande chiarezza: «La Chiesa con i suoi comandamenti e divieti non ci rende forse amara la cosa più bella della vita? Non innalza forse cartelli di divieto proprio là dove la gioia, predisposta per noi dal Creatore, ci offre una felicità che ci fa pregustare qualcosa del Divino?».[142] Ma egli rispondeva che, seppure non sono mancati nel cristianesimo esagerazioni o ascetismi deviati, l’insegnamento ufficiale della Chiesa, fedele alle Scritture, non ha rifiutato «l’eros come tale, ma ha dichiarato guerra al suo stravolgimento distruttore, poiché la falsa divinizzazione dell’eros […] lo priva della sua dignità, lo disumanizza».[143]

148. L’educazione dell’emotività e dell’istinto è necessaria, e a tal fine a volte è indispensabile porsi qualche limite. L’eccesso, la mancanza di controllo, l’ossessione per un solo tipo di piaceri, finiscono per debilitare e far ammalare lo stesso piacere,[144] e danneggiano la vita della famiglia. In realtà si può compiere un bel cammino con le passioni, il che significa orientarle sempre più in un progetto di autodonazione e di piena realizzazione di sé che arricchisce le relazioni interpersonali in seno alla famiglia. Non implica rinunciare ad istanti di intensa gioia,[145] ma assumerli in un intreccio con altri momenti di generosa dedizione, di speranza paziente, di inevitabile stanchezza, di sforzo per un ideale. La vita in famiglia è tutto questo e merita di essere vissuta interamente.

149. Alcune correnti spirituali insistono sull’eliminare il desiderio per liberarsi dal dolore. Ma noi crediamo che Dio ama la gioia dell’essere umano, che Egli ha creato tutto «perché possiamo goderne» (1 Tm 6,17). Lasciamo sgorgare la gioia di fronte alla sua tenerezza quando ci propone: «Figlio, trattati bene […]. Non privarti di un giorno felice» (Sir 14,11.14). Anche una coppia di coniugi risponde alla volontà di Dio seguendo questo invito biblico: «Nel giorno lieto sta’ allegro» (Qo 7,14). La questione è avere la libertà per accettare che il piacere trovi altre forme di espressione nei diversi momenti della vita, secondo le necessità del reciproco amore. In tal senso, si può accogliere la proposta di alcuni maestri orientali che insistono sull’allargare la coscienza, per non rimanere prigionieri in un’esperienza molto limitata che ci chiuderebbe le prospettive. Tale ampliamento della coscienza non è la negazione o la distruzione del desiderio, bensì la sua dilatazione e il suo perfezionamento.

La dimensione erotica dell’amore

150. Tutto questo ci porta a parlare della vita sessuale dei coniugi. Dio stesso ha creato la sessualità, che è un regalo meraviglioso per le sue creature. Quando la si coltiva e si evita che manchi di controllo, è per impedire che si verifichi «l’impoverimento di un valore autentico».[146] San Giovanni Paolo II ha respinto l’idea che l’insegnamento della Chiesa porti a «una negazione del valore del sesso umano» o che semplicemente lo tolleri «per la necessità stessa della procreazione».[147] Il bisogno sessuale degli sposi non è oggetto di disprezzo e «non si tratta in alcun modo di mettere in questione quel bisogno».[148]

151. A coloro che temono che con l’educazione delle passioni e della sessualità si pregiudichi la spontaneità dell’amore sessuato, san Giovanni Paolo II rispondeva che l’essere umano è «chiamato alla piena e matura spontaneità dei rapporti», che «è il graduale frutto del discernimento degli impulsi del proprio cuore».[149] È qualcosa che si conquista, dal momento che ogni essere umano «deve con perseveranza e coerenza imparare che cosa è il significato del corpo».[150] La sessualità non è una risorsa per gratificare o intrattenere, dal momento che è un linguaggio interpersonale dove l’altro è preso sul serio, con il suo sacro e inviolabile valore. In tal modo «il cuore umano diviene partecipe, per così dire, di un’altra spontaneità».[151] In questo contesto, l’erotismo appare come manifestazione specificamente umana della sessualità. In esso si può ritrovare «il significato sponsale del corpo e l’autentica dignità del dono».[152] Nelle sue catechesi sulla teologia del corpo umano, san Giovanni Paolo II ha insegnato che la corporeità sessuata «è non soltanto sorgente di fecondità e di procreazione», ma possiede «la capacità di esprimere l’amore: quell’amore appunto nel quale l’uomo-persona diventa dono».[153] L’erotismo più sano, sebbene sia unito a una ricerca di piacere, presuppone lo stupore, e perciò può umanizzare gli impulsi.

152. Pertanto, in nessun modo possiamo intendere la dimensione erotica dell’amore come un male permesso o come un peso da sopportare per il bene della famiglia, bensì come dono di Dio che abbellisce l’incontro tra gli sposi. Trattandosi di una passione sublimata dall’amore che ammira la dignità dell’altro, diventa una «piena e limpidissima affermazione d’amore» che ci mostra di quali meraviglie è capace il cuore umano, e così per un momento «si percepisce che l’esistenza umana è stata un successo».[154]

Violenza e manipolazione

153. Nel contesto di questa visione positiva della sessualità, è opportuno impostare il tema nella sua integrità e con un sano realismo. Infatti non possiamo ignorare che molte volte la sessualità si spersonalizza ed anche si colma di patologie, in modo tale che «diventa sempre più occasione e strumento di affermazione del proprio io e di soddisfazione egoistica dei propri desideri e istinti».[155] In questa epoca diventa alto il rischio che anche la sessualità sia dominata dallo spirito velenoso dell’“usa e getta”. Il corpo dell’altro è spesso manipolato come una cosa da tenere finché offre soddisfazione e da disprezzare quando perde attrattiva. Si possono forse ignorare o dissimulare le costanti forme di dominio, prepotenza, abuso, perversione e violenza sessuale, che sono frutto di una distorsione del significato della sessualità e che seppelliscono la dignità degli altri e l’appello all’amore sotto un’oscura ricerca di sé stessi?

154. Non è superfluo ricordare che anche nel matrimonio la sessualità può diventare fonte di sofferenza e di manipolazione. Per questo dobbiamo ribadire con chiarezza che «un atto coniugale imposto al coniuge senza nessun riguardo alle sue condizioni ed ai suoi giusti desideri non è un vero atto di amore e nega pertanto un’esigenza del retto ordine morale nei rapporti tra gli sposi».[156]Gli atti propri dell’unione sessuale dei coniugi rispondono alla natura della sessualità voluta da Dio se sono «compiuti in modo veramente umano».[157] Per questo san Paolo esortava: «Che nessuno in questo campo offenda o inganni il proprio fratello» (1 Ts4,6). Sebbene egli scrivesse in un’epoca in cui dominava una cultura patriarcale, nella quale la donna era considerata un essere completamente subordinato all’uomo, tuttavia insegnò che la sessualità dev’essere una questione da trattare tra i coniugi: prospettò la possibilità di rimandare i rapporti sessuali per un certo periodo, però «di comune accordo» (1 Cor 7,5).

155. San Giovanni Paolo II ha dato un avvertimento molto sottile quando ha affermato che l’uomo e la donna sono «minacciati dall’insaziabilità».[158] Vale a dire, sono chiamati ad un’unione sempre più intensa, ma il rischio sta nel pretendere di cancellare le differenze e quell’inevitabile distanza che vi è tra i due. Perché ciascuno possiede una dignità propria e irripetibile. Quando la preziosa appartenenza reciproca si trasforma in dominio, «cambia […] essenzialmente la struttura di comunione nella relazione interpersonale».[159] Nella logica del dominio, anche chi domina finisce per negare la propria dignità[160] e in definitiva cessa di «identificarsi soggettivamente con il proprio corpo»,[161] dal momento che lo priva di ogni significato. Vive il sesso come evasione da sé stesso e come rinuncia alla bellezza dell’unione.

156. E’ importante essere chiari nel rifiuto di qualsiasi forma di sottomissione sessuale. Perciò è opportuno evitare ogni interpretazione inadeguata del testo della Lettera agli Efesini dove si chiede che «le mogli siano [sottomesse] ai loro mariti» (Ef5,22). San Paolo qui si esprime in categorie culturali proprie di quell’epoca, ma noi non dobbiamo assumere tale rivestimento culturale, bensì il messaggio rivelato che soggiace all’insieme della pericope. Riprendiamo la sapiente spiegazione di san Giovanni Paolo II: «L’amore esclude ogni genere di sottomissione, per cui la moglie diverrebbe serva o schiava del marito […]. La comunità o unità che essi debbono costituire a motivo del matrimonio, si realizza attraverso una reciproca donazione, che è anche una sottomissione vicendevole».[162] Per questo si dice anche che «i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo» (Ef5,28). In realtà il testo biblico invita a superare il comodo individualismo per vivere rivolti agli altri: «Siate sottomessi gli uni agli altri» (Ef 5,21). Tra i coniugi questa reciproca “sottomissione” acquisisce un significato speciale e si intende come un’appartenenza reciproca liberamente scelta, con un insieme di caratteristiche di fedeltà, rispetto e cura. La sessualità è in modo inseparabile al servizio di tale amicizia coniugale, perché si orienta a fare in modo che l’altro viva in pienezza.

157. Tuttavia, il rifiuto delle distorsioni della sessualità e dell’erotismo non dovrebbe mai condurci a disprezzarli o a trascurarli. L’ideale del matrimonio non si può configurare solo come una donazione generosa e sacrificata, dove ciascuno rinuncia ad ogni necessità personale e si preoccupa soltanto di fare il bene dell’altro senza alcuna soddisfazione. Ricordiamo che un vero amore sa anche ricevere dall’altro, è capace di accettarsi come vulnerabile e bisognoso, non rinuncia ad accogliere con sincera e felice gratitudine le espressioni corporali dell’amore nella carezza, nell’abbraccio, nel bacio e nell’unione sessuale. Benedetto XVI era chiaro a tale proposito: «Se l’uomo ambisce di essere solamente spirito e vuol rifiutare la carne come una eredità soltanto animalesca, allora spirito e corpo perdono la loro dignità».[163] Per questa ragione «l’uomo non può neanche vivere esclusivamente nell’amore oblativo, discendente. Non può sempre soltanto donare, deve anche ricevere. Chi vuol donare amore, deve egli stesso riceverlo in dono».[164] Questo richiede, in ogni modo, di ricordare che l’equilibrio umano è fragile, che rimane sempre qualcosa che resiste ad essere umanizzato e che in qualsiasi momento può scatenarsi nuovamente, recuperando le sue tendenze più primitive ed egoistiche.

Matrimonio e verginità

158. «Molte persone che vivono senza sposarsi non soltanto sono dedite alla propria famiglia d’origine, ma spesso rendono grandi servizi nella loro cerchia di amici, nella comunità ecclesiale e nella vita professionale. […] Molti, poi, mettono i loro talenti a servizio della comunità cristiana nel segno della carità e del volontariato. Vi sono poi coloro che non si sposano perché consacrano la vita per amore di Cristo e dei fratelli. Dalla loro dedizione la famiglia, nella Chiesa e nella società, è grandemente arricchita».[165]

159. La verginità è una forma d’amore. Come segno, ci ricorda la premura per il Regno, l’urgenza di dedicarsi senza riserve al servizio dell’evangelizzazione (cfr 1 Cor 7,32), ed è un riflesso della pienezza del Cielo, dove «non si prende né moglie né marito» (Mt 22,30). San Paolo la raccomandava perché attendeva un imminente ritorno di Gesù e voleva che tutti si concentrassero unicamente sull’evangelizzazione: «Il tempo si è fatto breve» (1 Cor 7,29). Tuttavia rimaneva chiaro che era un’opinione personale e un suo desiderio (cfr 1 Cor 7,6-8) e non una richiesta di Cristo: «Non ho alcun comando dal Signore» (1 Cor 7,25). Nello stesso tempo, riconosceva il valore delle diverse chiamate: «Ciascuno riceve da Dio il proprio dono, chi in un modo, chi in un altro» (1 Cor7,7). In questo senso san Giovanni Paolo II ha affermato che i testi biblici «non forniscono motivo per sostenere né l’“inferiorità” del matrimonio, né la “superiorità” della verginità o del celibato»[166] a motivo dell’astinenza sessuale. Più che parlare della superiorità della verginità sotto ogni profilo, sembra appropriato mostrare che i diversi stati di vita sono complementari, in modo tale che uno può essere più perfetto per qualche aspetto e l’altro può esserlo da un altro punto di vista. Alessandro di Hales, per esempio, affermava che in un senso il matrimonio può considerarsi superiore agli altri sacramenti: perché simboleggia qualcosa di così grande come «l’unione di Cristo con la Chiesa o l’unione della natura divina con quella umana».[167]

160. Pertanto, «non si tratta di sminuire il valore del matrimonio a vantaggio della continenza»[168] e «non vi è invece alcuna base per una supposta contrapposizione […]. Se, stando a una certa tradizione teologica, si parla dello stato di perfezione (status perfectionis), lo si fa non a motivo della continenza stessa, ma riguardo all’insieme della vita fondata sui consigli evangelici».[169]Tuttavia una persona sposata può vivere la carità in altissimo grado. Dunque «perviene a quella perfezione che scaturisce dalla carità, mediante la fedeltà allo spirito di quei consigli. Tale perfezione è possibile e accessibile ad ogni uomo».[170]

161. La verginità ha il valore simbolico dell’amore che non ha la necessità di possedere l’altro, e riflette in tal modo la libertà del Regno dei Cieli. È un invito agli sposi perché vivano il loro amore coniugale nella prospettiva dell’amore definitivo a Cristo, come un cammino comune verso la pienezza del Regno. A sua volta, l’amore degli sposi presenta altri valori simbolici: da una parte, è un peculiare riflesso della Trinità. Infatti la Trinità è unità piena, nella quale però esiste anche la distinzione. Inoltre, la famiglia è un segno cristologico, perché manifesta la vicinanza di Dio che condivide la vita dell’essere umano unendosi ad esso nell’Incarnazione, nella Croce e nella Risurrezione: ciascun coniuge diventa “una sola carne” con l’altro e offre sé stesso per condividerlo interamente con l’altro sino alla fine. Mentre la verginità è un segno “escatologico” di Cristo risorto, il matrimonio è un segno “storico” per coloro che camminano sulla terra, un segno di Cristo terreno che accettò di unirsi a noi e si donò fino a donare il suo sangue. La verginità e il matrimonio sono, e devono essere, modalità diverse di amare, perché «l’uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per sé stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore».[171]

162. Il celibato corre il rischio di essere una comoda solitudine, che offre libertà per muoversi con autonomia, per cambiare posto, compiti e scelte, per disporre del proprio denaro, per frequentare persone diverse secondo l’attrattiva del momento. In tal caso, risplende la testimonianza delle persone sposate. Coloro che sono stati chiamati alla verginità possono trovare in alcune coppie di coniugi un segno chiaro della generosa e indistruttibile fedeltà di Dio alla sua Alleanza, che può stimolare i loro cuori a una disponibilità più concreta e oblativa. Infatti ci sono persone sposate che mantengono la loro fedeltà quando il coniuge è diventato sgradevole fisicamente, o quando non soddisfa le loro necessità, nonostante che molte occasioni li invitino all’infedeltà o all’abbandono. Una donna può curare suo marito malato e lì, accanto alla Croce, torna a ripetere il “sì” del suo amore fino alla morte. In tale amore si manifesta in modo splendido la dignità di chi ama, dignità come riflesso della carità, dal momento che è proprio della carità amare più che essere amati.[172]Possiamo anche riscontrare in molte famiglie una capacità di servizio oblativo e tenero nei confronti di figli difficili e persino ingrati. Questo fa di tali genitori un segno dell’amore libero e disinteressato di Gesù. Tutto ciò diventa un invito alle persone celibi perché vivano la loro dedizione per il Regno con maggiore generosità e disponibilità. Oggi la secolarizzazione ha offuscato il valore di un’unione per tutta la vita e ha sminuito la ricchezza della dedizione matrimoniale, per cui «occorre approfondire gli aspetti positivi dell’amore coniugale».[173]

La trasformazione dell’amore

163. Il prolungarsi della vita fa sì che si verifichi qualcosa che non era comune in altri tempi: la relazione intima e la reciproca appartenenza devono conservarsi per quattro, cinque o sei decenni, e questo comporta la necessità di ritornare a scegliersi a più riprese. Forse il coniuge non è più attratto da un desiderio sessuale intenso che lo muova verso l’altra persona, però sente il piacere di appartenerle e che essa gli appartenga, di sapere che non è solo, di aver un “complice” che conosce tutto della sua vita e della sua storia e che condivide tutto. È il compagno nel cammino della vita con cui si possono affrontare le difficoltà e godere le cose belle. Anche questo genera una soddisfazione che accompagna il desiderio proprio dell’amore coniugale. Non possiamo prometterci di avere gli stessi sentimenti per tutta la vita. Ma possiamo certamente avere un progetto comune stabile, impegnarci ad amarci e a vivere uniti finché la morte non ci separi, e vivere sempre una ricca intimità. L’amore che ci promettiamo supera ogni emozione, sentimento o stato d’animo, sebbene possa includerli. È un voler bene più profondo, con una decisione del cuore che coinvolge tutta l’esistenza. Così, in mezzo ad un conflitto non risolto, e benché molti sentimenti confusi si aggirino nel cuore, si mantiene viva ogni giorno la decisione di amare, di appartenersi, di condividere la vita intera e di continuare ad amarsi e perdonarsi. Ciascuno dei due compie un cammino di crescita e di cambiamento personale. Nel corso di tale cammino, l’amore celebra ogni passo e ogni nuova tappa.

164. Nella storia di un matrimonio, l’aspetto fisico muta, ma questo non è un motivo perché l’attrazione amorosa venga meno. Ci si innamora di una persona intera con una identità propria, non solo di un corpo, sebbene tale corpo, al di là del logorio del tempo, non finisca mai di esprimere in qualche modo quell’identità personale che ha conquistato il cuore. Quando gli altri non possono più riconoscere la bellezza di tale identità, il coniuge innamorato continua ad essere capace di percepirla con l’istinto dell’amore, e l’affetto non scompare. Riafferma la sua decisione di appartenere ad essa, la sceglie nuovamente ed esprime tale scelta attraverso una vicinanza fedele e colma di tenerezza. La nobiltà della sua decisione per essa, essendo intensa e profonda, risveglia una nuova forma di emozione nel compimento della missione coniugale. Perché «l’emozione provocata da un altro essere umano come persona […] non tende di per sé all’atto coniugale».[174] Acquisisce altre espressioni sensibili perché l’amore «è un’unica realtà, seppur con diverse dimensioni; di volta in volta, l’una o l’altra dimensione può emergere maggiormente».[175] Il vincolo trova nuove modalità ed esige la decisione di riprendere sempre nuovamente a stabilirlo. Non solo però per conservarlo, ma per farlo crescere. È il cammino di costruirsi giorno per giorno. Ma nulla di questo è possibile se non si invoca lo Spirito Santo, se non si grida ogni giorno chiedendo la sua grazia, se non si cerca la sua forza soprannaturale, se non gli si richiede ansiosamente che effonda il suo fuoco sopra il nostro amore per rafforzarlo, orientarlo e trasformarlo in ogni nuova situazione.

 

CAPITOLO QUINTO

L’AMORE CHE DIVENTA FECONDO

165. L’amore dà sempre vita. Per questo, l’amore coniugale «non si esaurisce all’interno della coppia […]. I coniugi, mentre si donano tra loro, donano al di là di se stessi la realtà del figlio, riflesso vivente del loro amore, segno permanente della unità coniugale e sintesi viva ed indissociabile del loro essere padre e madre».[176]

Accogliere una nuova vita

166. La famiglia è l’ambito non solo della generazione, ma anche dell’accoglienza della vita che arriva come dono di Dio. Ogni nuova vita «ci permette di scoprire la dimensione più gratuita dell’amore, che non finisce mai di stupirci. E’ la bellezza di essere amati prima: i figli sono amati prima che arrivino».[177] Questo riflette il primato dell’amore di Dio che prende sempre l’iniziativa, perché i figli «sono amati prima di aver fatto qualsiasi cosa per meritarlo».[178] Tuttavia, «tanti bambini fin dall’inizio sono rifiutati, abbandonati, derubati della loro infanzia e del loro futuro. Qualcuno osa dire, quasi per giustificarsi, che è stato un errore farli venire al mondo. Questo è vergognoso! […] Che ne facciamo delle solenni dichiarazioni dei diritti dell’uomo e dei diritti del bambino, se poi puniamo i bambini per gli errori degli adulti?».[179] Se un bambino viene al mondo in circostanze non desiderate, i genitori o gli altri membri della famiglia, devono fare tutto il possibile per accettarlo come dono di Dio e per assumere la responsabilità di accoglierlo con apertura e affetto. Perché «quando si tratta dei bambini che vengono al mondo, nessun sacrificio degli adulti sarà giudicato troppo costoso o troppo grande, pur di evitare che un bambino pensi di essere uno sbaglio, di non valere niente e di essere abbandonato alle ferite della vita e alla prepotenza degli uomini».[180] Il dono di un nuovo figlio che il Signore affida a papà e mamma ha inizio con l’accoglienza, prosegue con la custodia lungo la vita terrena e ha come destino finale la gioia della vita eterna. Uno sguardo sereno verso il compimento ultimo della persona umana renderà i genitori ancora più consapevoli del prezioso dono loro affidato: ad essi infatti Dio concede di scegliere il nome col quale Egli chiamerà ogni suo figlio per l’eternità.[181]

167. Le famiglie numerose sono una gioia per la Chiesa. In esse l’amore esprime la sua fecondità generosa. Questo non implica dimenticare una sana avvertenza di san Giovanni Paolo II, quando spiegava che la paternità responsabile non è «procreazione illimitata o mancanza di consapevolezza circa il significato di allevare figli, ma piuttosto la possibilità data alle coppie di utilizzare la loro inviolabile libertà saggiamente e responsabilmente, tenendo presente le realtà sociali e demografiche così come la propria situazione e i legittimi desideri».[182]

L’amore nell’attesa propria della gravidanza

168. La gravidanza è un periodo difficile, ma anche un tempo meraviglioso. La madre collabora con Dio perché si produca il miracolo di una nuova vita. La maternità proviene da una «particolare potenzialità dell’organismo femminile, che con peculiarità creatrice serve al concepimento e alla generazione dell’essere umano».[183] Ogni donna partecipa «del mistero della creazione, che si rinnova nella generazione umana».[184] Come dice il Salmo: «Mi hai tessuto nel grembo di mia madre» (139,13). Ogni bambino che si forma all’interno di sua madre è un progetto eterno di Dio Padre e del suo amore eterno: «Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato» (Ger 1,5). Ogni bambino sta da sempre nel cuore di Dio, e nel momento in cui viene concepito si compie il sogno eterno del Creatore. Pensiamo quanto vale l’embrione dall’istante in cui è concepito! Bisogna guardarlo con lo stesso sguardo d’amore del Padre, che vede oltre ogni apparenza.

169. La donna in gravidanza può partecipare a tale progetto di Dio sognando suo figlio: «Tutte le mamme e tutti i papà hanno sognato il loro figlio per nove mesi. […] Non è possibile una famiglia senza il sogno. Quando in una famiglia si perde la capacità di sognare, i bambini non crescono e l’amore non cresce, la vita si affievolisce e si spegne».[185] All’interno di questo sogno, per una coppia di coniugi cristiani, appare necessariamente il Battesimo. I genitori lo preparano con la loro preghiera, affidando il figlio a Gesù già prima della sua nascita.

170. Con i progressi delle scienze oggi si può sapere in anticipo che colore di capelli avrà il bambino e di quali malattie potrà soffrire in futuro, perché tutte le caratteristiche somatiche di quella persona sono inscritte nel suo codice genetico già nello stadio embrionale. Ma solo il Padre che lo ha creato lo conosce pienamente. Solo Lui conosce ciò che è più prezioso, ciò che è più importante, perché Egli sa chi è quel bambino, qual è la sua identità più profonda. La madre che lo porta nel suo grembo ha bisogno di chiedere luce a Dio per poter conoscere in profondità il proprio figlio e per attenderlo quale è veramente. Alcuni genitori sentono che il loro figlio non arriva nel momento migliore. Hanno bisogno di chiedere al Signore che li guarisca e li fortifichi per accettare pienamente quel figlio, per poterlo attendere con il cuore. È importante che quel bambino si senta atteso. Egli non è un complemento o una soluzione per un’aspirazione personale. È un essere umano, con un valore immenso e non può venire usato per il proprio beneficio. Dunque, non è importante se questa nuova vita ti servirà o no, se possiede caratteristiche che ti piacciono o no, se risponde o no ai tuoi progetti e ai tuoi sogni. Perché «i figli sono un dono. Ciascuno è unico e irripetibile […]. Un figlio lo si ama perché è figlio: non perché è bello, o perché è così o cosà; no, perché è figlio! Non perché la pensa come me, o incarna i miei desideri. Un figlio è un figlio».[186] L’amore dei genitori è strumento dell’amore di Dio Padre che attende con tenerezza la nascita di ogni bambino, lo accetta senza condizioni e lo accoglie gratuitamente.

171. Ad ogni donna in gravidanza desidero chiedere con affetto: abbi cura della tua gioia, che nulla ti tolga la gioia interiore della maternità. Quel bambino merita la tua gioia. Non permettere che le paure, le preoccupazioni, i commenti altrui o i problemi spengano la felicità di essere strumento di Dio per portare al mondo una nuova vita. Occupati di quello che c’è da fare o preparare, ma senza ossessionarti, e loda come Maria: «L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio Salvatore, perché ha guardato l’umiltà della sua serva» (Lc 1,46-48). Vivi con sereno entusiasmo in mezzo ai tuoi disagi, e prega il Signore che custodisca la tua gioia perché tu possa trasmetterla al tuo bambino.

Amore di madre e di padre

172. «I bambini, appena nati, incominciano a ricevere in dono, insieme col nutrimento e le cure, la conferma delle qualità spirituali dell’amore. Gli atti dell’amore passano attraverso il dono del nome personale, la condivisione del linguaggio, le intenzioni degli sguardi, le illuminazioni dei sorrisi. Imparano così che la bellezza del legame fra gli esseri umani punta alla nostra anima, cerca la nostra libertà, accetta la diversità dell’altro, lo riconosce e lo rispetta come interlocutore. […] E questo è amore, che porta una scintilla di quello di Dio!».[187] Ogni bambino ha il diritto di ricevere l’amore di una madre e di un padre, entrambi necessari per la sua maturazione integra e armoniosa. Come hanno affermato i Vescovi dell’Australia, entrambi «contribuiscono, ciascuno in una maniera diversa, alla crescita di un bambino. Rispettare la dignità di un bambino significa affermare la sua necessità e il suo diritto naturale ad avere una madre e un padre».[188] Non si tratta solo dell’amore del padre e della madre presi separatamente, ma anche dell’amore tra di loro, percepito come fonte della propria esistenza, come nido che accoglie e come fondamento della famiglia. Diversamente, il figlio sembra ridursi ad un possesso capriccioso. Entrambi, uomo e donna, padre e madre, sono «cooperatori dell’amore di Dio Creatore e quasi suoi interpreti».[189] Mostrano ai loro figli il volto materno e il volto paterno del Signore. Inoltre essi insieme insegnano il valore della reciprocità, dell’incontro tra differenti, dove ciascuno apporta la sua propria identità e sa anche ricevere dall’altro. Se per qualche ragione inevitabile manca uno dei due, è importante cercare qualche maniera per compensarlo, per favorire l’adeguata maturazione del figlio.

173. Il sentimento di essere orfani che sperimentano oggi molti bambini e giovani è più profondo di quanto pensiamo. Oggi riconosciamo come pienamente legittimo, e anche auspicabile, che le donne vogliano studiare, lavorare, sviluppare le proprie capacità e avere obiettivi personali. Ma nello stesso tempo non possiamo ignorare la necessità che hanno i bambini della presenza materna, specialmente nei primi mesi di vita. La realtà è che «la donna sta davanti all’uomo come madre, soggetto della nuova vita umana che in essa è concepita e si sviluppa, e da essa nasce al mondo».[190] Il diminuire della presenza materna con le sue qualità femminili costituisce un rischio grave per la nostra terra. Apprezzo il femminismo quando non pretende l’uniformità né la negazione della maternità. Perché la grandezza della donna implica tutti i diritti che derivano dalla sua inalienabile dignità umana, ma anche dal suo genio femminile, indispensabile per la società. Le sue capacità specificamente femminili – in particolare la maternità – le conferiscono anche dei doveri, perché il suo essere donna comporta anche una missione peculiare su questa terra, che la società deve proteggere e preservare per il bene di tutti.[191]

174. Di fatto, «le madri sono l’antidoto più forte al dilagare dell’individualismo egoistico. […] Sono esse a testimoniare la bellezza della vita».[192] Senza dubbio, «una società senza madri sarebbe una società disumana, perché le madri sanno testimoniare sempre, anche nei momenti peggiori, la tenerezza, la dedizione, la forza morale. Le madri trasmettono spesso anche il senso più profondo della pratica religiosa: nelle prime preghiere, nei primi gesti di devozione che un bambino impara […]. Senza le madri, non solo non ci sarebbero nuovi fedeli, ma la fede perderebbe buona parte del suo calore semplice e profondo. […] Carissime mamme, grazie, grazie per ciò che siete nella famiglia e per ciò che date alla Chiesa e al mondo».[193]

175. La madre, che protegge il bambino con la sua tenerezza e la sua compassione, lo aiuta a far emergere la fiducia, a sperimentare che il mondo è un luogo buono che lo accoglie, e questo permette di sviluppare un’autostima che favorisce la capacità di intimità e l’empatia. La figura paterna, d’altra parte, aiuta a percepire i limiti della realtà e si caratterizza maggiormente per l’orientamento, per l’uscita verso il mondo più ampio e ricco di sfide, per l’invito allo sforzo e alla lotta. Un padre con una chiara e felice identità maschile, che a sua volta unisca nel suo tratto verso la moglie l’affetto e l’accoglienza, è tanto necessario quanto le cure materne. Vi sono ruoli e compiti flessibili, che si adattano alle circostanze concrete di ogni famiglia, ma la presenza chiara e ben definita delle due figure, femminile e maschile, crea l’ambiente più adatto alla maturazione del bambino.

176. Si dice che la nostra società è una “società senza padri”. Nella cultura occidentale, la figura del padre sarebbe simbolicamente assente, distorta, sbiadita. Persino la virilità sembrerebbe messa in discussione. Si è verificata una comprensibile confusione, perché «in un primo momento, la cosa è stata percepita come una liberazione: liberazione dal padre-padrone, dal padre come rappresentante della legge che si impone dall’esterno, dal padre come censore della felicità dei figli e ostacolo all’emancipazione e all’autonomia dei giovani. Talvolta in alcune case regnava in passato l’autoritarismo, in certi casi addirittura la sopraffazione».[194]Tuttavia, «come spesso avviene, si passa da un estremo all’altro. Il problema dei nostri giorni non sembra essere più tanto la presenza invadente dei padri, quanto piuttosto la loro assenza, la loro latitanza. I padri sono talora così concentrati su sé stessi e sul proprio lavoro e alle volte sulle proprie realizzazioni individuali, da dimenticare anche la famiglia. E lasciano soli i piccoli e i giovani».[195]La presenza paterna, e pertanto la sua autorità, risulta intaccata anche dal tempo sempre maggiore che si dedica ai mezzi di comunicazione e alla tecnologia dello svago. Inoltre oggi l’autorità è vista con sospetto e gli adulti sono duramente messi in discussione. Loro stessi abbandonano le certezze e perciò non offrono ai figli orientamenti sicuri e ben fondati. Non è sano che si scambino i ruoli tra genitori e figli: ciò danneggia l’adeguato processo di maturazione che i bambini hanno bisogno di compiere e nega loro un amore capace di orientarli e che li aiuti a maturare.[196]

177. Dio pone il padre nella famiglia perché, con le preziose caratteristiche della sua mascolinità, «sia vicino alla moglie, per condividere tutto, gioie e dolori, fatiche e speranze. E [perché] sia vicino ai figli nella loro crescita: quando giocano e quando si impegnano, quando sono spensierati e quando sono angosciati, quando si esprimono e quando sono taciturni, quando osano e quando hanno paura, quando fanno un passo sbagliato e quando ritrovano la strada; padre presente, sempre. Dire presente non è lo stesso che dire controllore. Perché i padri troppo controllori annullano i figli».[197] Alcuni padri si sentono inutili o non necessari, ma la verità è che «i figli hanno bisogno di trovare un padre che li aspetta quando ritornano dai loro fallimenti. Faranno di tutto per non ammetterlo, per non darlo a vedere, ma ne hanno bisogno».[198] Non è bene che i bambini rimangano senza padri e così smettano di essere bambini prima del tempo.

Fecondità allargata

178. Molte coppie di sposi non possono avere figli. Sappiamo quanta sofferenza questo comporti. D’altra parte, sappiamo pure che «il matrimonio non è stato istituito soltanto per la procreazione […]. E perciò anche se la prole, molto spesso tanto vivamente desiderata, non c’è, il matrimonio perdura come comunità e comunione di tutta la vita e conserva il suo valore e la sua indissolubilità».[199] Inoltre «la maternità non è una realtà esclusivamente biologica, ma si esprime in diversi modi».[200]

179. L’adozione è una via per realizzare la maternità e la paternità in un modo molto generoso, e desidero incoraggiare quanti non possono avere figli ad allargare e aprire il loro amore coniugale per accogliere coloro che sono privi di un adeguato contesto familiare. Non si pentiranno mai di essere stati generosi. Adottare è l’atto d’amore di donare una famiglia a chi non l’ha. È importante insistere affinché la legislazione possa facilitare le procedure per l’adozione, soprattutto nei casi di figli non desiderati, al fine di prevenire l’aborto o l’abbandono. Coloro che affrontano la sfida di adottare e accolgono una persona in modo incondizionato e gratuito, diventano mediazione dell’amore di Dio che afferma: “Anche se tua madre ti dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai” (cfr Is 49,15).

180. «La scelta dell’adozione e dell’affido esprime una particolare fecondità dell’esperienza coniugale, al di là dei casi in cui è dolorosamente segnata dalla sterilità. […] A fronte di quelle situazioni in cui il figlio è preteso a qualsiasi costo, come diritto del proprio completamento, l’adozione e l’affido rettamente intesi mostrano un aspetto importante della genitorialità e della figliolanza, in quanto aiutano a riconoscere che i figli, sia naturali sia adottivi o affidati, sono altro da sé ed occorre accoglierli, amarli, prendersene cura e non solo metterli al mondo. L’interesse prevalente del bambino dovrebbe sempre ispirare le decisioni sull’adozione e l’affido».[201] D’altra parte «il traffico di bambini fra Paesi e Continenti va impedito con opportuni interventi legislativi e controlli degli Stati».[202]

181. E’ opportuno anche ricordare che la procreazione e l’adozione non sono gli unici modi di vivere la fecondità dell’amore. Anche la famiglia con molti figli è chiamata a lasciare la sua impronta nella società dove è inserita, per sviluppare altre forme di fecondità che sono come il prolungamento dell’amore che la sostiene. Le famiglie cristiane non dimentichino che «la fede non ci toglie dal mondo, ma ci inserisce più profondamente in esso. […] Ognuno di noi, infatti, svolge un ruolo speciale nella preparazione della venuta del Regno di Dio».[203] La famiglia non deve pensare sé stessa come un recinto chiamato a proteggersi dalla società. Non rimane ad aspettare, ma esce da sé nella ricerca solidale. In tal modo diventa un luogo d’integrazione della persona con la società e un punto di unione tra il pubblico e il privato. I coniugi hanno bisogno di acquisire una chiara e convinta consapevolezza riguardo ai loro doveri sociali. Quando questo accade, l’affetto che li unisce non viene meno, ma si riempie di nuova luce, come esprimono i seguenti versi:

«Le tue mani sono la mia carezza
i miei accordi quotidiani
ti amo perché le tue mani
si adoperano per la giustizia.

Se ti amo è perché sei
il mio amore la mia complice e tutto
e per la strada fianco a fianco
siamo molto più di due».[204]

182. Nessuna famiglia può essere feconda se si concepisce come troppo differente o “separata”. Per evitare questo rischio, ricordiamo che la famiglia di Gesù, piena di grazia e di saggezza, non era vista come una famiglia “strana”, come una casa estranea e distante dal popolo. Proprio per tale ragione la gente faceva fatica a riconoscere la sapienza di Gesù e diceva: «Da dove gli vengono queste cose? […] Non è costui il falegname, il figlio di Maria?» (Mc 6,2-3). «Non è costui il figlio del falegname?» (Mt13,55). Questo conferma che era una famiglia semplice, vicina a tutti, inserita in maniera normale nel popolo. Neppure Gesù crebbe in una relazione chiusa ed esclusiva con Maria e Giuseppe, ma si muoveva con piacere nella famiglia allargata in cui c’erano parenti e amici. Questo spiega che, quando tornavano da Gerusalemme, i suoi genitori accettassero che il bambino di dodici anni si perdesse nella carovana per un giorno intero, ascoltando i racconti e condividendo le preoccupazioni di tutti: «Credendo che egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di viaggio» (Lc 2,44). Invece a volte succede che certe famiglie cristiane, per il linguaggio che usano, per il modo di dire le cose, per lo stile del loro tratto, per la ripetizione continua di due o tre temi, sono viste come lontane, come separate dalla società, persino i loro stessi parenti si sentono disprezzati o giudicati da esse.

183. Una coppia di sposi che sperimenta la forza dell’amore, sa che tale amore è chiamato a sanare le ferite degli abbandonati, a instaurare la cultura dell’incontro, a lottare per la giustizia. Dio ha affidato alla famiglia il progetto di rendere “domestico” il mondo,[205] affinché tutti giungano a sentire ogni essere umano come un fratello: «Uno sguardo attento alla vita quotidiana degli uomini e delle donne di oggi mostra immediatamente il bisogno che c’è ovunque di una robusta iniezione di spirito famigliare. […] Non solo l’organizzazione della vita comune si incaglia sempre più in una burocrazia del tutto estranea ai legami umani fondamentali, ma, addirittura, il costume sociale e politico mostra spesso segni di degrado».[206] Invece le famiglie aperte e solidali fanno spazio ai poveri, sono capaci di tessere un’amicizia con quelli che stanno peggio di loro. Se realmente hanno a cuore il Vangelo, non possono dimenticare quello che dice Gesù: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt25,40). In definitiva, vivono quello che ci viene chiesto in modo tanto eloquente in questo testo: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato» (Lc 14,12-14). Sarai beato! Ecco qui il segreto di una famiglia felice.

184. Con la testimonianza, e anche con la parola, le famiglie parlano di Gesù agli altri, trasmettono la fede, risvegliano il desiderio di Dio, e mostrano la bellezza del Vangelo e dello stile di vita che ci propone. Così i coniugi cristiani dipingono il grigio dello spazio pubblico riempiendolo con i colori della fraternità, della sensibilità sociale, della difesa delle persone fragili, della fede luminosa, della speranza attiva. La loro fecondità si allarga e si traduce in mille modi di rendere presente l’amore di Dio nella società.

Discernere il corpo

185. In questa linea è opportuno prendere molto sul serio un testo biblico che si è soliti interpretare fuori del suo contesto, o in una maniera molto generale, per cui si può disattendere il suo significato più immediato e diretto, che è marcatamente sociale. Si tratta di 1 Cor 11,17-34, dove san Paolo affronta una situazione vergognosa della comunità. In quel contesto alcune persone abbienti tendevano a discriminare quelle povere, e questo si verificava persino nell’incontro conviviale che accompagnava la celebrazione dell’Eucaristia. Mentre i ricchi godevano dei loro cibi prelibati, i poveri facevano da spettatori ed erano affamati: «così uno ha fame, l’altro è ubriaco. Non avete forse le vostre case per mangiare e per bere? O volete gettare il disprezzo sulla Chiesa di Dio e umiliare chi non ha niente?» (vv. 21-22).

186. L’Eucaristia esige l’integrazione nell’unico corpo ecclesiale. Chi si accosta al Corpo e al Sangue di Cristo non può nello stesso tempo offendere quel medesimo Corpo operando scandalose divisioni e discriminazioni tra le sue membra. Si tratta infatti di “discernere” il Corpo del Signore, di riconoscerlo con fede e carità sia nei segni sacramentali sia nella comunità, altrimenti si mangia e si beve la propria condanna (cfr v. 29). Questo testo biblico è un serio avvertimento per le famiglie che si richiudono nella loro propria comodità e si isolano, ma più specificamente per le famiglie che restano indifferenti davanti alle sofferenze delle famiglie povere e più bisognose. La celebrazione eucaristica diventa così un costante appello rivolto a ciascuno perché «esamini se stesso» (v. 28) al fine di aprire le porte della propria famiglia ad una maggior comunione con coloro che sono scartati dalla società e dunque ricevere davvero il Sacramento dell’amore eucaristico che fa di noi un solo corpo. Non bisogna dimenticare che «la “mistica” del Sacramento ha un carattere sociale».[207] Quando coloro che si comunicano non accettano di lasciarsi spingere verso un impegno con i poveri e i sofferenti o acconsentono a diverse forme di divisione, di disprezzo e di ingiustizia, l’Eucaristia è ricevuta indegnamente. Invece, le famiglie che si nutrono dell’Eucaristia con la giusta disposizione, rafforzano il loro desiderio di fraternità, il loro senso sociale e il loro impegno con i bisognosi.

La vita nella famiglia in senso ampio

187. Il piccolo nucleo familiare non dovrebbe isolarsi dalla famiglia allargata, dove ci sono i genitori, gli zii, i cugini ed anche i vicini. In tale famiglia larga ci possono essere alcuni che hanno bisogno di aiuto o almeno di compagnia e di gesti di affetto, o possono esserci grandi sofferenze che hanno bisogno di un conforto.[208] L’individualismo di questi tempi a volte conduce a rinchiudersi nella sicurezza di un piccolo nido e a percepire gli altri come un pericolo molesto. Tuttavia, tale isolamento non offre più pace e felicità, ma chiude il cuore della famiglia e la priva dell’orizzonte ampio dell’esistenza.

Essere figli

188. In primo luogo parliamo dei propri genitori. Gesù ricordava ai farisei che l’abbandono dei genitori è contrario alla Legge di Dio (cfr Mc 7,8-13). A nessuno fa bene perdere la coscienza di essere figlio. In ogni persona, «anche se uno diventa adulto, o anziano, anche se diventa genitore, se occupa un posto di responsabilità, al di sotto di tutto questo rimane l’identità di figlio. Tutti siamo figli. E questo ci riporta sempre al fatto che la vita non ce la siamo data noi ma l’abbiamo ricevuta. Il grande dono della vita è il primo regalo che abbiamo ricevuto».[209]

189. Per questo «il quarto comandamento chiede ai figli […] di onorare il padre e la madre (cfr Es 20,12). Questo comandamento viene subito dopo quelli che riguardano Dio stesso. Infatti contiene qualcosa di sacro, qualcosa di divino, qualcosa che sta alla radice di ogni altro genere di rispetto fra gli uomini. E nella formulazione biblica del quarto comandamento si aggiunge: “perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che il Signore tuo Dio ti dà”. Il legame virtuoso tra le generazioni è garanzia di futuro, ed è garanzia di una storia davvero umana. Una società di figli che non onorano i genitori è una società senza onore […]. È una società destinata a riempirsi di giovani aridi e avidi».[210]

190. Ma c’è anche l’altra faccia della medaglia: «L’uomo lascerà suo padre e sua madre» (Gen 2,24), afferma la Parola di Dio. Questo a volte non si realizza, e il matrimonio non viene assunto fino in fondo perché non si è compiuta tale rinuncia e tale dedizione. I genitori non devono essere abbandonati né trascurati, tuttavia, per unirsi in matrimonio occorre lasciarli, in modo che la nuova casa sia la dimora, la protezione, la piattaforma e il progetto, e sia possibile diventare realmente «una sola carne» (ibid.). In alcuni matrimoni capita che si nascondano molte cose al proprio coniuge, che invece si dicono ai propri genitori, al punto che contano di più le opinioni dei genitori che i sentimenti e le opinioni del coniuge. Non è facile sostenere questa situazione per molto tempo, ed essa è possibile solo provvisoriamente, mentre si creano le condizioni per crescere nella fiducia e nel dialogo. Il matrimonio sfida a trovare un nuovo modo di essere figli.

Gli anziani

191. «Non gettarmi via nel tempo della vecchiaia, non abbandonarmi quando declinano le mie forze» (Sal 71,9). È il grido dell’anziano, che teme l’oblio e il disprezzo. Così come Dio ci invita ad essere suoi strumenti per ascoltare la supplica dei poveri, Egli attende anche da noi che ascoltiamo il grido degli anziani.[211] Questo interpella le famiglie e le comunità, perché «la Chiesa non può e non vuole conformarsi ad una mentalità di insofferenza, e tanto meno di indifferenza e di disprezzo, nei confronti della vecchiaia. Dobbiamo risvegliare il senso collettivo di gratitudine, di apprezzamento, di ospitalità, che facciano sentire l’anziano parte viva della sua comunità. Gli anziani sono uomini e donne, padri e madri che sono stati prima di noi sulla nostra stessa strada, nella nostra stessa casa, nella nostra quotidiana battaglia per una vita degna».[212] Perciò, «come vorrei una Chiesa che sfida la cultura dello scarto con la gioia traboccante di un nuovo abbraccio tra i giovani e gli anziani!».[213]

192. San Giovanni Paolo II ci ha invitato a prestare attenzione al posto dell’anziano nella famiglia, perché vi sono culture che «in seguito ad un disordinato sviluppo industriale ed urbanistico, hanno condotto e continuano a condurre gli anziani a forme inaccettabili di emarginazione».[214] Gli anziani aiutano a percepire «la continuità delle generazioni», con «il carisma di ricucire gli strappi».[215] Molte volte sono i nonni che assicurano la trasmissione dei grandi valori ai loro nipoti e «molte persone possono constatare che proprio ai nonni debbono la loro iniziazione alla vita cristiana».[216] Le loro parole, le loro carezze o la loro sola presenza aiutano i bambini a riconoscere che la storia non inizia con loro, che sono eredi di un lungo cammino e che bisogna rispettare il retroterra che ci precede. Coloro che rompono i legami con la storia avranno difficoltà a tessere relazioni stabili e a riconoscere che non sono i padroni della realtà. Dunque, «l’attenzione agli anziani fa la differenza di una civiltà. In una civiltà c’è attenzione all’anziano? C’è posto per l’anziano? Questa civiltà andrà avanti se saprà rispettare la saggezza, la sapienza degli anziani».[217]

193. La mancanza di memoria storica è un grave difetto della nostra società. E’ la mentalità immatura dell’“ormai è passato”. Conoscere e poter prendere posizione di fronte agli avvenimenti passati è l’unica possibilità di costruire un futuro che abbia senso. Non si può educare senza memoria: «Richiamate alla memoria quei primi giorni» (Eb 10,32). I racconti degli anziani fanno molto bene ai bambini e ai giovani, poiché li mettono in collegamento con la storia vissuta sia della famiglia sia del quartiere e del Paese. Una famiglia che non rispetta e non ha cura dei suoi nonni, che sono la sua memoria viva, è una famiglia disintegrata; invece una famiglia che ricorda è una famiglia che ha futuro. Pertanto, «in una civiltà in cui non c’è posto per gli anziani o sono scartati perché creano problemi, questa società porta con sé il virus della morte»,[218] dal momento che «si strappa dalle proprie radici».[219] Il fenomeno contemporaneo del sentirsi orfani, in termini di discontinuità, sradicamento e caduta delle certezze che danno forma alla vita, ci sfida a fare delle nostre famiglie un luogo in cui i bambini possano radicarsi nel terreno di una storia collettiva.

Essere fratelli

194. La relazione tra i fratelli si approfondisce con il passare del tempo, e «il legame di fraternità che si forma in famiglia tra i figli, se avviene in un clima di educazione all’apertura agli altri, è la grande scuola di libertà e di pace. In famiglia, tra fratelli si impara la convivenza umana […]. Forse non sempre ne siamo consapevoli, ma è proprio la famiglia che introduce la fraternità nel mondo! A partire da questa prima esperienza di fraternità, nutrita dagli affetti e dall’educazione familiare, lo stile della fraternità si irradia come una promessa sull’intera società».[220]

195. Crescere tra fratelli offre la bella esperienza di una cura reciproca, di aiutare e di essere aiutati. Perciò «la fraternità in famiglia risplende in modo speciale quando vediamo la premura, la pazienza, l’affetto di cui vengono circondati il fratellino o la sorellina più deboli, malati, o portatori di handicap».[221] Bisogna riconoscere che «avere un fratello, una sorella che ti vuole bene è un’esperienza forte, impagabile, insostituibile»,[222] però occorre insegnare con pazienza ai figli a trattarsi da fratelli. Tale tirocinio, a volte faticoso, è una vera scuola di socialità. In alcuni Paesi esiste una forte tendenza ad avere un solo figlio, per cui l’esperienza di essere fratello comincia ad essere poco comune. Nel caso in cui non sia stato possibile avere più di un figlio, si dovrà trovare il modo di far sì che il bambino non cresca solo o isolato.

Un cuore grande

196. Oltre il piccolo cerchio formato dai coniugi e dai loro figli, vi è la famiglia allargata che non può essere ignorata. Infatti «l’amore tra l’uomo e la donna nel matrimonio e, in forma derivata ed allargata, l’amore tra i membri della stessa famiglia – tra genitori e figli, tra fratelli e sorelle, tra parenti e familiari – è animato e sospinto da un interiore e incessante dinamismo, che conduce la famiglia ad una comunione sempre più profonda ed intensa, fondamento e anima della comunità coniugale e familiare».[223] In tale ambito si inseriscono anche gli amici e le famiglie amiche, ed anche le comunità di famiglie che si sostengono a vicenda nelle difficoltà, nell’impegno sociale e nella fede.

197. Questa famiglia allargata dovrebbe accogliere con tanto amore le ragazze madri, i bambini senza genitori, le donne sole che devono portare avanti l’educazione dei loro figli, le persone con disabilità che richiedono molto affetto e vicinanza, i giovani che lottano contro una dipendenza, le persone non sposate, quelle separate o vedove che soffrono la solitudine, gli anziani e i malati che non ricevono l’appoggio dei loro figli, fino ad includere nel loro seno «persino i più disastrati nelle condotte della loro vita».[224] Può anche aiutare a compensare le fragilità dei genitori, o a scoprire e denunciare in tempo possibili situazioni di violenza o anche di abuso subite dai bambini, dando loro un amore sano e un sostegno familiare quando i loro genitori non possono assicurarlo.

198. Infine non si può dimenticare che in questa famiglia allargata vi sono anche il suocero, la suocera e tutti i parenti del coniuge. Una delicatezza propria dell’amore consiste nell’evitare di vederli come dei concorrenti, come persone pericolose, come invasori. L’unione coniugale chiede di rispettare le loro tradizioni e i loro costumi, cercare di comprendere il loro linguaggio, limitare le critiche, avere cura di loro e integrarli in qualche modo nel proprio cuore, anche quando si dovrebbe preservare la legittima autonomia e l’intimità della coppia. Questi atteggiamenti sono anche un modo squisito di esprimere la generosità della dedizione amorosa al proprio coniuge.

 

CAPITOLO SESTO

ALCUNE PROSPETTIVE PASTORALI

199. I dialoghi del cammino sinodale hanno condotto a prospettare la necessità di sviluppare nuove vie pastorali, che cercherò ora di riassumere in modo generale. Saranno le diverse comunità a dover elaborare proposte più pratiche ed efficaci, che tengano conto sia degli insegnamenti della Chiesa sia dei bisogni e delle sfide locali. Senza pretendere di presentare qui una pastorale della famiglia, intendo limitarmi solo a raccogliere alcune delle principali sfide pastorali.

Annunciare il Vangelo della famiglia oggi

200. I Padri sinodali hanno insistito sul fatto che le famiglie cristiane, per la grazia del sacramento nuziale, sono i principali soggetti della pastorale familiare, soprattutto offrendo «la testimonianza gioiosa dei coniugi e delle famiglie, chiese domestiche».[225] Per questo hanno sottolineato che «si tratta di far sperimentare che il Vangelo della famiglia è gioia che “riempie il cuore e la vita intera”, perché in Cristo siamo “liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento” (Evangelii gaudium, 1). Alla luce della parabola del seminatore (cfr Mt 13,3-9), il nostro compito è di cooperare nella semina: il resto è opera di Dio. Non bisogna nemmeno dimenticare che la Chiesa che predica sulla famiglia è segno di contraddizione»,[226] ma gli sposi apprezzano che i Pastori offrano loro motivazioni per una coraggiosa scommessa su un amore forte, solido, duraturo, capace di far fronte a tutto ciò che si presenti sulla loro strada. La Chiesa vuole raggiungere le famiglie con umile comprensione, e il suo desiderio «è di accompagnare ciascuna e tutte le famiglie perché scoprano la via migliore per superare le difficoltà che incontrano sul loro cammino».[227] Non basta inserire una generica preoccupazione per la famiglia nei grandi progetti pastorali. Affinché le famiglie possano essere sempre più soggetti attivi della pastorale familiare, si richiede «uno sforzo evangelizzatore e catechetico indirizzato all’interno della famiglia»,[228] che la orienti in questa direzione.

201. «Per questo si richiede a tutta la Chiesa una conversione missionaria: è necessario non fermarsi ad un annuncio meramente teorico e sganciato dai problemi reali delle persone».[229] La pastorale familiare «deve far sperimentare che il Vangelo della famiglia è risposta alle attese più profonde della persona umana: alla sua dignità e alla realizzazione piena nella reciprocità, nella comunione e nella fecondità. Non si tratta soltanto di presentare una normativa, ma di proporre valori, rispondendo al bisogno di essi che si constata oggi, anche nei paesi più secolarizzati».[230] Inoltre «si è parimenti sottolineata la necessità di una evangelizzazione che denunzi con franchezza i condizionamenti culturali, sociali, politici ed economici, come l’eccessivo spazio dato alla logica del mercato, che impediscono un’autentica vita familiare, determinando discriminazioni, povertà, esclusioni e violenza. Per questo va sviluppato un dialogo e una cooperazione con le strutture sociali, e vanno incoraggiati e sostenuti i laici che si impegnano, come cristiani, in ambito culturale e sociopolitico».[231]

202. «Il principale contributo alla pastorale familiare viene offerto dalla parrocchia, che è una famiglia di famiglie, dove si armonizzano i contributi delle piccole comunità, dei movimenti e delle associazioni ecclesiali».[232] Insieme con una pastorale specificamente orientata alle famiglie, ci si prospetta la necessità di «una formazione più adeguata per i presbiteri, i diaconi, i religiosi e le religiose, per i catechisti e per gli altri agenti di pastorale».[233] Nelle risposte alle consultazioni inviate a tutto il mondo, si è rilevato che ai ministri ordinati manca spesso una formazione adeguata per trattare i complessi problemi attuali delle famiglie. Può essere utile in tal senso anche l’esperienza della lunga tradizione orientale dei sacerdoti sposati.

203. I seminaristi dovrebbero accedere ad una formazione interdisciplinare più ampia sul fidanzamento e il matrimonio, e non solamente alla dottrina. Inoltre, la formazione non sempre permette loro di esprimere il proprio mondo psicoaffettivo. Alcuni portano nella loro vita l’esperienza della propria famiglia ferita, con assenza di genitori e con instabilità emotiva. Occorrerà garantire durante la formazione una maturazione affinché i futuri ministri possiedano l’equilibrio psichico che il loro compito esige. I vincoli familiari sono fondamentali per fortificare la sana autostima dei seminaristi. Perciò è importante che le famiglie accompagnino tutto il processo del seminario e del sacerdozio, poiché aiutano a fortificarlo in modo realistico. In tal senso è salutare la combinazione di tempi di vita in seminario con altri di vita in parrocchia, che permettano di prendere maggior contatto con la realtà concreta delle famiglie. Infatti, lungo tutta la sua vita pastorale il sacerdote si incontra soprattutto con famiglie. «La presenza dei laici e delle famiglie, in particolare la presenza femminile, nella formazione sacerdotale, favorisce l’apprezzamento per la varietà e la complementarietà delle diverse vocazioni nella Chiesa».[234]

204. Le risposte alle consultazioni esprimono anche con insistenza la necessità della formazione di operatori laici di pastorale familiare con l’aiuto di psicopedagogisti, medici di famiglia, medici di comunità, assistenti sociali, avvocati per i minori e le famiglie, con l’apertura a ricevere gli apporti della psicologia, della sociologia, della sessuologia e anche del counseling. I professionisti, specialmente coloro che hanno esperienza di accompagnamento, aiutano a incarnare le proposte pastorali nelle situazioni reali e nelle preoccupazioni concrete delle famiglie. «Itinerari e corsi di formazione destinati specificamente agli operatori pastorali potranno renderli idonei ad inserire lo stesso cammino di preparazione al matrimonio nella più ampia dinamica della vita ecclesiale».[235] Una buona preparazione pastorale è importante «anche in vista delle particolari situazioni di emergenza determinate dai casi di violenza domestica e di abuso sessuale».[236] Tutto ciò in nessun modo sminuisce, bensì integra il valore fondamentale della direzione spirituale, delle inestimabili risorse spirituali della Chiesa e della Riconciliazione sacramentale.

Guidare i fidanzati nel cammino di preparazione al matrimonio

205. I Padri sinodali hanno affermato in diversi modi che bisogna aiutare i giovani a scoprire il valore e la ricchezza del matrimonio.[237] Devono poter cogliere l’attrattiva di un’unione piena che eleva e perfeziona la dimensione sociale dell’esistenza, conferisce alla sessualità il suo senso più grande, e al tempo stesso promuove il bene dei figli e offre loro il miglior contesto per la loro maturazione ed educazione.

206. «La complessa realtà sociale e le sfide che la famiglia oggi è chiamata ad affrontare richiedono un impegno maggiore di tutta la comunità cristiana per la preparazione dei nubendi al matrimonio. È necessario ricordare l’importanza delle virtù. Tra esse la castità risulta condizione preziosa per la crescita genuina dell’amore interpersonale. Riguardo a questa necessità i Padri sinodali sono stati concordi nel sottolineare l’esigenza di un maggiore coinvolgimento dell’intera comunità privilegiando la testimonianza delle stesse famiglie, oltre che di un radicamento della preparazione al matrimonio nel cammino di iniziazione cristiana, sottolineando il nesso del matrimonio con il battesimo e gli altri sacramenti. Si è parimenti evidenziata la necessità di programmi specifici per la preparazione prossima al matrimonio che siano vera esperienza di partecipazione alla vita ecclesiale e approfondiscano i diversi aspetti della vita familiare».[238]

207. Invito le comunità cristiane a riconoscere che accompagnare il cammino di amore dei fidanzati è un bene per loro stesse. Come hanno detto bene i Vescovi d’Italia, coloro che si sposano sono per la comunità cristiana «una preziosa risorsa perché, impegnandosi con sincerità a crescere nell’amore e nel dono vicendevole, possono contribuire a rinnovare il tessuto stesso di tutto il corpo ecclesiale: la particolare forma di amicizia che essi vivono può diventare contagiosa, e far crescere nell’amicizia e nella fraternità la comunità cristiana di cui sono parte».[239] Ci sono diversi modi legittimi di organizzare la preparazione prossima al matrimonio, e ogni Chiesa locale discernerà quale sia migliore, provvedendo ad una formazione adeguata che nello stesso tempo non allontani i giovani dal sacramento. Non si tratta di dare loro tutto il Catechismo, né di saturarli con troppi argomenti. Anche in questo caso, infatti, vale che «non il molto sapere sazia e soddisfa l’anima, ma il sentire e il gustare interiormente le cose».[240] Interessa più la qualità che la quantità, e bisogna dare priorità – insieme ad un rinnovato annuncio del kerygma – a quei contenuti che, trasmessi in modo attraente e cordiale, li aiutino a impegnarsi in un percorso di tutta la vita «con animo grande e liberalità».[241]Si tratta di una sorta di “iniziazione” al sacramento del matrimonio che fornisca loro gli elementi necessari per poterlo ricevere con le migliori disposizioni e iniziare con una certa solidità la vita familiare.

208. E’ inoltre opportuno trovare i modi, attraverso le famiglie missionarie, le famiglie stesse dei fidanzati e varie risorse pastorali, per offrire una preparazione remota che faccia maturare il loro amore con un accompagnamento ricco di vicinanza e testimonianza. Sono spesso molto utili i gruppi di fidanzati e le proposte di conferenze facoltative su una varietà di temi che interessano realmente ai giovani. Comunque, sono indispensabili alcuni momenti personalizzati, dato che l’obiettivo principale è aiutare ciascuno perché impari ad amare questa persona concreta, con la quale desidera condividere tutta la vita. Imparare ad amare qualcuno non è qualcosa che si improvvisa, né può essere l’obiettivo di un breve corso previo alla celebrazione del matrimonio. In realtà, ogni persona si prepara per il matrimonio fin dalla nascita. Tutto quanto la sua famiglia gli ha dato dovrebbe permettergli di imparare dalla propria storia e renderlo capace di un impegno pieno e definitivo. Probabilmente quelli che arrivano meglio preparati a sposarsi sono coloro che hanno imparato dai propri genitori che cos’è un matrimonio cristiano, in cui entrambi si sono scelti senza condizioni e continuano a rinnovare quella decisione. In questo senso, tutte le azioni pastorali tendenti ad aiutare i coniugi a crescere nell’amore e a vivere il Vangelo nella famiglia, sono un aiuto inestimabile perché i loro figli si preparino per la loro futura vita matrimoniale. Non bisogna nemmeno dimenticare i validi contributi della pastorale popolare. Per fare un semplice esempio, ricordo il giorno di San Valentino, che in alcuni Paesi è sfruttato meglio dai commercianti che non dalla creatività dei pastori.

209. La preparazione di quanti hanno già formalizzato un fidanzamento, quando la comunità parrocchiale riesce a seguirli con buon anticipo, deve anche dare loro la possibilità di riconoscere incompatibilità e rischi. In questo modo si può arrivare ad accorgersi che non è ragionevole puntare su quella relazione, per non esporsi ad un fallimento prevedibile che avrà conseguenze molto dolorose. Il problema è che l’abbaglio iniziale porta a cercare di nascondere o di relativizzare molte cose, si evitano le divergenze, e così solamente si scacciano in avanti le difficoltà. I fidanzati dovrebbero essere stimolati e aiutati a poter esprimere ciò che ognuno si aspetta da un eventuale matrimonio, il proprio modo di intendere quello che è l’amore e l’impegno, ciò che si desidera dall’altro, il tipo di vita in comune che si vorrebbe progettare. Queste conversazioni possono aiutare a vedere che in realtà i punti di contatto sono scarsi, e che la sola attrazione reciproca non sarà sufficiente a sostenere l’unione. Nulla è più volubile, precario e imprevedibile del desiderio, e non si deve mai incoraggiare una decisione di contrarre matrimonio se non si sono approfondite altre motivazioni che conferiscano a quel patto possibilità reali di stabilità.

210. In ogni caso, se si riconoscono con chiarezza i punti deboli dell’altro, occorre avere una fiducia realistica nella possibilità di aiutarlo a sviluppare il meglio della sua persona per controbilanciare il peso delle sue fragilità, con un deciso interesse a promuoverlo come essere umano. Questo implica accettare con ferma volontà la possibilità di affrontare alcune rinunce, momenti difficili e situazioni conflittuali, e la salda decisione di prepararsi a questo. Si devono poter individuare i segnali di pericolo che potrà avere la relazione, per trovare prima di sposarsi i mezzi che permettano di affrontarli con successo. Purtroppo molti arrivano alle nozze senza conoscersi. Si sono solo divertiti insieme, hanno fatto esperienze insieme, ma non hanno affrontato la sfida di mostrare sé stessi e di imparare chi è realmente l’altro.

211. Tanto la preparazione prossima quanto l’accompagnamento più prolungato devono fare in modo che i fidanzati non vedano lo sposarsi come il termine del cammino, ma che assumano il matrimonio come una vocazione che li lancia in avanti, con la ferma e realistica decisione di attraversare insieme tutte le prove e i momenti difficili. La pastorale prematrimoniale e la pastorale matrimoniale devono essere prima di tutto una pastorale del vincolo, dove si apportino elementi che aiutino sia a maturare l’amore sia a superare i momenti duri. Questi apporti non sono unicamente convinzioni dottrinali, e nemmeno possono ridursi alle preziose risorse spirituali che sempre offre la Chiesa, ma devono essere anche percorsi pratici, consigli ben incarnati, strategie prese dall’esperienza, orientamenti psicologici. Tutto ciò configura una pedagogia dell’amore che non può ignorare la sensibilità attuale dei giovani, per poterli mobilitare interiormente. Al tempo stesso, nella preparazione dei fidanzati, si deve poter indicare loro luoghi e persone, consultori o famiglie disponibili, a cui potranno rivolgersi per cercare aiuto quando si presentassero delle difficoltà. Ma non bisogna mai dimenticare di proporre loro la Riconciliazione sacramentale, che permette di porre i peccati e gli errori della vita passata, e della stessa relazione, sotto l’influsso del perdono misericordioso di Dio e della sua forza risanatrice.

La preparazione della celebrazione

212. La preparazione prossima al matrimonio tende a concentrarsi sugli inviti, i vestiti, la festa e gli innumerevoli dettagli che consumano tanto le risorse economiche quanto le energie e la gioia. I fidanzati arrivano sfiancati e sfiniti al matrimonio, invece di dedicare le migliori energie a prepararsi come coppia per il gran passo che faranno insieme. Questa mentalità si riscontra anche in alcune unioni di fatto, che non arrivano mai al matrimonio perché pensano a festeggiamenti troppo costosi, invece di dare priorità all’amore reciproco e alla sua formalizzazione davanti agli altri. Cari fidanzati, abbiate il coraggio di essere differenti, non lasciatevi divorare dalla società del consumo e dell’apparenza. Quello che importa è l’amore che vi unisce, fortificato e santificato dalla grazia. Voi siete capaci di scegliere un festeggiamento sobrio e semplice, per mettere l’amore al di sopra di tutto. Gli operatori pastorali e tutta la comunità possono aiutare a far sì che questa priorità diventi la normalità e non l’eccezione.

213. Nella preparazione più immediata è importante illuminare gli sposi perché vivano con grande profondità la celebrazione liturgica, aiutandoli a comprendere e a vivere il senso di ciascun gesto. Ricordiamo che un impegno così grande come quello che esprime il consenso matrimoniale, e l’unione dei corpi che consuma il matrimonio, quando si tratta di due battezzati, si possono interpretare solo come segni dell’amore del Figlio di Dio fatto carne e unito con la sua Chiesa in alleanza d’amore. Nei battezzati, le parole e i gesti si trasformano in un linguaggio che manifesta la fede. Il corpo, con i significati che Dio ha voluto infondere in esso creandolo, «si trasforma nel linguaggio dei ministri del sacramento, coscienti che nel patto coniugale si manifesta e si realizza il mistero».[242]

214. A volte i fidanzati non percepiscono il peso teologico e spirituale del consenso, che illumina il significato di tutti i gesti successivi. E’ necessario evidenziare che quelle parole non possono essere ridotte al presente; esse implicano una totalità che include il futuro: «finché la morte non vi separi». Il significato del consenso mostra che «libertà e fedeltà non si oppongono, anzi piuttosto si sostengono mutuamente, tanto nelle relazioni interpersonali, come in quelle sociali. Effettivamente, pensiamo ai danni che producono, nella civiltà della comunicazione globale, l’inflazione di promesse incompiute […]. Onorare la parola data, la fedeltà alla promessa, non si possono comprare né vendere. Non si possono imporre con la forza, ma nemmeno custodire senza sacrificio».[243]

215. I Vescovi del Kenya hanno osservato che «troppo concentrati sul giorno delle nozze, i futuri sposi si dimenticano che stanno preparandosi per un impegno che dura tutta la vita».[244] Bisogna aiutare a comprendere che il sacramento non è solo un momento che poi entra a far parte del passato e dei ricordi, perché esercita la sua influenza su tutta la vita matrimoniale, in modo permanente.[245] Il significato procreativo della sessualità, il linguaggio del corpo e i gesti d’amore vissuti nella storia di una coppia di coniugi, diventano una «ininterrotta continuità del linguaggio liturgico», e «la vita coniugale diventa, in un certo senso, liturgia».[246]

216. Si può anche meditare con le letture bibliche, e arricchire la comprensione del significato degli anelli che ci si dona a vicenda, o di altri segni che fanno parte del rito. Ma non sarebbe bene che arrivino al matrimonio senza aver pregato insieme, l’uno per l’altro, chiedendo aiuto a Dio per essere fedeli e generosi, domandando insieme a Dio che cosa Lui si aspetta da loro, e anche consacrando il loro amore davanti a un’immagine di Maria. Coloro che li accompagnano nella preparazione al matrimonio dovrebbero orientarli in modo che sappiano vivere questi momenti di preghiera che possono fare loro molto bene. «La liturgia nuziale è un evento unico, che si vive nel contesto familiare e sociale di una festa. Il primo dei segni di Gesù avvenne al banchetto delle nozze di Cana: il vino buono del miracolo del Signore, che allieta la nascita di una nuova famiglia, è il vino nuovo dell’Alleanza di Cristo con gli uomini e le donne di ogni tempo. […] Frequentemente, il celebrante ha l’opportunità di rivolgersi ad un’assemblea composta da persone che partecipano poco alla vita ecclesiale o appartengono ad altra confessione cristiana o comunità religiosa. Si tratta di una preziosa occasione di annuncio del Vangelo di Cristo».[247]

Accompagnare nei primi anni della vita matrimoniale

217. Dobbiamo riconoscere come un gran valore che si comprenda che il matrimonio è una questione di amore, che si possono sposare solo coloro che si scelgono liberamente e si amano. Ciò nonostante, quando l’amore diventa una mera attrazione o una vaga affettività, questo fa sì che i coniugi soffrano una straordinaria fragilità quando l’affettività entra in crisi o quando l’attrazione fisica viene meno. Dato che queste confusioni sono frequenti, si rende indispensabile accompagnare gli sposi nei primi anni di vita matrimoniale per arricchire e approfondire la decisione consapevole e libera di appartenersi e di amarsi sino alla fine. Molte volte il tempo del fidanzamento non è sufficiente, la decisione di sposarsi si affretta per diverse ragioni, mentre, come se non bastasse, la maturazione dei giovani si è ritardata. Dunque, gli sposi novelli si trovano a dover completare quel percorso che si sarebbe dovuto realizzare durante il fidanzamento.

218. D’altro canto, desidero insistere sul fatto che una sfida della pastorale familiare è aiutare a scoprire che il matrimonio non può intendersi come qualcosa di concluso. L’unione è reale, è irrevocabile, ed è stata confermata e consacrata dal sacramento del matrimonio. Ma nell’unirsi, gli sposi diventano protagonisti, padroni della propria storia e creatori di un progetto che occorre portare avanti insieme. Lo sguardo si rivolge al futuro che bisogna costruire giorno per giorno con la grazia di Dio, e proprio per questo non si pretende dal coniuge che sia perfetto. Bisogna mettere da parte le illusioni e accettarlo così com’è: incompiuto, chiamato a crescere, in cammino. Quando lo sguardo verso il coniuge è costantemente critico, questo indica che non si è assunto il matrimonio anche come un progetto da edificare insieme, con pazienza, comprensione, tolleranza e generosità. Questo fa sì che l’amore venga sostituito a poco a poco da uno sguardo inquisitore e implacabile, dal controllo dei meriti e dei diritti di ciascuno, dalle proteste, dalla competizione e dall’autodifesa. Così diventano incapaci di sostenersi l’un l’altro per la maturazione di entrambi e per la crescita dell’unione. Ai nuovi coniugi è necessario presentare questo con chiarezza realistica fin dall’inizio, in modo che prendano coscienza del fatto che stanno incominciando. Il “sì” che si sono scambiati è l’inizio di un itinerario, con un obiettivo capace di superare ciò che potrebbero imporre le circostanze o gli ostacoli che si frapponessero. La benedizione ricevuta è una grazia e una spinta per questo cammino sempre aperto. Spesso aiuta che si mettano seduti a dialogare per elaborare il loro progetto concreto nei suoi obiettivi, nei suoi strumenti, nei suoi dettagli.

219. Ricordo un ritornello che diceva che l’acqua stagnante si corrompe, si guasta. È quanto accade quando la vita dell’amore nei primi anni del matrimonio ristagna, smette di essere in movimento, cessa di avere quella sana inquietudine che la spinge in avanti. La danza proiettata in avanti con quell’amore giovane, la danza con quegli occhi meravigliati pieni di speranza non deve fermarsi. Nel fidanzamento e nei primi anni di matrimonio la speranza è quella che ha in sé la forza del lievito, quella che fa guardare oltre le contraddizioni, i conflitti, le contingenze, quella che fa sempre vedere oltre. E’ quella che mette in moto ogni aspettativa per mantenersi in un cammino di crescita. La stessa speranza ci invita a vivere in pieno il presente, mettendo il cuore nella vita familiare, perché il modo migliore di preparare e consolidare il futuro è vivere bene il presente.

220. Il cammino implica passare attraverso diverse tappe che chiamano a donarsi con generosità: dall’impatto iniziale caratterizzato da un’attrazione marcatamente sensibile, si passa al bisogno dell’altro sentito come parte della propria vita. Da lì si passa al gusto della reciproca appartenenza, poi alla comprensione della vita intera come progetto di entrambi, alla capacità di porre la felicità dell’altro al di sopra delle proprie necessità, e alla gioia di vedere il proprio matrimonio come un bene per la società. La maturazione dell’amore implica anche imparare a “negoziare”. Non è un atteggiamento interessato o un gioco di tipo commerciale, ma in definitiva un esercizio dell’amore vicendevole, perché questa negoziazione è un intreccio di reciproche offerte e rinunce per il bene della famiglia. In ogni nuova tappa della vita matrimoniale, occorre sedersi e negoziare nuovamente gli accordi, in modo che non ci siano vincitori e vinti, ma che vincano entrambi. In casa le decisioni non si prendono unilateralmente, e i due condividono la responsabilità per la famiglia, ma ogni casa è unica e ogni sintesi matrimoniale è differente.

221. Una delle cause che portano alla rottura dei matrimoni è avere aspettative troppo alte riguardo alla vita coniugale. Quando si scopre la realtà, più limitata e problematica di quella che si aveva sognato, la soluzione non è pensare rapidamente e irresponsabilmente alla separazione, ma assumere il matrimonio come un cammino di maturazione, in cui ognuno dei coniugi è uno strumento di Dio per far crescere l’altro. È possibile il cambiamento, la crescita, lo sviluppo delle buone potenzialità che ognuno porta in sé. Ogni matrimonio è una “storia di salvezza”, e questo suppone che si parta da una fragilità che, grazie al dono di Dio e a una risposta creativa e generosa, via via lascia spazio a una realtà sempre più solida e preziosa. La missione forse più grande di un uomo e una donna nell’amore è questa: rendersi a vicenda più uomo e più donna. Far crescere è aiutare l’altro a modellarsi nella sua propria identità. Per questo l’amore è artigianale. Quando si legge il passo della Bibbia sulla creazione dell’uomo e della donna, si osserva prima Dio che plasma l’uomo (cfr Gen 2,7), poi si accorge che manca qualcosa di essenziale e plasma la donna, e allora vede la sorpresa dell’uomo: “Ah, ora sì, questa sì!”. E poi sembra di udire quello stupendo dialogo in cui l’uomo e la donna incominciano a scoprirsi a vicenda. In effetti, anche nei momenti difficili l’altro torna a sorprendere e si aprono nuove porte per ritrovarsi, come se fosse la prima volta; e in ogni nuova tappa ritornano a “plasmarsi” l’un l’altro. L’amore fa sì che uno aspetti l’altro ed eserciti la pazienza propria dell’artigiano che è stata ereditata da Dio.

222. L’accompagnamento deve incoraggiare gli sposi ad essere generosi nella comunicazione della vita. «Conformemente al carattere personale e umanamente completo dell’amore coniugale, la giusta strada per la pianificazione familiare è quella di un dialogo consensuale tra gli sposi, del rispetto dei tempi e della considerazione della dignità del partner. In questo senso l’Enciclica Humanae vitae (cfr 10-14) e l’Esortazione apostolica Familiaris consortio (cfr 14; 28-35) devono essere riscoperte al fine di ridestare la disponibilità a procreare in contrasto con una mentalità spesso ostile alla vita […]. La scelta responsabile della genitorialità presuppone la formazione della coscienza, che è “il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità” (Gaudium et spes, 16). Quanto più gli sposi cercano di ascoltare nella loro coscienza Dio e i suoi comandamenti (cfr Rm 2,15), e si fanno accompagnare spiritualmente, tanto più la loro decisione sarà intimamente libera da un arbitrio soggettivo e dall’adeguamento ai modi di comportarsi del loro ambiente».[248] Rimane valido quanto affermato con chiarezza nel Concilio Vaticano II: «I coniugi […], di comune accordo e con sforzo comune, si formeranno un retto giudizio: tenendo conto sia del proprio bene personale che di quello dei figli, tanto di quelli nati che di quelli che si prevede nasceranno; valutando le condizioni sia materiali che spirituali della loro epoca e del loro stato di vita; e, infine, tenendo conto del bene della comunità familiare, della società temporale e della Chiesa stessa. Questo giudizio in ultima analisi lo devono formulare, davanti a Dio, gli sposi stessi».[249]D’altra parte, «il ricorso ai metodi fondati sui “ritmi naturali di fecondità” (Humanae vitae, 11) andrà incoraggiato. Si metterà in luce che “questi metodi rispettano il corpo degli sposi, incoraggiano la tenerezza fra di loro e favoriscono l’educazione di una libertà autentica” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 2370). Va evidenziato sempre che i figli sono un meraviglioso dono di Dio, una gioia per i genitori e per la Chiesa. Attraverso di essi il Signore rinnova il mondo».[250]

Alcune risorse

223. I Padri sinodali hanno indicato che «i primi anni di matrimonio sono un periodo vitale e delicato durante il quale le coppie crescono nella consapevolezza delle sfide e del significato del matrimonio. Di qui l’esigenza di un accompagnamento pastorale che continui dopo la celebrazione del sacramento (cfr Familiaris consortio, parte III). Risulta di grande importanza in questa pastorale la presenza di coppie di sposi con esperienza. La parrocchia è considerata come il luogo dove coppie esperte possono essere messe a disposizione di quelle più giovani, con l’eventuale concorso di associazioni, movimenti ecclesiali e nuove comunità. Occorre incoraggiare gli sposi a un atteggiamento fondamentale di accoglienza del grande dono dei figli. Va sottolineata l’importanza della spiritualità familiare, della preghiera e della partecipazione all’Eucaristia domenicale, incoraggiando le coppie a riunirsi regolarmente per promuovere la crescita della vita spirituale e la solidarietà nelle esigenze concrete della vita. Liturgie, pratiche devozionali ed Eucaristie celebrate per le famiglie, soprattutto nell’anniversario del matrimonio, sono state menzionate come vitali per favorire l’evangelizzazione attraverso la famiglia».[251]

224. Questo cammino è una questione di tempo. L’amore ha bisogno di tempo disponibile e gratuito, che metta altre cose in secondo piano. Ci vuole tempo per dialogare, per abbracciarsi senza fretta, per condividere progetti, per ascoltarsi, per guardarsi, per apprezzarsi, per rafforzare la relazione. A volte il problema è il ritmo frenetico della società, o i tempi imposti dagli impegni lavorativi. Altre volte il problema è che il tempo che si passa insieme non ha qualità. Condividiamo solamente uno spazio fisico, ma senza prestare attenzione l’uno all’altro. Gli operatori pastorali e i gruppi di famiglie dovrebbero aiutare le coppie di sposi giovani o fragili a imparare ad incontrarsi in quei momenti, a fermarsi l’uno di fronte all’altro, e anche a condividere momenti di silenzio che li obblighino a sperimentare la presenza del coniuge.

225. Gli sposi che hanno una buona esperienza di “apprendistato” in questo senso possono offrire gli strumenti pratici che sono stati utili per loro: la programmazione dei momenti per stare insieme gratuitamente, i tempi di ricreazione con i figli, i vari modi di celebrare cose importanti, gli spazi di spiritualità condivisa. Ma possono anche insegnare accorgimenti che aiutano a riempire di contenuto e di significato questi momenti, per imparare a comunicare meglio. Questo è di somma importanza quando si è spenta la novità del fidanzamento. Perché quando non si sa che fare col tempo condiviso, uno o l’altro dei coniugi finirà col rifugiarsi nella tecnologia, inventerà altri impegni, cercherà altre braccia o scapperà da un’intimità scomoda.

226. I giovani sposi vanno anche stimolati a crearsi delle proprie abitudini, che offrono una sana sensazione di stabilità e di protezione, e che si costruiscono con una serie di rituali quotidiani condivisi. È buona cosa darsi sempre un bacio al mattino, benedirsi tutte le sere, aspettare l’altro e accoglierlo quando arriva, uscire qualche volta insieme, condividere le faccende domestiche. Ma nello stesso tempo, è bene interrompere le abitudini con la festa, non perdere la capacità di celebrare in famiglia, di gioire e di festeggiare le belle esperienze. Hanno bisogno di sorprendersi insieme per i doni di Dio e alimentare insieme l’entusiasmo per la vita. Quando si sa celebrare, questa capacità rinnova l’energia dell’amore, lo libera dalla monotonia e riempie di colore e di speranza le abitudini quotidiane.

227. Noi Pastori dobbiamo incoraggiare le famiglie a crescere nella fede. Per questo è bene esortare alla Confessione frequente, alla direzione spirituale, alla partecipazione ai ritiri. Ma non bisogna dimenticare di invitare a creare spazi settimanali di preghiera familiare, perché “la famiglia che prega unita resta unita”. Come pure, quando visitiamo le case, dovremmo invitare tutti i membri della famiglia a un momento per pregare gli uni per gli altri e per affidare la famiglia alle mani del Signore. Allo stesso tempo, è opportuno incoraggiare ciascuno dei coniugi a prendersi dei momenti di preghiera in solitudine davanti a Dio, perché ognuno ha le sue croci segrete. Perché non raccontare a Dio ciò che turba il cuore, o chiedergli la forza per sanare le proprie ferite e implorare la luce di cui si ha bisogno per sostenere il proprio impegno? I Padri sinodali hanno anche evidenziato che «la Parola di Dio è fonte di vita e spiritualità per la famiglia. Tutta la pastorale familiare dovrà lasciarsi modellare interiormente e formare i membri della Chiesa domestica mediante la lettura orante e ecclesiale della Sacra Scrittura. La Parola di Dio non solo è una buona novella per la vita privata delle persone, ma anche un criterio di giudizio e una luce per il discernimento delle diverse sfide con cui si confrontano i coniugi e le famiglie».[252]

228. È possibile che uno dei coniugi non sia battezzato, o che non voglia vivere gli impegni della fede. In tal caso, il desiderio dell’altro di vivere e crescere come cristiano fa sì che l’indifferenza del coniuge sia vissuta con dolore. Ciò nonostante, è possibile trovare alcuni valori comuni da poter condividere e coltivare con entusiasmo. In ogni modo, amare il coniuge non credente, dargli felicità, alleviare le sue sofferenze e condividere la vita con lui è un vero cammino di santificazione. D’altra parte, l’amore è un dono di Dio, e lì dove si diffonde fa sentire la sua forza trasformatrice, in modi a volte misteriosi, fino al punto che «il marito non credente viene reso santo dalla moglie credente e la moglie non credente viene resa santa dal marito credente» (1 Cor 7,14).

229. Le parrocchie, i movimenti, le scuole e altre istituzioni della Chiesa possono svolgere diverse mediazioni per curare e ravvivare le famiglie. Per esempio, tramite strumenti come: riunioni di coppie vicine o amiche, ritiri brevi per sposi, conferenze di specialisti su problematiche molto concrete della vita familiare, centri di consulenza matrimoniale, operatori missionari preparati per parlare con gli sposi sulle loro difficoltà e aspirazioni, consulenze su diverse situazioni familiari (dipendenze, infedeltà, violenza familiare), spazi di spiritualità, laboratori di formazione per genitori con figli problematici, assemblee familiari. La segreteria parrocchiale dovrebbe essere in grado di accogliere con cordialità e di occuparsi delle urgenze familiari, o di indirizzare facilmente verso chi possa dare aiuto. C’è anche un sostegno pastorale che si dà nei gruppi di sposi, tanto di servizio che di missione, di preghiera, di formazione o di mutuo aiuto. Questi gruppi offrono l’opportunità di dare, di vivere l’apertura della famiglia agli altri, di condividere la fede, ma al tempo stesso sono un mezzo per rafforzare i coniugi e farli crescere.

230. È vero che molte coppie di sposi spariscono dalla comunità cristiana dopo il matrimonio, ma tante volte sprechiamo alcune occasioni in cui tornano a farsi presenti, dove potremmo riproporre loro in modo attraente l’ideale del matrimonio cristiano e avvicinarli a spazi di accompagnamento: mi riferisco, per esempio, al Battesimo di un figlio, alla prima Comunione, o quando partecipano ad un funerale o al matrimonio di un parente o di un amico. Quasi tutti i coniugi riappaiono in queste occasioni, che potrebbero essere meglio valorizzate. Un’altra via di avvicinamento è la benedizione delle case, o la visita di un’immagine della Vergine, che offrono l’occasione di sviluppare un dialogo pastorale sulla situazione della famiglia. Può anche essere utile affidare a coppie più adulte il compito di seguire coppie più recenti del proprio vicinato, per incontrarle, seguirle nei loro inizi e proporre loro un percorso di crescita. Con il ritmo della vita attuale, la maggior parte degli sposi non saranno disposti a riunioni frequenti, e non possiamo ridurci a una pastorale di piccole élites. Oggi la pastorale familiare dev’essere essenzialmente missionaria, in uscita, in prossimità, piuttosto che ridursi ad essere una fabbrica di corsi ai quali pochi assistono.

Rischiarare crisi, angosce e difficoltà

231. Una parola vada a coloro che nell’amore hanno già invecchiato il vino nuovo del fidanzamento. Quando il vino si invecchia con questa esperienza del cammino, lì appare, fiorisce in tutta la sua pienezza, la fedeltà dei piccoli momenti della vita. È la fedeltà dell’attesa e della pazienza. Questa fedeltà piena di sacrifici e di gioie va come fiorendo nell’età in cui tutto diventa “stagionato” e gli occhi diventano scintillanti in contemplazione dei figli dei propri figli. Così era fin dal principio, ma ormai si è fatto consapevole, sedimentato, maturato nella sorpresa quotidiana della riscoperta giorno dopo giorno, anno dopo anno. Come insegnava san Giovanni della Croce, «gli amanti vecchi [sono] quelli già esercitati e provati». Essi sono privi «dei fervori sensibili, delle ebollizioni e dei fuochi esterni di fervore. Essi gustano ormai la soavità del vino di amore nella sostanza, già fermentato e posato dentro l’anima».[253] Questo suppone l’essere stati capaci di superare uniti le crisi e i tempi di angoscia, senza sfuggire dalle sfide e senza nascondere le difficoltà.

La sfida delle crisi

232. La storia di una famiglia è solcata da crisi di ogni genere, che sono anche parte della sua drammatica bellezza. Bisogna aiutare a scoprire che una crisi superata non porta ad una relazione meno intensa, ma a migliorare, a sedimentare e a maturare il vino dell’unione. Non si vive insieme per essere sempre meno felici, ma per imparare ad essere felici in modo nuovo, a partire dalle possibilità aperte da una nuova tappa. Ogni crisi implica un apprendistato che permette di incrementare l’intensità della vita condivisa, o almeno di trovare un nuovo senso all’esperienza matrimoniale. In nessun modo bisogna rassegnarsi a una curva discendente, a un deterioramento inevitabile, a una mediocrità da sopportare. Al contrario, quando il matrimonio si assume come un compito, che implica anche superare ostacoli, ogni crisi si percepisce come l’occasione per arrivare a bere insieme il vino migliore. È bene accompagnare i coniugi perché siano in grado di accettare le crisi che possono arrivare, raccogliere il guanto e assegnare ad esse un posto nella vita familiare. I coniugi esperti e formati devono essere disposti ad accompagnare altri in questa scoperta, in modo che le crisi non li spaventino né li portino a prendere decisioni affrettate. Ogni crisi nasconde una buona notizia che occorre saper ascoltare affinando l’udito del cuore.

233. La reazione immediata è fare resistenza davanti alla sfida di una crisi, mettersi sulla difensiva sentendo che sfugge al proprio controllo, perché mostra l’insufficienza del proprio modo di vivere, e questo dà fastidio. Allora si usa il metodo di negare i problemi, nasconderli, relativizzare la loro importanza, puntare solo sul passare del tempo. Ma ciò ritarda la soluzione e porta a consumare molta energia in un occultamento inutile che complicherà ancora di più le cose. I vincoli si vanno deteriorando e si va consolidando un isolamento che danneggia l’intimità. In una crisi non affrontata, quello che più si compromette è la comunicazione. In tal modo, a poco a poco, quella che era “la persona che amo” passa ad essere “chi mi accompagna sempre nella vita”, poi solo “il padre o la madre dei miei figli”, e alla fine un estraneo.

234. Per affrontare una crisi bisogna essere presenti. È difficile, perché a volte le persone si isolano per non mostrare quello che sentono, si fanno da parte in un silenzio meschino e ingannatore. In questi momenti occorre creare spazi per comunicare da cuore a cuore. Il problema è che diventa più difficile comunicare così in un momento di crisi se non si è mai imparato a farlo. È una vera arte che si impara in tempi di calma, per metterla in pratica nei tempi duri. Bisogna aiutare a scoprire le cause più nascoste nei cuori dei coniugi, e ad affrontarle come un parto che passerà e lascerà un nuovo tesoro. Ma le risposte alle consultazioni realizzate rilevano che in situazioni difficili o critiche la maggioranza non ricorre all’accompagnamento pastorale, perché non lo sente comprensivo, vicino, realistico, incarnato. Per questo, cerchiamo ora di accostarci alle crisi matrimoniali con uno sguardo che non ignori il loro carico di dolore e di angoscia.

235. Ci sono crisi comuni che accadono solitamente in tutti i matrimoni, come la crisi degli inizi, quando bisogna imparare a rendere compatibili le differenze e a distaccarsi dai genitori; o la crisi dell’arrivo del figlio, con le sue nuove sfide emotive; la crisi di allevare un bambino, che cambia le abitudini dei genitori; la crisi dell’adolescenza del figlio, che esige molte energie, destabilizza i genitori e a volte li oppone tra loro; la crisi del “nido vuoto”, che obbliga la coppia a guardare nuovamente a sé stessa; la crisi causata dalla vecchiaia dei genitori dei coniugi, che richiedono più presenza, più attenzioni e decisioni difficili. Sono situazioni esigenti, che provocano paure, sensi di colpa, depressioni o stanchezze che possono intaccare gravemente l’unione.

236. A queste si sommano le crisi personali che incidono sulla coppia, legate alle difficoltà economiche, di lavoro, affettive, sociali, spirituali. E si aggiungono circostanze inaspettate che possono alterare la vita familiare e che esigono un cammino di perdono e riconciliazione. Nel momento stesso in cui cerca di fare il passo del perdono, ciascuno deve domandarsi con serena umiltà se non ha creato le condizioni per esporre l’altro a commettere certi errori. Alcune famiglie soccombono quando i coniugi si accusano a vicenda, ma «l’esperienza mostra che con un aiuto adeguato e con l’azione di riconciliazione della grazia una grande percentuale di crisi matrimoniali si supera in maniera soddisfacente. Saper perdonare e sentirsi perdonati è un’esperienza fondamentale nella vita familiare».[254] «La faticosa arte della riconciliazione, che necessita del sostegno della grazia, ha bisogno della generosa collaborazione di parenti ed amici, e talvolta anche di un aiuto esterno e professionale».[255]

237. È diventato frequente che, quando uno sente di non ricevere quello che desidera, o che non si realizza quello che sognava, ciò sembra essere sufficiente per mettere fine a un matrimonio. Così non ci sarà matrimonio che duri. A volte, per decidere che tutto è finito basta una delusione, un’assenza in un momento in cui si aveva bisogno dell’altro, un orgoglio ferito o un timore indefinito. Ci sono situazioni proprie dell’inevitabile fragilità umana, alle quali si attribuisce un peso emotivo troppo grande. Per esempio, la sensazione di non essere completamente corrisposto, le gelosie, le differenze che possono emergere tra i due, l’attrazione suscitata da altre persone, i nuovi interessi che tendono a impossessarsi del cuore, i cambiamenti fisici del coniuge, e tante altre cose che, più che attentati contro l’amore, sono opportunità che invitano a ricrearlo una volta di più.

238. In queste circostanze, alcuni hanno la maturità necessaria per scegliere nuovamente l’altro come compagno di strada, al di là dei limiti della relazione, e accettano con realismo che non possa soddisfare tutti i sogni accarezzati. Evitano di considerarsi gli unici martiri, apprezzano le piccole e limitate possibilità che offre loro la vita in famiglia e puntano a rafforzare il vincolo in una costruzione che richiederà tempo e sforzo. Perché in fondo riconoscono che ogni crisi è come un nuovo “sì” che rende possibile che l’amore rinasca rafforzato, trasfigurato, maturato, illuminato. A partire da una crisi si ha il coraggio di ricercare le radici profonde di quello che sta succedendo, di negoziare di nuovo gli accordi fondamentali, di trovare un nuovo equilibrio e di percorrere insieme una nuova tappa. Con questo atteggiamento di costante apertura si possono affrontare tante situazioni difficili! In ogni caso, riconoscendo che la riconciliazione è possibile, oggi scopriamo che «un ministero dedicato a coloro la cui relazione matrimoniale si è infranta appare particolarmente urgente».[256]

Vecchie ferite

239. È comprensibile che nelle famiglie ci siano molte difficoltà quando qualcuno dei suoi membri non ha maturato il suo modo di relazionarsi, perché non ha guarito ferite di qualche fase della sua vita. La propria infanzia e la propria adolescenza vissute male sono terreno fertile per crisi personali che finiscono per danneggiare il matrimonio. Se tutti fossero persone maturate normalmente, le crisi sarebbero meno frequenti e meno dolorose. Ma il fatto è che a volte le persone hanno bisogno di realizzare a quarant’anni una maturazione arretrata che avrebbero dovuto raggiungere alla fine dell’adolescenza. A volte si ama con un amore egocentrico proprio del bambino, fissato in una fase in cui la realtà si distorce e si vive il capriccio che tutto debba girare intorno al proprio io. È un amore insaziabile, che grida e piange quando non ottiene quello che desidera. Altre volte si ama con un amore fissato ad una fase adolescenziale, segnato dal contrasto, dalla critica acida, dall’abitudine di incolpare gli altri, dalla logica del sentimento e della fantasia, dove gli altri devono riempire i nostri vuoti o sostenere i nostri capricci.

240. Molti terminano la propria infanzia senza aver mai sperimentato di essere amati incondizionatamente, e questo ferisce la loro capacità di aver fiducia e di donarsi. Una relazione mal vissuta con i propri genitori e fratelli, che non è mai stata sanata, riappare, e danneggia la vita coniugale. Dunque bisogna fare un percorso di liberazione che non si è mai affrontato. Quando la relazione tra i coniugi non funziona bene, prima di prendere decisioni importanti, conviene assicurarsi che ognuno abbia fatto questo cammino di cura della propria storia. Ciò esige di riconoscere la necessità di guarire, di chiedere con insistenza la grazia di perdonare e di perdonarsi, di accettare aiuto, di cercare motivazioni positive e di ritornare a provare sempre di nuovo. Ciascuno dev’essere molto sincero con sé stesso per riconoscere che il suo modo di vivere l’amore ha queste immaturità. Per quanto possa sembrare evidente che tutta la colpa sia dell’altro, non è mai possibile superare una crisi aspettando che solo l’altro cambi. Occorre anche interrogarsi sulle cose che uno potrebbe personalmente maturare o sanare per favorire il superamento del conflitto.

Accompagnare dopo le rotture e i divorzi

241. In alcuni casi, la considerazione della propria dignità e del bene dei figli impone di porre un limite fermo alle pretese eccessive dell’altro, a una grande ingiustizia, alla violenza o a una mancanza di rispetto diventata cronica. Bisogna riconoscere che «ci sono casi in cui la separazione è inevitabile. A volte può diventare persino moralmente necessaria, quando appunto si tratta di sottrarre il coniuge più debole, o i figli piccoli, alle ferite più gravi causate dalla prepotenza e dalla violenza, dall’avvilimento e dallo sfruttamento, dall’estraneità e dall’indifferenza».[257] Comunque «deve essere considerata come estremo rimedio, dopo che ogni altro ragionevole tentativo si sia dimostrato vano».[258]

242. I Padri hanno indicato che «un particolare discernimento è indispensabile per accompagnare pastoralmente i separati, i divorziati, gli abbandonati. Va accolta e valorizzata soprattutto la sofferenza di coloro che hanno subito ingiustamente la separazione, il divorzio o l’abbandono, oppure sono stati costretti dai maltrattamenti del coniuge a rompere la convivenza. Il perdono per l’ingiustizia subita non è facile, ma è un cammino che la grazia rende possibile. Di qui la necessità di una pastorale della riconciliazione e della mediazione attraverso anche centri di ascolto specializzati da stabilire nelle diocesi».[259] Nello stesso tempo, «le persone divorziate ma non risposate, che spesso sono testimoni della fedeltà matrimoniale, vanno incoraggiate a trovare nell’Eucaristia il cibo che le sostenga nel loro stato. La comunità locale e i Pastori devono accompagnare queste persone con sollecitudine, soprattutto quando vi sono figli o è grave la loro situazione di povertà».[260] Un fallimento matrimoniale diventa molto più traumatico e doloroso quando c’è povertà, perché si hanno molte meno risorse per riorientare l’esistenza. Una persona povera che perde l’ambiente protettivo della famiglia resta doppiamente esposta all’abbandono e a ogni tipo di rischi per la sua integrità.

243. Ai divorziati che vivono una nuova unione, è importante far sentire che sono parte della Chiesa, che “non sono scomunicati” e non sono trattati come tali, perché formano sempre la comunione ecclesiale.[261] Queste situazioni «esigono un attento discernimento e un accompagnamento di grande rispetto, evitando ogni linguaggio e atteggiamento che li faccia sentire discriminati e promovendo la loro partecipazione alla vita della comunità. Prendersi cura di loro non è per la comunità cristiana un indebolimento della sua fede e della sua testimonianza circa l’indissolubilità matrimoniale, anzi essa esprime proprio in questa cura la sua carità».[262]

244. D’altra parte, un gran numero di Padri «ha sottolineato la necessità di rendere più accessibili ed agili, possibilmente del tutto gratuite, le procedure per il riconoscimento dei casi di nullità».[263] La lentezza dei processi crea disagio e stanca le persone. I miei due recenti Documenti su tale materia[264] hanno portato ad una semplificazione delle procedure per una eventuale dichiarazione di nullità matrimoniale. Attraverso di essi ho anche voluto «rendere evidente che lo stesso Vescovo nella sua Chiesa, di cui è costituito pastore e capo, è per ciò stesso giudice tra i fedeli a lui affidati».[265] Perciò, «l’attuazione di questi documenti costituisce una grande responsabilità per gli Ordinari diocesani, chiamati a giudicare loro stessi alcune cause e, in ogni modo, ad assicurare un accesso più facile dei fedeli alla giustizia. Ciò implica la preparazione di un personale sufficiente, composto di chierici e laici, che si consacri in modo prioritario a questo servizio ecclesiale. Sarà pertanto necessario mettere a disposizione delle persone separate o delle coppie in crisi, un servizio d’informazione, di consiglio e di mediazione, legato alla pastorale familiare, che potrà pure accogliere le persone in vista dell’indagine preliminare al processo matrimoniale (cfr Mitis Iudex, art. 2-3)».[266]

245. I Padri Sinodali hanno anche messo in evidenza «le conseguenze della separazione o del divorzio sui figli, in ogni caso vittime innocenti della situazione».[267] Al di sopra di tutte le considerazioni che si vogliano fare, essi sono la prima preoccupazione, che non deve essere offuscata da nessun altro interesse o obiettivo. Ai genitori separati rivolgo questa preghiera: «Mai, mai, mai prendere il figlio come ostaggio! Vi siete separati per tante difficoltà e motivi, la vita vi ha dato questa prova, ma i figli non siano quelli che portano il peso di questa separazione, non siano usati come ostaggi contro l’altro coniuge, crescano sentendo che la mamma parla bene del papà, benché non siano insieme, e che il papà parla bene della mamma».[268] È irresponsabile rovinare l’immagine del padre o della madre con l’obiettivo di accaparrarsi l’affetto del figlio, per vendicarsi o per difendersi, perché questo danneggerà la vita interiore di quel bambino e provocherà ferite difficili da guarire.

246. La Chiesa, sebbene comprenda le situazioni conflittuali che i coniugi devono attraversare, non può cessare di essere voce dei più fragili, che sono i figli che soffrono, spesso in silenzio. Oggi, «nonostante la nostra sensibilità apparentemente evoluta, e tutte le nostre raffinate analisi psicologiche, mi domando se non ci siamo anestetizzati anche rispetto alle ferite dell’anima dei bambini. […] Sentiamo il peso della montagna che schiaccia l’anima di un bambino, nelle famiglie in cui ci si tratta male e ci si fa del male, fino a spezzare il legame della fedeltà coniugale?».[269] Queste brutte esperienze non sono di aiuto affinché quei bambini maturino per essere capaci di impegni definitivi. Per questo, le comunità cristiane non devono lasciare soli i genitori divorziati che vivono una nuova unione. Al contrario, devono includerli e accompagnarli nella loro funzione educativa. Infatti, «come potremmo raccomandare a questi genitori di fare di tutto per educare i figli alla vita cristiana, dando loro l’esempio di una fede convinta e praticata, se li tenessimo a distanza dalla vita della comunità, come se fossero scomunicati? Si deve fare in modo di non aggiungere altri pesi oltre a quelli che i figli, in queste situazioni, già si trovano a dover portare!».[270] Aiutare a guarire le ferite dei genitori e accoglierli spiritualmente, è un bene anche per i figli, i quali hanno bisogno del volto familiare della Chiesa che li accolga in questa esperienza traumatica. Il divorzio è un male, ed è molto preoccupante la crescita del numero dei divorzi. Per questo, senza dubbio, il nostro compito pastorale più importante riguardo alle famiglie, è rafforzare l’amore e aiutare a sanare le ferite, in modo che possiamo prevenire l’estendersi di questo dramma della nostra epoca.

Alcune situazioni complesse

247. «Le problematiche relative ai matrimoni misti richiedono una specifica attenzione. I matrimoni tra cattolici e altri battezzati “presentano, pur nella loro particolare fisionomia, numerosi elementi che è bene valorizzare e sviluppare, sia per il loro intrinseco valore, sia per l’apporto che possono dare al movimento ecumenico”. A tal fine “va ricercata […] una cordiale collaborazione tra il ministro cattolico e quello non cattolico, fin dal tempo della preparazione al matrimonio e delle nozze” (Familiaris consortio, 78). Circa la condivisione eucaristica si ricorda che “la decisione di ammettere o no la parte non cattolica del matrimonio alla comunione eucaristica va presa in conformità alle norme generali esistenti in materia, tanto per i cristiani orientali quanto per gli altri cristiani, e tenendo conto di questa situazione particolare, che cioè ricevono il sacramento del matrimonio cristiano due cristiani battezzati. Sebbene gli sposi di un matrimonio misto abbiano in comune i sacramenti del battesimo e del matrimonio, la condivisione dell’Eucaristia non può essere che eccezionale e, in ogni caso, vanno osservate le disposizioni indicate” (Pont. Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, Direttorio per l’Applicazione dei Principi e delle Norme sull’Ecumenismo, 25 marzo 1993, 159-160)».[271]

248. «I matrimoni con disparità di culto rappresentano un luogo privilegiato di dialogo interreligioso […] comportano alcune speciali difficoltà sia riguardo alla identità cristiana della famiglia, sia all’educazione religiosa dei figli. […] Il numero delle famiglie composte da unioni coniugali con disparità di culto, in crescita nei territori di missione e anche nei Paesi di lunga tradizione cristiana, sollecita l’urgenza di provvedere ad una cura pastorale differenziata secondo i diversi contesti sociali e culturali. In alcuni Paesi, dove la libertà di religione non esiste, il coniuge cristiano è obbligato a passare ad un’altra religione per potersi sposare, e non può celebrare il matrimonio canonico in disparità di culto né battezzare i figli. Dobbiamo ribadire pertanto la necessità che la libertà religiosa sia rispettata nei confronti di tutti».[272] «È necessario rivolgere un’attenzione particolare alle persone che si uniscono in tali matrimoni, non solo nel periodo precedente alle nozze. Sfide peculiari affrontano le coppie e le famiglie nelle quali un partner è cattolico e l’altro non credente. In tali casi è necessario testimoniare la capacità del Vangelo di calarsi in queste situazioni così da rendere possibile l’educazione alla fede cristiana dei figli».[273]

249. «Particolare difficoltà presentano le situazioni che riguardano l’accesso al battesimo di persone che si trovano in una condizione matrimoniale complessa. Si tratta di persone che hanno contratto un’unione matrimoniale stabile in un tempo in cui ancora almeno una di esse non conosceva la fede cristiana. I Vescovi sono chiamati a esercitare, in questi casi, un discernimento pastorale commisurato al loro bene spirituale».[274]

250. La Chiesa conforma il suo atteggiamento al Signore Gesù che in un amore senza confini si è offerto per ogni persona senza eccezioni.[275] Con i Padri sinodali ho preso in considerazione la situazione delle famiglie che vivono l’esperienza di avere al loro interno persone con tendenza omosessuale, esperienza non facile né per i genitori né per i figli. Perciò desideriamo anzitutto ribadire che ogni persona, indipendentemente dal proprio orientamento sessuale, va rispettata nella sua dignità e accolta con rispetto, con la cura di evitare «ogni marchio di ingiusta discriminazione»[276] e particolarmente ogni forma di aggressione e violenza. Nei riguardi delle famiglie si tratta invece di assicurare un rispettoso accompagnamento, affinché coloro che manifestano la tendenza omosessuale possano avere gli aiuti necessari per comprendere e realizzare pienamente la volontà di Dio nella loro vita.[277]

251. Nel corso del dibattito sulla dignità e la missione della famiglia, i Padri sinodali hanno osservato che «circa i progetti di equiparazione al matrimonio delle unioni tra persone omosessuali, non esiste fondamento alcuno per assimilare o stabilire analogie, neppure remote, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia»; ed è inaccettabile «che le Chiese locali subiscano delle pressioni in questa materia e che gli organismi internazionali condizionino gli aiuti finanziari ai Paesi poveri all’introduzione di leggi che istituiscano il “matrimonio” fra persone dello stesso sesso».[278]

252. Le famiglie monoparentali hanno origine spesso a partire da «madri o padri biologici che non hanno voluto mai integrarsi nella vita familiare, situazioni di violenza da cui un genitore è dovuto fuggire con i figli, morte di uno dei genitori, abbandono della famiglia da parte di uno dei genitori, e altre situazioni. Qualunque sia la causa, il genitore che abita con il bambino deve trovare sostegno e conforto presso le altre famiglie che formano la comunità cristiana, così come presso gli organismi pastorali parrocchiali. Queste famiglie sono spesso ulteriormente afflitte dalla gravità dei problemi economici, dall’incertezza di un lavoro precario, dalla difficoltà per il mantenimento dei figli, dalla mancanza di una casa».[279]

Quando la morte pianta il suo pungiglione

253. A volte la vita familiare si vede interpellata dalla morte di una persona cara. Non possiamo tralasciare di offrire la luce della fede per accompagnare le famiglie che soffrono in questi momenti.[280] Abbandonare una famiglia quando una morte la ferisce sarebbe una mancanza di misericordia, perdere un’opportunità pastorale, e questo atteggiamento può chiuderci le porte per qualsiasi altra azione evangelizzatrice.

254. Comprendo l’angoscia di chi ha perso una persona molto amata, un coniuge con cui ha condiviso tante cose. Gesù stesso si è commosso e ha pianto alla veglia funebre di un amico (cfr Gv 11,33.35). E come non comprendere il lamento di chi ha perso un figlio? Infatti, «è come se si fermasse il tempo: si apre un abisso che ingoia il passato e anche il futuro. […] E a volte si arriva anche ad accusare Dio. Quanta gente – li capisco – si arrabbia con Dio».[281] «La vedovanza è un’esperienza particolarmente difficile […] alcuni mostrano di saper riversare le proprie energie con ancor più dedizione sui figli e i nipoti, trovando in questa espressione di amore una nuova missione educativa. […] Coloro che non possono contare sulla presenza di familiari a cui dedicarsi e dai quali ricevere affetto e vicinanza devono essere sostenuti dalla comunità cristiana con particolare attenzione e disponibilità, soprattutto se si trovano in condizioni di indigenza».[282]

255. In generale il lutto per i defunti può durare piuttosto a lungo, e quando un pastore vuole accompagnare questo percorso, deve adattarsi alle necessità di ognuna delle sue fasi. Tutto il percorso è solcato da domande: sulle cause della morte, su ciò che si sarebbe potuto fare, su cosa vive una persona nel momento precedente alla morte… Con un cammino sincero e paziente di preghiera e di liberazione interiore, ritorna la pace. A un certo punto del lutto occorre aiutare a scoprire che quanti abbiamo perso una persona cara abbiamo ancora una missione da compiere, e che non ci fa bene voler prolungare la sofferenza, come se questa fosse un atto di ossequio. La persona amata non ha bisogno della nostra sofferenza, né le risulta lusinghiero che roviniamo la nostra vita. Nemmeno è la migliore espressione di amore ricordarla e nominarla in ogni momento, perché significa rimanere attaccati ad un passato che non esiste più, invece di amare la persona reale che ora si trova nell’al di là. La sua presenza fisica non è più possibile, ma, se la morte è qualcosa di potente, «forte come la morte è l’amore» (Ct 8,6). L’amore possiede un’intuizione che gli permette di ascoltare senza suoni e di vedere nell’invisibile. Questo non è immaginare la persona cara così com’era, bensì poterla accettare trasformata, come è ora. Gesù risorto, quando la sua amica Maria volle abbracciarlo con forza, le chiese di non toccarlo (cfr Gv20,17), per condurla a un incontro differente.

256. Ci consola sapere che non esiste la distruzione completa di coloro che muoiono, e la fede ci assicura che il Risorto non ci abbandonerà mai. Così possiamo impedire alla morte «di avvelenarci la vita, di rendere vani i nostri affetti, di farci cadere nel vuoto più buio».[283] La Bibbia parla di un Dio che ci ha creato per amore, e che ci ha fatto in modo tale che la nostra vita non finisce con la morte (cfr Sap 3,2-3). San Paolo ci parla di un incontro con Cristo immediatamente dopo la morte: «Ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo» (Fil 1,23). Con Lui, dopo la morte ci aspetta ciò che Dio ha preparato per quelli che lo amano (cfr 1 Cor 2,9). Il prefazio della Liturgia dei defunti lo esprime magnificamente: «Se ci rattrista la certezza di dover morire, ci consola la promessa dell’immortalità futura. Ai tuoi fedeli, Signore, la vita non è tolta, ma trasformata». Infatti «i nostri cari non sono scomparsi nel buio del nulla: la speranza ci assicura che essi sono nelle mani buone e forti di Dio».[284]

257. Un modo di comunicare con i nostri cari che sono morti è pregare per loro.[285] Dice la Bibbia che «pregare per i defunti» è cosa «santa e devota» (2 Mac 12,44-45). Pregare per loro «può non solo aiutarli, ma anche rendere efficace la loro intercessione in nostro favore».[286] L’Apocalisse presenta i martiri mentre intercedono per coloro che soffrono ingiustizia sulla terra (cfr 6,9-11), solidali con questo mondo in cammino. Alcuni santi, prima di morire, consolavano i propri cari promettendo che sarebbero stati loro vicini per aiutarli. Santa Teresa di Lisieux sentiva di voler continuare a fare del bene dal Cielo.[287] San Domenico affermava che «sarebbe stato più utile dopo la morte, […] più potente nell’ottenere grazie».[288] Sono legami di amore,[289] perché «l’unione di coloro che sono in cammino coi fratelli morti nella pace di Cristo non è minimamente spezzata […], è consolidata dalla comunicazione dei beni spirituali».[290]

258. Se accettiamo la morte possiamo prepararci ad essa. La via è crescere nell’amore verso coloro che camminano con noi, fino al giorno in cui «non ci sarà più la morte, né lutto né lamento né affanno» (Ap 21,4). In questo modo ci prepareremo anche a ritrovare i nostri cari che sono morti. Come Gesù restituì a sua madre il figlio che era morto (cfr Lc 7,15), similmente farà con noi. Non sprechiamo energie fermandoci anni e anni nel passato. Quanto meglio viviamo su questa terra, tanto maggiore felicità potremo condividere con i nostri cari nel cielo. Quanto più riusciremo a maturare e a crescere, tanto più potremo portare cose belle al banchetto celeste.

 

CAPITOLO SETTIMO

RAFFORZARE L’EDUCAZIONE DEI FIGLI

259. I genitori incidono sempre sullo sviluppo morale dei loro figli, in bene e in male. Di conseguenza, la cosa migliore è che accettino questa responsabilità inevitabile e la realizzino in maniera cosciente, entusiasta, ragionevole e appropriata. Poiché questa funzione educativa delle famiglie è così importante ed è diventata molto complessa, desidero trattenermi in modo speciale su questo punto.

Dove sono i figli?

260. La famiglia non può rinunciare ad essere luogo di sostegno, di accompagnamento, di guida, anche se deve reinventare i suoi metodi e trovare nuove risorse. Ha bisogno di prospettare a che cosa voglia esporre i propri figli. A tale scopo non deve evitare di domandarsi chi sono quelli che si occupano di dare loro divertimento e intrattenimento, quelli che entrano nelle loro abitazioni attraverso gli schermi, quelli a cui li affidano per guidarli nel loro tempo libero. Soltanto i momenti che passiamo con loro, parlando con semplicità e affetto delle cose importanti, e le sane possibilità che creiamo perché possano occupare il loro tempo permetteranno di evitare una nociva invasione. C’è sempre bisogno di vigilanza. L’abbandono non fa mai bene. I genitori devono orientare e preparare i bambini e gli adolescenti affinché sappiano affrontare situazioni in cui ci possano essere, per esempio, rischi di aggressioni, di abuso o di tossicodipendenza.

261. Tuttavia l’ossessione non è educativa, e non si può avere un controllo di tutte le situazioni in cui un figlio potrebbe trovarsi a passare. Qui vale il principio per cui «il tempo è superiore allo spazio».[291] Vale a dire, si tratta di generare processi più che dominare spazi. Se un genitore è ossessionato di sapere dove si trova suo figlio e controllare tutti i suoi movimenti, cercherà solo di dominare il suo spazio. In questo modo non lo educherà, non lo rafforzerà, non lo preparerà ad affrontare le sfide. Quello che interessa principalmente è generare nel figlio, con molto amore, processi di maturazione della sua libertà, di preparazione, di crescita integrale, di coltivazione dell’autentica autonomia. Solo così quel figlio avrà in sé stesso gli elementi di cui ha bisogno per sapersi difendere e per agire con intelligenza e accortezza in circostanze difficili. Pertanto il grande interrogativo non è dove si trova fisicamente il figlio, con chi sta in questo momento, ma dove si trova in un senso esistenziale, dove sta posizionato dal punto di vista delle sue convinzioni, dei suoi obiettivi, dei suoi desideri, del suo progetto di vita. Per questo le domande che faccio ai genitori sono: «Cerchiamo di capire “dove” i figli veramente sono nel loro cammino? Dov’è realmente la loro anima, lo sappiamo? E soprattutto: lo vogliamo sapere?».[292]

262. Se la maturità fosse solo lo sviluppo di qualcosa che è già contenuto nel codice genetico, non ci sarebbe molto da fare. La prudenza, il buon giudizio e il buon senso non dipendono da fattori puramente quantitativi di crescita, ma da tutta una catena di elementi che si sintetizzano nell’interiorità della persona; per essere più precisi, al centro della sua libertà. È inevitabile che ogni figlio ci sorprenda con i progetti che scaturiscono da tale libertà, che rompa i nostri schemi, ed è bene che ciò accada. L’educazione comporta il compito di promuovere libertà responsabili, che nei punti di incrocio sappiano scegliere con buon senso e intelligenza; persone che comprendano senza riserve che la loro vita e quella della loro comunità è nelle loro mani e che questa libertà è un dono immenso.

La formazione etica dei figli

263. Anche se i genitori hanno bisogno della scuola per assicurare un’istruzione di base ai propri figli, non possono mai delegare completamente la loro formazione morale. Lo sviluppo affettivo ed etico di una persona richiede un’esperienza fondamentale: credere che i propri genitori sono degni di fiducia. Questo costituisce una responsabilità educativa: con l’affetto e la testimonianza generare fiducia nei figli, ispirare in essi un amorevole rispetto. Quando un figlio non sente più di essere prezioso per i suoi genitori nonostante sia imperfetto, o non percepisce che loro nutrono una preoccupazione sincera per lui, questo crea ferite profonde che causano molte difficoltà nella sua maturazione. Questa assenza, questo abbandono affettivo, provoca un dolore più profondo di una eventuale correzione che potrebbe ricevere per una cattiva azione.

264. Il compito dei genitori comprende una educazione della volontà e uno sviluppo di buone abitudini e di inclinazioni affettive a favore del bene. Questo implica che si presentino come desiderabili comportamenti da imparare e inclinazioni da far maturare. Ma si tratta sempre di un processo che va dall’imperfezione alla maggiore pienezza. Il desiderio di adattarsi alla società o l’abitudine di rinunciare a una soddisfazione immediata per adattarsi a una norma e assicurarsi una buona convivenza, è già in sé stesso un valore iniziale che crea disposizioni per elevarsi poi verso valori più alti. La formazione morale dovrebbe realizzarsi sempre con metodi attivi e con un dialogo educativo che coinvolga la sensibilità e il linguaggio proprio dei figli. Inoltre, questa formazione si deve attuare in modo induttivo, in modo che il figlio possa arrivare a scoprire da sé l’importanza di determinati valori, principi e norme, invece di imporgliele come verità indiscutibili.

265. Per agire bene non basta “giudicare in modo adeguato” o sapere con chiarezza che cosa si deve fare, benché ciò sia prioritario. Molte volte siamo incoerenti con le nostre convinzioni personali, persino quando esse sono solide. Per quanto la coscienza ci detti un determinato giudizio morale, a volte hanno più potere altre cose che ci attraggono, se non abbiamo acquisito che il bene colto dalla mente si radichi in noi come profonda inclinazione affettiva, come gusto per il bene che pesi più di altre attrattive e che ci faccia percepire che quanto abbiamo colto come bene lo è anche “per noi” qui ed ora. Una formazione etica efficace implica il mostrare alla persona fino a che punto convenga a lei stessa agire bene. Oggi è spesso inefficace chiedere qualcosa che esiga sforzo e rinunce, senza mostrare chiaramente il bene che con ciò si potrebbe raggiungere.

266. È necessario maturare delle abitudini. Anche le consuetudini acquisite da bambini hanno una funzione positiva, permettendo che i grandi valori interiorizzati si traducano in comportamenti esterni sani e stabili. Qualcuno può avere sentimenti socievoli e una buona disposizione verso gli altri, ma se per molto tempo non si è abituato per l’insistenza degli adulti a dire “per favore”, “permesso”, “grazie”, la sua buona disposizione interiore non si tradurrà facilmente in queste espressioni. Il rafforzamento della volontà e la ripetizione di determinate azioni costruiscono la condotta morale, e senza la ripetizione cosciente, libera e apprezzata di certi comportamenti buoni non si porta a termine l’educazione a tale condotta. Le motivazioni, o l’attrazione che proviamo verso un determinato valore, non diventano virtù senza questi atti adeguatamente motivati.

267. La libertà è qualcosa di grandioso, ma possiamo perderla. L’educazione morale è un coltivare la libertà mediante proposte, motivazioni, applicazioni pratiche, stimoli, premi, esempi, modelli, simboli, riflessioni, esortazioni, revisioni del modo di agire e dialoghi che aiutino le persone a sviluppare quei principi interiori stabili che possono muovere a compiere spontaneamente il bene. La virtù è una convinzione che si è trasformata in un principio interno e stabile dell’agire. La vita virtuosa, pertanto, costruisce la libertà, la fortifica e la educa, evitando che la persona diventi schiava di inclinazioni compulsive disumanizzanti e antisociali. Infatti la dignità umana stessa esige che ognuno «agisca secondo scelte consapevoli e libere, mosso cioè e determinato da convinzioni personali».[293]

Il valore della sanzione come stimolo

268. Ugualmente, è indispensabile sensibilizzare il bambino e l’adolescente affinché si renda conto che le cattive azioni hanno delle conseguenze. Occorre risvegliare la capacità di porsi nei panni dell’altro e di pentirsi per la sua sofferenza quando gli si è fatto del male. Alcune sanzioni – ai comportamenti antisociali aggressivi – possono conseguire in parte questa finalità. È importante orientare il bambino con fermezza a chiedere perdono e a riparare il danno causato agli altri. Quando il percorso educativo mostra i suoi frutti in una maturazione della libertà personale, il figlio stesso a un certo punto inizierà a riconoscere con gratitudine che è stato un bene per lui crescere in una famiglia e anche sopportare le esigenze imposte da tutto il processo formativo.

269. La correzione è uno stimolo quando al tempo stesso si apprezzano e si riconoscono gli sforzi e quando il figlio scopre che i suoi genitori mantengono viva una paziente fiducia. Un bambino corretto con amore si sente considerato, percepisce che è qualcuno, avverte che i suoi genitori riconoscono le sue potenzialità. Questo non richiede che i genitori siano immacolati, ma che sappiano riconoscere con umiltà i propri limiti e mostrino il loro personale sforzo di essere migliori. Ma una testimonianza di cui i figli hanno bisogno da parte dei genitori è che non si lascino trasportare dall’ira. Il figlio che commette una cattiva azione, deve essere corretto, ma mai come un nemico o come uno su cui si scarica la propria aggressività. Inoltre un adulto deve riconoscere che alcune azioni cattive sono legate alle fragilità e ai limiti propri dell’età. Per questo sarebbe nocivo un atteggiamento costantemente sanzionatorio, che non aiuterebbe a percepire la differente gravità delle azioni e provocherebbe scoraggiamento e irritazione: «Padri, non esasperate i vostri figli» (Ef 6,4; cfr Col 3,21).

270. La cosa fondamentale è che la disciplina non si tramuti in una mutilazione del desiderio, ma in uno stimolo per andare sempre oltre. Come integrare disciplina e dinamismo interiore? Come far sì che la disciplina sia un limite costruttivo del cammino che deve intraprendere un bambino e non un muro che lo annulli o una dimensione dell’educazione che lo inibisca? Bisogna saper trovare un equilibrio tra due estremi ugualmente nocivi: uno sarebbe pretendere di costruire un mondo a misura dei desideri del figlio, che cresce sentendosi soggetto di diritti ma non di responsabilità. L’altro estremo sarebbe portarlo a vivere senza consapevolezza della sua dignità, della sua identità singolare e dei suoi diritti, torturato dai doveri e sottomesso a realizzare i desideri altrui.

Paziente realismo

271. L’educazione morale implica chiedere a un bambino o a un giovane solo quelle cose che non rappresentino per lui un sacrificio sproporzionato, esigere solo quella dose di sforzo che non provochi risentimento o azioni puramente forzate. Il percorso ordinario è proporre piccoli passi che possano essere compresi, accettati e apprezzati, e comportino una rinuncia proporzionata. Diversamente, per chiedere troppo, non si ottiene nulla. La persona, appena potrà liberarsi dell’autorità, probabilmente smetterà di agire bene.

272. La formazione etica a volte provoca disprezzo dovuto a esperienze di abbandono, di delusione, di carenza affettiva, o ad una cattiva immagine dei genitori. Si proiettano sui valori etici le immagini distorte delle figure del padre e della madre, o le debolezze degli adulti. Per questo bisogna aiutare gli adolescenti a mettere in pratica l’analogia: i valori sono compiuti particolarmente da alcune persone molto esemplari, ma si realizzano anche in modo imperfetto e in diversi gradi. Nello stesso tempo, poiché le resistenze dei giovani sono molto legate a esperienze negative, bisogna aiutarli a percorrere una via di guarigione di questo mondo interiore ferito, così che possano accedere alla comprensione e alla riconciliazione con le persone e con la società.

273. Quando si propongono i valori, bisogna procedere a poco a poco, progredire in modi diversi a seconda dell’età e delle possibilità concrete delle persone, senza pretendere di applicare metodologie rigide e immutabili. I contributi preziosi della psicologia e delle scienze dell’educazione mostrano che occorre un processo graduale nell’acquisizione di cambiamenti di comportamento, ma anche che la libertà ha bisogno di essere incanalata e stimolata, perché abbandonata a sé stessa non può garantire la propria maturazione. La libertà situata, reale, è limitata e condizionata. Non è una pura capacità di scegliere il bene con totale spontaneità. Non sempre si distingue adeguatamente tra atto “volontario” e atto “libero”. Qualcuno può volere qualcosa di malvagio con una grande forza di volontà, ma a causa di una passione irresistibile o di una cattiva educazione. In tal caso, la sua decisione è fortemente volontaria, non contraddice l’inclinazione del suo volere, ma non è libera, perché le risulta quasi impossibile non scegliere quel male. È ciò che accade con un dipendente compulsivo dalla droga. Quando la desidera lo fa con tutte le sue forze, ma è talmente condizionato che per il momento non è capace di prendere una decisione diversa. Pertanto la sua decisione è volontaria, ma non libera. Non ha senso “lasciare che scelga con libertà”, poiché di fatto non può scegliere, ed esporlo alla droga non fa altro che aumentare la dipendenza. Ha bisogno dell’aiuto degli altri e di un percorso educativo.

La vita familiare come contesto educativo

274. La famiglia è la prima scuola dei valori umani, dove si impara il buon uso della libertà. Ci sono inclinazioni maturate nell’infanzia che impregnano il profondo di una persona e permangono per tutta la vita come un’emozione favorevole nei confronti di un valore o come un rifiuto spontaneo di determinati comportamenti. Molte persone agiscono per tutta la vita in una certa maniera perché considerano valido quel modo di agire che hanno assimilato dall’infanzia, come per osmosi: “A me hanno insegnato così”; “questo è ciò che mi hanno inculcato”. Nell’ambito familiare si può anche imparare a discernere in modo critico i messaggi dei vari mezzi di comunicazione. Purtroppo, molte volte alcuni programmi televisivi o alcune forme di pubblicità incidono negativamente e indeboliscono valori ricevuti nella vita familiare.

275. Nell’epoca attuale, in cui regnano l’ansietà e la fretta tecnologica, compito importantissimo delle famiglie è educare alla capacità di attendere. Non si tratta di proibire ai ragazzi di giocare con i dispositivi elettronici, ma di trovare il modo di generare in loro la capacità di differenziare le diverse logiche e di non applicare la velocità digitale a ogni ambito della vita. Rimandare non è negare il desiderio, ma differire la sua soddisfazione. Quando i bambini o gli adolescenti non sono educati ad accettare che alcune cose devono aspettare, diventano prepotenti, sottomettono tutto alla soddisfazione delle proprie necessità immediate e crescono con il vizio del “tutto e subito”. Questo è un grande inganno che non favorisce la libertà, ma la intossica. Invece, quando si educa ad imparare a posporre alcune cose e ad aspettare il momento adatto, si insegna che cosa significa essere padrone di sé stesso, autonomo davanti ai propri impulsi. Così, quando il bambino sperimenta che può farsi carico di sé stesso, arricchisce la propria autostima. Al tempo stesso, questo gli insegna a rispettare la libertà degli altri. Naturalmente ciò non significa pretendere dai bambini che agiscano come adulti, ma nemmeno bisogna disprezzare la loro capacità di crescere nella maturazione di una libertà responsabile. In una famiglia sana, questo apprendistato si attua in maniera ordinaria attraverso le esigenze della convivenza.

276. La famiglia è l’ambito della socializzazione primaria, perché è il primo luogo in cui si impara a collocarsi di fronte all’altro, ad ascoltare, a condividere, a sopportare, a rispettare, ad aiutare, a convivere. Il compito educativo deve suscitare il sentimento del mondo e della società come “ambiente familiare”, è un’educazione al saper “abitare”, oltre i limiti della propria casa. Nel contesto familiare si insegna a recuperare la prossimità, il prendersi cura, il saluto. Lì si rompe il primo cerchio del mortale egoismo per riconoscere che viviamo insieme ad altri, con altri, che sono degni della nostra attenzione, della nostra gentilezza, del nostro affetto. Non c’è legame sociale senza questa prima dimensione quotidiana, quasi microscopica: lo stare insieme nella prossimità, incrociandoci in diversi momenti della giornata, preoccupandoci di quello che interessa tutti, soccorrendoci a vicenda nelle piccole cose quotidiane. La famiglia deve inventare ogni giorno nuovi modi di promuovere il riconoscimento reciproco.

277. Nell’ambiente familiare si possono anche reimpostare le abitudini di consumo per provvedere insieme alla casa comune: «La famiglia è il soggetto protagonista di un’ecologia integrale, perché è il soggetto sociale primario, che contiene al proprio interno i due principi-base della civiltà umana sulla terra: il principio di comunione e il principio di fecondità».[294] Ugualmente, i momenti difficili e duri della vita familiare possono essere molto educativi. È ciò che accade, per esempio, quando sopraggiunge una malattia, perché «di fronte alla malattia, anche in famiglia sorgono difficoltà, a causa della debolezza umana. Ma, in genere, il tempo della malattia fa crescere la forza dei legami familiari. […] Un’educazione che tiene al riparo dalla sensibilità per la malattia umana, inaridisce il cuore. E fa sì che i ragazzi siano “anestetizzati” verso la sofferenza altrui, incapaci di confrontarsi con la sofferenza e di vivere l’esperienza del limite».[295]

278. L’incontro educativo tra genitori e figli può essere facilitato o compromesso dalle tecnologie della comunicazione e del divertimento, sempre più sofisticate. Quando sono ben utilizzate possono essere utili per collegare i membri della famiglia malgrado la distanza. I contatti possono essere frequenti e aiutare a risolvere difficoltà.[296] Deve però essere chiaro che non sostituiscono né rimpiazzano la necessità del dialogo più personale e profondo che richiede il contatto fisico, o almeno, la voce dell’altra persona. Sappiamo che a volte questi mezzi allontanano invece di avvicinare, come quando nell’ora del pasto ognuno è concentrato sul suo telefono mobile, o come quando uno dei coniugi si addormenta aspettando l’altro, che passa ore alle prese con qualche dispositivo elettronico. In famiglia, anche questo dev’essere motivo di dialogo e di accordi, che permettano di dare priorità all’incontro dei suoi membri senza cadere in divieti insensati. Comunque, non si possono ignorare i rischi delle nuove forme di comunicazione per i bambini e gli adolescenti, che a volte ne sono resi abulici, scollegati dal mondo reale. Questo “autismo tecnologico” li espone più facilmente alla manipolazione di quanti cercano di entrare nella loro intimità con interessi egoistici.

279. Non è bene neppure che i genitori diventino esseri onnipotenti per i propri figli, che potrebbero aver fiducia solo in loro, perché così impediscono un adeguato processo di socializzazione e di maturazione affettiva. Per rendere efficace il prolungamento della paternità e della maternità verso una realtà più ampia, «le comunità cristiane sono chiamate ad offrire sostegno alla missione educativa delle famiglie»,[297] in modo particolare attraverso la catechesi di iniziazione. Per favorire un’educazione integrale abbiamo bisogno di «ravvivare l’alleanza tra la famiglie e la comunità cristiana».[298] Il Sinodo ha voluto evidenziare l’importanza delle scuole cattoliche, che «svolgono una funzione vitale nell’assistere i genitori nel loro dovere di educare i figli. […] Le scuole cattoliche dovrebbero essere incoraggiate nella loro missione di aiutare gli alunni a crescere come adulti maturi che possono vedere il mondo attraverso lo sguardo di amore di Gesù e che comprendono la vita come una chiamata a servire Dio».[299] In tal senso, «vanno affermati con decisione la libertà della Chiesa di insegnare la propria dottrina e il diritto all’obiezione di coscienza da parte degli educatori».[300]

Sì all’educazione sessuale

280. Il Concilio Vaticano II prospettava la necessità di «una positiva e prudente educazione sessuale» che raggiungesse i bambini e gli adolescenti «man mano che cresce la loro età» e «tenuto conto del progresso della psicologia, della pedagogia e della didattica».[301] Dovremmo domandarci se le nostre istituzioni educative hanno assunto questa sfida. È difficile pensare l’educazione sessuale in un’epoca in cui si tende a banalizzare e impoverire la sessualità. Si potrebbe intenderla solo nel quadro di una educazione all’amore, alla reciproca donazione. In tal modo il linguaggio della sessualità non si vede tristemente impoverito, ma illuminato. L’impulso sessuale può essere coltivato in un percorso di conoscenza di sé e nello sviluppo di una capacità di dominio di sé, che possano aiutare a far emergere capacità preziose di gioia e di incontro amoroso.

281. L’educazione sessuale offre informazione, ma senza dimenticare che i bambini e i giovani non hanno raggiunto una maturità piena. L’informazione deve arrivare nel momento appropriato e in un modo adatto alla fase che vivono. Non serve riempirli di dati senza lo sviluppo di un senso critico davanti a una invasione di proposte, davanti alla pornografia senza controllo e al sovraccarico di stimoli che possono mutilare la sessualità. I giovani devono potersi rendere conto che sono bombardati da messaggi che non cercano il loro bene e la loro maturità. Occorre aiutarli a riconoscere e a cercare le influenze positive, nel tempo stesso in cui prendono le distanze da tutto ciò che deforma la loro capacità di amare. Ugualmente, dobbiamo accettare che «il bisogno di un nuovo e più adeguato linguaggio si presenta innanzitutto nel momento di introdurre i bambini e gli adolescenti al tema della sessualità».[302]

282. Un’educazione sessuale che custodisca un sano pudore ha un valore immenso, anche se oggi alcuni ritengono che sia una cosa di altri tempi. È una difesa naturale della persona che protegge la propria interiorità ed evita di trasformarsi in un puro oggetto. Senza il pudore, possiamo ridurre l’affetto e la sessualità a ossessioni che ci concentrano solo sulla genitalità, su morbosità che deformano la nostra capacità di amare e su diverse forme di violenza sessuale che ci portano ad essere trattati in modo inumano o a danneggiare gli altri.

283. Frequentemente l’educazione sessuale si concentra sull’invito a “proteggersi”, cercando un “sesso sicuro”. Queste espressioni trasmettono un atteggiamento negativo verso la naturale finalità procreativa della sessualità, come se un eventuale figlio fosse un nemico dal quale doversi proteggere. Così si promuove l’aggressività narcisistica invece dell’accoglienza. È irresponsabile ogni invito agli adolescenti a giocare con i loro corpi e i loro desideri, come se avessero la maturità, i valori, l’impegno reciproco e gli obiettivi propri del matrimonio. Così li si incoraggia allegramente ad utilizzare l’altra persona come oggetto di esperienze per compensare carenze e grandi limiti. E’ importante invece insegnare un percorso sulle diverse espressioni dell’amore, sulla cura reciproca, sulla tenerezza rispettosa, sulla comunicazione ricca di senso. Tutto questo, infatti, prepara ad un dono di sé integro e generoso che si esprimerà, dopo un impegno pubblico, nell’offerta dei corpi. L’unione sessuale nel matrimonio apparirà così come segno di un impegno totalizzante, arricchito da tutto il cammino precedente.

284. Non bisogna ingannare i giovani portandoli a confondere i piani: l’attrazione «crea, sul momento, un’illusione di unione, eppure senza amore questa “unione” lascia due esseri estranei e divisi come prima».[303] Il linguaggio del corpo richiede il paziente apprendistato che permette di interpretare ed educare i propri desideri per donarsi veramente. Quando si pretende di donare tutto in un colpo è possibile che non si doni nulla. Una cosa è comprendere le fragilità dell’età o le sue confusioni, altra cosa è incoraggiare gli adolescenti a prolungare l’immaturità del loro modo di amare. Ma chi parla oggi di queste cose? Chi è capace di prendere sul serio i giovani? Chi li aiuta a prepararsi seriamente per un amore grande e generoso? Si prende troppo alla leggera l’educazione sessuale.

285. L’educazione sessuale dovrebbe comprendere anche il rispetto e la stima della differenza, che mostra a ciascuno la possibilità di superare la chiusura nei propri limiti per aprirsi all’accettazione dell’altro. Al di là delle comprensibili difficoltà che ognuno possa vivere, occorre aiutare ad accettare il proprio corpo così come è stato creato, perché «una logica di dominio sul proprio corpo si trasforma in una logica a volte sottile di dominio sul creato […] Anche apprezzare il proprio corpo nella sua femminilità o mascolinità è necessario per poter riconoscere se stessi nell’incontro con l’altro diverso da sé. In tal modo è possibile accettare con gioia il dono specifico dell’altro o dell’altra, opera di Dio creatore, e arricchirsi reciprocamente».[304] Solo abbandonando la paura verso la differenza si può giungere a liberarsi dall’immanenza del proprio essere e dal fascino per sé stessi. L’educazione sessuale deve aiutare ad accettare il proprio corpo, in modo che la persona non pretenda di «cancellare la differenza sessuale perché non sa più confrontarsi con essa».[305]

286. Non si può nemmeno ignorare che nella configurazione del proprio modo di essere, femminile o maschile, non confluiscono solamente fattori biologici o genetici, ma anche molteplici elementi relativi al temperamento, alla storia familiare, alla cultura, alle esperienze vissute, alla formazione ricevuta, alle influenze di amici, familiari e persone ammirate, e ad altre circostanze concrete che esigono uno sforzo di adattamento. È vero che non possiamo separare ciò che è maschile e femminile dall’opera creata da Dio, che è anteriore a tutte le nostre decisioni ed esperienze e dove ci sono elementi biologici che è impossibile ignorare. Però è anche vero che il maschile e il femminile non sono qualcosa di rigido. Perciò è possibile, ad esempio, che il modo di essere maschile del marito possa adattarsi con flessibilità alla condizione lavorativa della moglie. Farsi carico di compiti domestici o di alcuni aspetti della crescita dei figli non lo rendono meno maschile, né significano un fallimento, un cedimento o una vergogna. Bisogna aiutare i bambini ad accettare come normali questi sani “interscambi”, che non tolgono alcuna dignità alla figura paterna. La rigidità diventa una esagerazione del maschile o del femminile, e non educa i bambini e i giovani alla reciprocità incarnata nelle condizioni reali del matrimonio. Questa rigidità, a sua volta, può impedire lo sviluppo delle capacità di ciascuno, fino al punto di arrivare a considerare come poco maschile dedicarsi all’arte o alla danza e poco femminile svolgere un incarico di guida. Questo, grazie a Dio, è cambiato, ma in alcuni luoghi certe concezioni inadeguate continuano a condizionare la legittima libertà e a mutilare l’autentico sviluppo dell’identità concreta dei figli e delle loro potenzialità.

Trasmettere la fede

287. L’educazione dei figli dev’essere caratterizzata da un percorso di trasmissione della fede, che è reso difficile dallo stile di vita attuale, dagli orari di lavoro, dalla complessità del mondo di oggi, in cui molti, per sopravvivere, sostengono ritmi frenetici.[306] Ciò nonostante, la famiglia deve continuare ad essere il luogo dove si insegna a cogliere le ragioni e la bellezza della fede, a pregare e a servire il prossimo. Questo inizia con il Battesimo, nel quale, come diceva sant’Agostino, le madri che portano i propri figli «cooperano al parto santo».[307] Poi inizia il cammino della crescita di quella vita nuova. La fede è dono di Dio, ricevuto nel Battesimo, e non è il risultato di un’azione umana, però i genitori sono strumento di Dio per la sua maturazione e il suo sviluppo. Perciò «è bello quando le mamme insegnano ai figli piccoli a mandare un bacio a Gesù o alla Vergine. Quanta tenerezza c’è in quel gesto! In quel momento il cuore dei bambini si trasforma in spazio di preghiera».[308] La trasmissione della fede presuppone che i genitori vivano l’esperienza reale di avere fiducia in Dio, di cercarlo, di averne bisogno, perché solo in questo modo «una generazione narra all’altra le tue opere, annuncia le tue imprese» (Sal 144,4) e «il padre farà conoscere ai figli la tua fedeltà» (Is38,19). Questo richiede che invochiamo l’azione di Dio nei cuori, là dove non possiamo arrivare. Il granello di senape, seme tanto piccolo, diventa un grande arbusto (cfr Mt 13,31-32), e così riconosciamo la sproporzione tra l’azione e il suo effetto. Allora sappiamo che non siamo padroni del dono ma suoi amministratori premurosi. Tuttavia il nostro impegno creativo è un contributo che ci permette di collaborare con l’iniziativa di Dio. Pertanto, «si abbia cura di valorizzare le coppie, le madri e i padri, come soggetti attivi della catechesi […]. È di grande aiuto la catechesi familiare, in quanto metodo efficace per formare i giovani genitori e per renderli consapevoli della loro missione come evangelizzatori della propria famiglia».[309]

288. L’educazione alla fede sa adattarsi a ciascun figlio, perché gli strumenti già imparati o le ricette a volte non funzionano. I bambini hanno bisogno di simboli, di gesti, di racconti. Gli adolescenti solitamente entrano in crisi con l’autorità e con le norme, per cui conviene stimolare le loro personali esperienze di fede e offrire loro testimonianze luminose che si impongano per la loro stessa bellezza. I genitori che vogliono accompagnare la fede dei propri figli sono attenti ai loro cambiamenti, perché sanno che l’esperienza spirituale non si impone ma si propone alla loro libertà. È fondamentale che i figli vedano in maniera concreta che per i loro genitori la preghiera è realmente importante. Per questo i momenti di preghiera in famiglia e le espressioni della pietà popolare possono avere maggior forza evangelizzatrice di tutte le catechesi e tutti i discorsi. Desidero esprimere in modo speciale la mia gratitudine a tutte le madri che pregano incessantemente, come faceva santa Monica, per i figli che si sono allontanati da Cristo.

289. L’esercizio di trasmettere ai figli la fede, nel senso di facilitare la sua espressione e la sua crescita, permette che la famiglia diventi evangelizzatrice, e che spontaneamente inizi a trasmetterla a tutti coloro che le si accostano, anche al di fuori dello stesso ambiente familiare. I figli che crescono in famiglie missionarie spesso diventano missionari, se i genitori sanno vivere questo compito in modo tale che gli altri li sentano vicini e amichevoli, e così che i figli crescano in questo stile di relazione con il mondo, senza rinunciare alla propria fede e alle proprie convinzioni. Ricordiamo che Gesù stesso mangiava e beveva con i peccatori (cfr Mc 2,16; Mt 11,19), poteva fermarsi a conversare con la samaritana (cfr Gv 4,7-26), e ricevere Nicodemo di notte (cfr Gv 3,1-21), si lasciava ungere i piedi da una donna prostituta (cfr Lc 7,36-50), e non esitava a toccare i malati (cfr Mc 1,40-45; 7,33). Lo stesso facevano i suoi apostoli, che non erano persone sprezzanti verso gli altri, reclusi in piccoli gruppi di eletti, isolati dalla vita della gente. Mentre le autorità li perseguitavano, loro godevano della simpatia di tutto il popolo (cfr At 2,47; 4,21.33; 5,13).

290. «La famiglia si costituisce così come soggetto dell’azione pastorale attraverso l’annuncio esplicito del Vangelo e l’eredità di molteplici forme di testimonianza: la solidarietà verso i poveri, l’apertura alla diversità delle persone, la custodia del creato, la solidarietà morale e materiale verso le altre famiglie soprattutto verso le più bisognose, l’impegno per la promozione del bene comune anche mediante la trasformazione delle strutture sociali ingiuste, a partire dal territorio nel quale essa vive, praticando le opere di misericordia corporale e spirituale».[310] Ciò va collocato nel quadro della convinzione più preziosa dei cristiani: l’amore del Padre che ci sostiene e ci fa crescere, manifestato nel dono totale di Gesù, vivo tra noi, che ci rende capaci di affrontare uniti tutte le tempeste e tutte le fasi della vita. Anche nel cuore di ogni famiglia bisogna far risuonare il kerygma, in ogni occasione opportuna e non opportuna, perché illumini il cammino. Tutti dovremmo poter dire, a partire dal vissuto nelle nostre famiglie: «Noi abbiamo creduto all’amore che Dio ha per noi» (1 Gv 4,16). Solo a partire da questa esperienza, la pastorale familiare potrà ottenere che le famiglie siano al tempo stesso Chiese domestiche e fermento evangelizzatore nella società.

 

CAPITOLO OTTAVO

ACCOMPAGNARE, DISCERNERE E INTEGRARE LA FRAGILITÀ

291. I Padri sinodali hanno affermato che, nonostante la Chiesa ritenga che ogni rottura del vincolo matrimoniale «è contro la volontà di Dio, è anche consapevole della fragilità di molti suoi figli».[311] Illuminata dallo sguardo di Cristo, «la Chiesa si volge con amore a coloro che partecipano alla sua vita in modo incompiuto, riconoscendo che la grazia di Dio opera anche nelle loro vite dando loro il coraggio per compiere il bene, per prendersi cura con amore l’uno dell’altro ed essere a servizio della comunità nella quale vivono e lavorano».[312] D’altra parte, questo atteggiamento risulta rafforzato nel contesto di un Anno Giubilare dedicato alla misericordia. Benché sempre proponga la perfezione e inviti a una risposta più piena a Dio, «la Chiesa deve accompagnare con attenzione e premura i suoi figli più fragili, segnati dall’amore ferito e smarrito, ridonando fiducia e speranza, come la luce del faro di un porto o di una fiaccola portata in mezzo alla gente per illuminare coloro che hanno smarrito la rotta o si trovano in mezzo alla tempesta».[313] Non dimentichiamo che spesso il lavoro della Chiesa assomiglia a quello di un ospedale da campo.

292. Il matrimonio cristiano, riflesso dell’unione tra Cristo e la sua Chiesa, si realizza pienamente nell’unione tra un uomo e una donna, che si donano reciprocamente in un amore esclusivo e nella libera fedeltà, si appartengono fino alla morte e si aprono alla trasmissione della vita, consacrati dal sacramento che conferisce loro la grazia per costituirsi come Chiesa domestica e fermento di vita nuova per la società. Altre forme di unione contraddicono radicalmente questo ideale, mentre alcune lo realizzano almeno in modo parziale e analogo. I Padri sinodali hanno affermato che la Chiesa non manca di valorizzare gli elementi costruttivi in quelle situazioni che non corrispondono ancora o non più al suo insegnamento sul matrimonio.[314]

La gradualità nella pastorale

293. I Padri hanno anche considerato la situazione particolare di un matrimonio solo civile o, fatte salve le differenze, persino di una semplice convivenza in cui, «quando l’unione raggiunge una notevole stabilità attraverso un vincolo pubblico, è connotata da affetto profondo, da responsabilità nei confronti della prole, da capacità di superare le prove, può essere vista come un’occasione da accompagnare nello sviluppo verso il sacramento del matrimonio».[315] D’altra parte è preoccupante che molti giovani oggi non abbiano fiducia nel matrimonio e convivano rinviando indefinitamente l’impegno coniugale, mentre altri pongono fine all’impegno assunto e immediatamente ne instaurano uno nuovo. Coloro «che fanno parte della Chiesa hanno bisogno di un’attenzione pastorale misericordiosa e incoraggiante».[316] Infatti, ai Pastori compete non solo la promozione del matrimonio cristiano, ma anche «il discernimento pastorale delle situazioni di tanti che non vivono più questa realtà», per «entrare in dialogo pastorale con tali persone al fine di evidenziare gli elementi della loro vita che possono condurre a una maggiore apertura al Vangelo del matrimonio nella sua pienezza».[317] Nel discernimento pastorale conviene «identificare elementi che possono favorire l’evangelizzazione e la crescita umana e spirituale».[318]

294. «La scelta del matrimonio civile o, in diversi casi, della semplice convivenza, molto spesso non è motivata da pregiudizi o resistenze nei confronti dell’unione sacramentale, ma da situazioni culturali o contingenti».[319] In queste situazioni potranno essere valorizzati quei segni di amore che in qualche modo riflettono l’amore di Dio.[320] Sappiamo che «è in continua crescita il numero di coloro che, dopo aver vissuto insieme per lungo tempo, chiedono la celebrazione del matrimonio in chiesa. La semplice convivenza è spesso scelta a causa della mentalità generale contraria alle istituzioni e agli impegni definitivi, ma anche per l’attesa di una sicurezza esistenziale (lavoro e salario fisso). In altri Paesi, infine, le unioni di fatto sono molto numerose, non solo per il rigetto dei valori della famiglia e del matrimonio, ma soprattutto per il fatto che sposarsi è percepito come un lusso, per le condizioni sociali, così che la miseria materiale spinge a vivere unioni di fatto».[321] Comunque, «tutte queste situazioni vanno affrontate in maniera costruttiva, cercando di trasformarle in opportunità di cammino verso la pienezza del matrimonio e della famiglia alla luce del Vangelo. Si tratta di accoglierle e accompagnarle con pazienza e delicatezza».[322] È quello che ha fatto Gesù con la samaritana (cfr Gv 4,1-26): rivolse una parola al suo desiderio di amore vero, per liberarla da tutto ciò che oscurava la sua vita e guidarla alla gioia piena del Vangelo.

295. In questa linea, san Giovanni Paolo II proponeva la cosiddetta “legge della gradualità”, nella consapevolezza che l’essere umano «conosce, ama e realizza il bene morale secondo tappe di crescita».[323] Non è una “gradualità della legge”, ma una gradualità nell’esercizio prudenziale degli atti liberi in soggetti che non sono in condizione di comprendere, di apprezzare o di praticare pienamente le esigenze oggettive della legge. Perché anche la legge è dono di Dio che indica la strada, dono per tutti senza eccezione che si può vivere con la forza della grazia, anche se ogni essere umano «avanza gradualmente con la progressiva integrazione dei doni di Dio e delle esigenze del suo amore definitivo ed assoluto nell’intera vita personale e sociale dell’uomo».[324]

Il discernimento delle situazioni dette “irregolari” [325]

296. Il Sinodo si è riferito a diverse situazioni di fragilità o di imperfezione. Al riguardo, desidero qui ricordare ciò che ho voluto prospettare con chiarezza a tutta la Chiesa perché non ci capiti di sbagliare strada: «due logiche percorrono tutta la storia della Chiesa: emarginare e reintegrare […]. La strada della Chiesa, dal Concilio di Gerusalemme in poi, è sempre quella di Gesù: della misericordia e dell’integrazione […]. La strada della Chiesa è quella di non condannare eternamente nessuno; di effondere la misericordia di Dio a tutte le persone che la chiedono con cuore sincero […]. Perché la carità vera è sempre immeritata, incondizionata e gratuita!».[326] Pertanto, «sono da evitare giudizi che non tengono conto della complessità delle diverse situazioni, ed è necessario essere attenti al modo in cui le persone vivono e soffrono a motivo della loro condizione».[327]

297. Si tratta di integrare tutti, si deve aiutare ciascuno a trovare il proprio modo di partecipare alla comunità ecclesiale, perché si senta oggetto di una misericordia “immeritata, incondizionata e gratuita”. Nessuno può essere condannato per sempre, perché questa non è la logica del Vangelo! Non mi riferisco solo ai divorziati che vivono una nuova unione, ma a tutti, in qualunque situazione si trovino. Ovviamente, se qualcuno ostenta un peccato oggettivo come se facesse parte dell’ideale cristiano, o vuole imporre qualcosa di diverso da quello che insegna la Chiesa, non può pretendere di fare catechesi o di predicare, e in questo senso c’è qualcosa che lo separa dalla comunità (cfr Mt 18,17). Ha bisogno di ascoltare nuovamente l’annuncio del Vangelo e l’invito alla conversione. Ma perfino per questa persona può esserci qualche maniera di partecipare alla vita della comunità: in impegni sociali, in riunioni di preghiera, o secondo quello che la sua personale iniziativa, insieme al discernimento del Pastore, può suggerire. Riguardo al modo di trattare le diverse situazioni dette “irregolari”, i Padri sinodali hanno raggiunto un consenso generale, che sostengo: «In ordine ad un approccio pastorale verso le persone che hanno contratto matrimonio civile, che sono divorziati e risposati, o che semplicemente convivono, compete alla Chiesa rivelare loro la divina pedagogia della grazia nella loro vita e aiutarle a raggiungere la pienezza del piano di Dio in loro»,[328] sempre possibile con la forza dello Spirito Santo.

298. I divorziati che vivono una nuova unione, per esempio, possono trovarsi in situazioni molto diverse, che non devono essere catalogate o rinchiuse in affermazioni troppo rigide senza lasciare spazio a un adeguato discernimento personale e pastorale. Una cosa è una seconda unione consolidata nel tempo, con nuovi figli, con provata fedeltà, dedizione generosa, impegno cristiano, consapevolezza dell’irregolarità della propria situazione e grande difficoltà a tornare indietro senza sentire in coscienza che si cadrebbe in nuove colpe. La Chiesa riconosce situazioni in cui «l’uomo e la donna, per seri motivi – quali, ad esempio, l’educazione dei figli – non possono soddisfare l’obbligo della separazione».[329] C’è anche il caso di quanti hanno fatto grandi sforzi per salvare il primo matrimonio e hanno subito un abbandono ingiusto, o quello di «coloro che hanno contratto una seconda unione in vista dell’educazione dei figli, e talvolta sono soggettivamente certi in coscienza che il precedente matrimonio, irreparabilmente distrutto, non era mai stato valido».[330] Altra cosa invece è una nuova unione che viene da un recente divorzio, con tutte le conseguenze di sofferenza e di confusione che colpiscono i figli e famiglie intere, o la situazione di qualcuno che ripetutamente ha mancato ai suoi impegni familiari. Dev’essere chiaro che questo non è l’ideale che il Vangelo propone per il matrimonio e la famiglia. I Padri sinodali hanno affermato che il discernimento dei Pastori deve sempre farsi «distinguendo adeguatamente»,[331] con uno sguardo che discerna bene le situazioni.[332] Sappiamo che non esistono «semplici ricette».[333]

299. Accolgo le considerazioni di molti Padri sinodali, i quali hanno voluto affermare che «i battezzati che sono divorziati e risposati civilmente devono essere più integrati nelle comunità cristiane nei diversi modi possibili, evitando ogni occasione di scandalo. La logica dell’integrazione è la chiave del loro accompagnamento pastorale, perché non soltanto sappiano che appartengono al Corpo di Cristo che è la Chiesa, ma ne possano avere una gioiosa e feconda esperienza. Sono battezzati, sono fratelli e sorelle, lo Spirito Santo riversa in loro doni e carismi per il bene di tutti. La loro partecipazione può esprimersi in diversi servizi ecclesiali: occorre perciò discernere quali delle diverse forme di esclusione attualmente praticate in ambito liturgico, pastorale, educativo e istituzionale possano essere superate. Essi non solo non devono sentirsi scomunicati, ma possono vivere e maturare come membra vive della Chiesa, sentendola come una madre che li accoglie sempre, si prende cura di loro con affetto e li incoraggia nel cammino della vita e del Vangelo. Questa integrazione è necessaria pure per la cura e l’educazione cristiana dei loro figli, che debbono essere considerati i più importanti».[334]

300. Se si tiene conto dell’innumerevole varietà di situazioni concrete, come quelle che abbiamo sopra menzionato, è comprensibile che non ci si dovesse aspettare dal Sinodo o da questa Esortazione una nuova normativa generale di tipo canonico, applicabile a tutti i casi. E’ possibile soltanto un nuovo incoraggiamento ad un responsabile discernimento personale e pastorale dei casi particolari, che dovrebbe riconoscere che, poiché «il grado di responsabilità non è uguale in tutti i casi»,[335]le conseguenze o gli effetti di una norma non necessariamente devono essere sempre gli stessi.[336] I presbiteri hanno il compito di «accompagnare le persone interessate sulla via del discernimento secondo l’insegnamento della Chiesa e gli orientamenti del Vescovo. In questo processo sarà utile fare un esame di coscienza, tramite momenti di riflessione e di pentimento. I divorziati risposati dovrebbero chiedersi come si sono comportati verso i loro figli quando l’unione coniugale è entrata in crisi; se ci sono stati tentativi di riconciliazione; come è la situazione del partner abbandonato; quali conseguenze ha la nuova relazione sul resto della famiglia e la comunità dei fedeli; quale esempio essa offre ai giovani che si devono preparare al matrimonio. Una sincera riflessione può rafforzare la fiducia nella misericordia di Dio che non viene negata a nessuno».[337] Si tratta di un itinerario di accompagnamento e di discernimento che «orienta questi fedeli alla presa di coscienza della loro situazione davanti a Dio. Il colloquio col sacerdote, in foro interno, concorre alla formazione di un giudizio corretto su ciò che ostacola la possibilità di una più piena partecipazione alla vita della Chiesa e sui passi che possono favorirla e farla crescere. Dato che nella stessa legge non c’è gradualità (cfr Familiaris consortio, 34), questo discernimento non potrà mai prescindere dalle esigenze di verità e di carità del Vangelo proposte dalla Chiesa. Perché questo avvenga, vanno garantite le necessarie condizioni di umiltà, riservatezza, amore alla Chiesa e al suo insegnamento, nella ricerca sincera della volontà di Dio e nel desiderio di giungere ad una risposta più perfetta ad essa».[338] Questi atteggiamenti sono fondamentali per evitare il grave rischio di messaggi sbagliati, come l’idea che qualche sacerdote possa concedere rapidamente “eccezioni”, o che esistano persone che possano ottenere privilegi sacramentali in cambio di favori. Quando si trova una persona responsabile e discreta, che non pretende di mettere i propri desideri al di sopra del bene comune della Chiesa, con un Pastore che sa riconoscere la serietà della questione che sta trattando, si evita il rischio che un determinato discernimento porti a pensare che la Chiesa sostenga una doppia morale.

Le circostanze attenuanti nel discernimento pastorale

301. Per comprendere in modo adeguato perché è possibile e necessario un discernimento speciale in alcune situazioni dette “irregolari”, c’è una questione di cui si deve sempre tenere conto, in modo che mai si pensi che si pretenda di ridurre le esigenze del Vangelo. La Chiesa possiede una solida riflessione circa i condizionamenti e le circostanze attenuanti. Per questo non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta “irregolare” vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante. I limiti non dipendono semplicemente da una eventuale ignoranza della norma. Un soggetto, pur conoscendo bene la norma, può avere grande difficoltà nel comprendere «valori insiti nella norma morale»[339] o si può trovare in condizioni concrete che non gli permettano di agire diversamente e di prendere altre decisioni senza una nuova colpa. Come si sono bene espressi i Padri sinodali, «possono esistere fattori che limitano la capacità di decisione».[340] Già san Tommaso d’Aquino riconosceva che qualcuno può avere la grazia e la carità, ma senza poter esercitare bene qualcuna delle virtù,[341] in modo che anche possedendo tutte le virtù morali infuse, non manifesta con chiarezza l’esistenza di qualcuna di esse, perché l’agire esterno di questa virtù trova difficoltà: «Si dice che alcuni santi non hanno certe virtù, date le difficoltà che provano negli atti di esse, […] sebbene essi abbiano l’abito di tutte le virtù».[342]

302. Riguardo a questi condizionamenti il Catechismo della Chiesa Cattolica si esprime in maniera decisiva: «L’imputabilità e la responsabilità di un’azione possono essere diminuite o annullate dall’ignoranza, dall’inavvertenza, dalla violenza, dal timore, dalle abitudini, dagli affetti smodati e da altri fattori psichici oppure sociali».[343] In un altro paragrafo fa riferimento nuovamente a circostanze che attenuano la responsabilità morale, e menziona, con grande ampiezza, l’immaturità affettiva, la forza delle abitudini contratte, lo stato di angoscia o altri fattori psichici o sociali.[344] Per questa ragione, un giudizio negativo su una situazione oggettiva non implica un giudizio sull’imputabilità o sulla colpevolezza della persona coinvolta.[345] Nel contesto di queste convinzioni, considero molto appropriato quello che hanno voluto sostenere molti Padri sinodali: «In determinate circostanze le persone trovano grandi difficoltà ad agire in modo diverso. […] Il discernimento pastorale, pur tenendo conto della coscienza rettamente formata delle persone, deve farsi carico di queste situazioni. Anche le conseguenze degli atti compiuti non sono necessariamente le stesse in tutti i casi».[346]

303. A partire dal riconoscimento del peso dei condizionamenti concreti, possiamo aggiungere che la coscienza delle persone dev’essere meglio coinvolta nella prassi della Chiesa in alcune situazioni che non realizzano oggettivamente la nostra concezione del matrimonio. Naturalmente bisogna incoraggiare la maturazione di una coscienza illuminata, formata e accompagnata dal discernimento responsabile e serio del Pastore, e proporre una sempre maggiore fiducia nella grazia. Ma questa coscienza può riconoscere non solo che una situazione non risponde obiettivamente alla proposta generale del Vangelo; può anche riconoscere con sincerità e onestà ciò che per il momento è la risposta generosa che si può offrire a Dio, e scoprire con una certa sicurezza morale che quella è la donazione che Dio stesso sta richiedendo in mezzo alla complessità concreta dei limiti, benché non sia ancora pienamente l’ideale oggettivo. In ogni caso, ricordiamo che questo discernimento è dinamico e deve restare sempre aperto a nuove tappe di crescita e a nuove decisioni che permettano di realizzare l’ideale in modo più pieno.

Le norme e il discernimento

304. È meschino soffermarsi a considerare solo se l’agire di una persona risponda o meno a una legge o a una norma generale, perché questo non basta a discernere e ad assicurare una piena fedeltà a Dio nell’esistenza concreta di un essere umano. Prego caldamente che ricordiamo sempre ciò che insegna san Tommaso d’Aquino e che impariamo ad assimilarlo nel discernimento pastorale: «Sebbene nelle cose generali vi sia una certa necessità, quanto più si scende alle cose particolari, tanto più si trova indeterminazione. […] In campo pratico non è uguale per tutti la verità o norma pratica rispetto al particolare, ma soltanto rispetto a ciò che è generale; e anche presso quelli che accettano nei casi particolari una stessa norma pratica, questa non è ugualmente conosciuta da tutti. […] E tanto più aumenta l’indeterminazione quanto più si scende nel particolare».[347] È vero che le norme generali presentano un bene che non si deve mai disattendere né trascurare, ma nella loro formulazione non possono abbracciare assolutamente tutte le situazioni particolari. Nello stesso tempo occorre dire che, proprio per questa ragione, ciò che fa parte di un discernimento pratico davanti ad una situazione particolare non può essere elevato al livello di una norma. Questo non solo darebbe luogo a una casuistica insopportabile, ma metterebbe a rischio i valori che si devono custodire con speciale attenzione.[348]

305. Pertanto, un Pastore non può sentirsi soddisfatto solo applicando leggi morali a coloro che vivono in situazioni “irregolari”, come se fossero pietre che si lanciano contro la vita delle persone. È il caso dei cuori chiusi, che spesso si nascondono perfino dietro gli insegnamenti della Chiesa «per sedersi sulla cattedra di Mosè e giudicare, qualche volta con superiorità e superficialità, i casi difficili e le famiglie ferite».[349]In questa medesima linea si è pronunciata la Commissione Teologica Internazionale: «La legge naturale non può dunque essere presentata come un insieme già costituito di regole che si impongono a priori al soggetto morale, ma è una fonte di ispirazione oggettiva per il suo processo, eminentemente personale, di presa di decisione».[350] A causa dei condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa.[351] Il discernimento deve aiutare a trovare le strade possibili di risposta a Dio e di crescita attraverso i limiti. Credendo che tutto sia bianco o nero, a volte chiudiamo la via della grazia e della crescita e scoraggiamo percorsi di santificazione che danno gloria a Dio. Ricordiamo che «un piccolo passo, in mezzo a grandi limiti umani, può essere più gradito a Dio della vita esteriormente corretta di chi trascorre i suoi giorni senza fronteggiare importanti difficoltà».[352] La pastorale concreta dei ministri e delle comunità non può mancare di fare propria questa realtà.

306. In qualunque circostanza, davanti a quanti hanno difficoltà a vivere pienamente la legge divina, deve risuonare l’invito a percorrere la via caritatis. La carità fraterna è la prima legge dei cristiani (cfr Gv 15,12; Gal 5,14). Non dimentichiamo la promessa delle Scritture: «Soprattutto conservate tra voi una carità fervente, perché la carità copre una moltitudine di peccati» (1 Pt 4,8); «sconta i tuoi peccati con l’elemosina e le tue iniquità con atti di misericordia verso gli afflitti» (Dn 4,24); «l’acqua spegne il fuoco che divampa, l’elemosina espia i peccati» (Sir 3,30). È anche ciò che insegna sant’Agostino: «Come dunque se fossimo in pericolo per un incendio correremmo per prima cosa in cerca dell’acqua, con cui poter spegnere l’incendio, […] ugualmente, se qualche fiamma di peccato si è sprigionata dal fieno delle nostre passioni e perciò siamo scossi, rallegriamoci dell’opportunità che ci viene data di fare un’opera di vera misericordia, come se ci fosse offerta la fontana da cui prender l’acqua per spegnere l’incendio che si era acceso».[353]

La logica della misericordia pastorale

307. Per evitare qualsiasi interpretazione deviata, ricordo che in nessun modo la Chiesa deve rinunciare a proporre l’ideale pieno del matrimonio, il progetto di Dio in tutta la sua grandezza: «I giovani battezzati vanno incoraggiati a non esitare dinanzi alla ricchezza che ai loro progetti di amore procura il sacramento del matrimonio, forti del sostegno che ricevono dalla grazia di Cristo e dalla possibilità di partecipare pienamente alla vita della Chiesa».[354] La tiepidezza, qualsiasi forma di relativismo, o un eccessivo rispetto al momento di proporlo, sarebbero una mancanza di fedeltà al Vangelo e anche una mancanza di amore della Chiesa verso i giovani stessi. Comprendere le situazioni eccezionali non implica mai nascondere la luce dell’ideale più pieno né proporre meno di quanto Gesù offre all’essere umano. Oggi, più importante di una pastorale dei fallimenti è lo sforzo pastorale per consolidare i matrimoni e così prevenire le rotture.

308. Tuttavia, dalla nostra consapevolezza del peso delle circostanze attenuanti – psicologiche, storiche e anche biologiche – ne segue che «senza sminuire il valore dell’ideale evangelico, bisogna accompagnare con misericordia e pazienza le possibili tappe di crescita delle persone che si vanno costruendo giorno per giorno», lasciando spazio alla «misericordia del Signore che ci stimola a fare il bene possibile».[355] Comprendo coloro che preferiscono una pastorale più rigida che non dia luogo ad alcuna confusione. Ma credo sinceramente che Gesù vuole una Chiesa attenta al bene che lo Spirito sparge in mezzo alla fragilità: una Madre che, nel momento stesso in cui esprime chiaramente il suo insegnamento obiettivo, «non rinuncia al bene possibile, benché corra il rischio di sporcarsi con il fango della strada».[356] I Pastori che propongono ai fedeli l’ideale pieno del Vangelo e la dottrina della Chiesa devono aiutarli anche ad assumere la logica della compassione verso le persone fragili e ad evitare persecuzioni o giudizi troppo duri e impazienti. Il Vangelo stesso ci richiede di non giudicare e di non condannare (cfr Mt 7,1; Lc 6,37). Gesù «aspetta che rinunciamo a cercare quei ripari personali o comunitari che ci permettono di mantenerci a distanza dal nodo del dramma umano, affinché accettiamo veramente di entrare in contatto con l’esistenza concreta degli altri e conosciamo la forza della tenerezza. Quando lo facciamo, la vita ci si complica sempre meravigliosamente».[357]

309. È provvidenziale che queste riflessioni si sviluppino nel contesto di un Anno Giubilare dedicato alla misericordia, perché anche davanti alle più diverse situazioni che interessano la famiglia, «la Chiesa ha la missione di annunciare la misericordia di Dio, cuore pulsante del Vangelo, che per mezzo suo deve raggiungere il cuore e la mente di ogni persona. La Sposa di Cristo fa suo il comportamento del Figlio di Dio che a tutti va incontro senza escludere nessuno».[358] Sa bene che Gesù stesso si presenta come Pastore di cento pecore, non di novantanove. Le vuole tutte. A partire da questa consapevolezza, si renderà possibile che «a tutti, credenti e lontani, possa giungere il balsamo della misericordia come segno del Regno di Dio già presente in mezzo a noi».[359]

310. Non possiamo dimenticare che «la misericordia non è solo l’agire del Padre, ma diventa il criterio per capire chi sono i suoi veri figli. Insomma, siamo chiamati a vivere di misericordia, perché a noi per primi è stata usata misericordia».[360] Non è una proposta romantica o una risposta debole davanti all’amore di Dio, che sempre vuole promuovere le persone, poiché «l’architrave che sorregge la vita della Chiesa è la misericordia. Tutto della sua azione pastorale dovrebbe essere avvolto dalla tenerezza con cui si indirizza ai credenti; nulla del suo annuncio e della sua testimonianza verso il mondo può essere privo di misericordia».[361] È vero che a volte «ci comportiamo come controllori della grazia e non come facilitatori. Ma la Chiesa non è una dogana, è la casa paterna dove c’è posto per ciascuno con la sua vita faticosa».[362]

311. L’insegnamento della teologia morale non dovrebbe tralasciare di fare proprie queste considerazioni, perché seppure è vero che bisogna curare l’integralità dell’insegnamento morale della Chiesa, si deve sempre porre speciale attenzione nel mettere in evidenza e incoraggiare i valori più alti e centrali del Vangelo,[363] particolarmente il primato della carità come risposta all’iniziativa gratuita dell’amore di Dio. A volte ci costa molto dare spazio nella pastorale all’amore incondizionato di Dio.[364] Poniamo tante condizioni alla misericordia che la svuotiamo di senso concreto e di significato reale, e questo è il modo peggiore di annacquare il Vangelo. È vero, per esempio, che la misericordia non esclude la giustizia e la verità, ma anzitutto dobbiamo dire che la misericordia è la pienezza della giustizia e la manifestazione più luminosa della verità di Dio. Pertanto, conviene sempre considerare «inadeguata qualsiasi concezione teologica che in ultima analisi metta in dubbio l’onnipotenza stessa di Dio, e in particolare la sua misericordia».[365]

312. Questo ci fornisce un quadro e un clima che ci impedisce di sviluppare una morale fredda da scrivania nel trattare i temi più delicati e ci colloca piuttosto nel contesto di un discernimento pastorale carico di amore misericordioso, che si dispone sempre a comprendere, a perdonare, ad accompagnare, a sperare, e soprattutto a integrare. Questa è la logica che deve prevalere nella Chiesa, per «fare l’esperienza di aprire il cuore a quanti vivono nelle più disparate periferie esistenziali».[366] Invito i fedeli che stanno vivendo situazioni complesse ad accostarsi con fiducia a un colloquio con i loro pastori o con laici che vivono dediti al Signore. Non sempre troveranno in essi una conferma delle proprie idee e dei propri desideri, ma sicuramente riceveranno una luce che permetterà loro di comprendere meglio quello che sta succedendo e potranno scoprire un cammino di maturazione personale. E invito i pastori ad ascoltare con affetto e serenità, con il desiderio sincero di entrare nel cuore del dramma delle persone e di comprendere il loro punto di vista, per aiutarle a vivere meglio e a riconoscere il loro posto nella Chiesa.

 

CAPITOLO NONO

SPIRITUALITÀ CONIUGALE E FAMILIARE

313. La carità assume diverse sfumature, a seconda dello stato di vita a cui ciascuno è stato chiamato. Già alcuni decenni fa, il Concilio Vaticano II, a proposito dell’apostolato dei laici, metteva in risalto la spiritualità che scaturisce dalla vita familiare. Affermava che la spiritualità dei laici «deve assumere una sua fisionomia particolare» anche dallo «stato del matrimonio e della famiglia»[367]e che le preoccupazioni familiari non devono essere qualcosa di estraneo al loro stile di vita spirituale.[368] Pertanto vale la pena di fermarci brevemente a descrivere alcune caratteristiche fondamentali di questa spiritualità specifica che si sviluppa nel dinamismo delle relazioni della vita familiare.

Spiritualità della comunione soprannaturale

314. Abbiamo sempre parlato della inabitazione di Dio nel cuore della persona che vive nella sua grazia. Oggi possiamo dire anche che la Trinità è presente nel tempio della comunione matrimoniale. Così come abita nelle lodi del suo popolo (cfr Sal 22,4), vive intimamente nell’amore coniugale che le dà gloria.

315. La presenza del Signore abita nella famiglia reale e concreta, con tutte le sue sofferenze, lotte, gioie e i suoi propositi quotidiani. Quando si vive in famiglia, lì è difficile fingere e mentire, non possiamo mostrare una maschera. Se l’amore anima questa autenticità, il Signore vi regna con la sua gioia e la sua pace. La spiritualità dell’amore familiare è fatta di migliaia di gesti reali e concreti. In questa varietà di doni e di incontri che fanno maturare la comunione, Dio ha la propria dimora. Questa dedizione unisce «valori umani e divini»,[369] perché è piena dell’amore di Dio. In definitiva, la spiritualità matrimoniale è una spiritualità del vincolo abitato dall’amore divino.

316. Una comunione familiare vissuta bene è un vero cammino di santificazione nella vita ordinaria e di crescita mistica, un mezzo per l’unione intima con Dio. Infatti i bisogni fraterni e comunitari della vita familiare sono un’occasione per aprire sempre più il cuore, e questo rende possibile un incontro con il Signore sempre più pieno. La Parola di Dio dice che «chi odia il suo fratello cammina nelle tenebre» (1 Gv 2,11), «rimane nella morte» (1 Gv 3,14) e «non ha conosciuto Dio» (1 Gv 4,8). Il mio predecessore Benedetto XVI ha detto che «chiudere gli occhi di fronte al prossimo rende ciechi anche di fronte a Dio»,[370] e che l’amore è in fondo l’unica luce che «rischiara sempre di nuovo un mondo buio».[371] Solo «se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi» (1 Gv 4,12). Dato che «la persona umana ha una nativa e strutturale dimensione sociale»[372] e «la prima e originaria espressione della dimensione sociale della persona è la coppia e la famiglia»,[373] la spiritualità si incarna nella comunione familiare. Pertanto, coloro che hanno desideri spirituali profondi non devono sentire che la famiglia li allontana dalla crescita nella vita dello Spirito, ma che è un percorso che il Signore utilizza per portarli ai vertici dell’unione mistica.

Uniti in preghiera alla luce della Pasqua

317. Se la famiglia riesce a concentrarsi in Cristo, Egli unifica e illumina tutta la vita familiare. I dolori e i problemi si sperimentano in comunione con la Croce del Signore, e l’abbraccio con Lui permette di sopportare i momenti peggiori. Nei giorni amari della famiglia c’è una unione con Gesù abbandonato che può evitare una rottura. Le famiglie raggiungono a poco a poco, «con la grazia dello Spirito Santo, la loro santità attraverso la vita matrimoniale, anche partecipando al mistero della croce di Cristo, che trasforma le difficoltà e le sofferenze in offerta d’amore».[374] D’altra parte, i momenti di gioia, il riposo o la festa, e anche la sessualità, si sperimentano come una partecipazione alla vita piena della sua Risurrezione. I coniugi danno forma con vari gesti quotidiani a questo «spazio teologale in cui si può sperimentare la presenza mistica del Signore risorto».[375]

318. La preghiera in famiglia è un mezzo privilegiato per esprimere e rafforzare questa fede pasquale.[376] Si possono trovare alcuni minuti ogni giorno per stare uniti davanti al Signore vivo, dirgli le cose che preoccupano, pregare per i bisogni famigliari, pregare per qualcuno che sta passando un momento difficile, chiedergli aiuto per amare, rendergli grazie per la vita e le cose buone, chiedere alla Vergine di proteggerci con il suo manto di madre. Con parole semplici, questo momento di preghiera può fare tantissimo bene alla famiglia. Le diverse espressioni della pietà popolare sono un tesoro di spiritualità per molte famiglie. Il cammino comunitario di preghiera raggiunge il suo culmine nella partecipazione comune all’Eucaristia, soprattutto nel contesto del riposo domenicale. Gesù bussa alla porta della famiglia per condividere con essa la Cena eucaristica (cfr Ap 3,20). Là, gli sposi possono sempre sigillare l’alleanza pasquale che li ha uniti e che riflette l’Alleanza che Dio ha sigillato con l’umanità sulla Croce.[377]L’Eucaristia è il sacramento della Nuova Alleanza in cui si attualizza l’azione redentrice di Cristo (cfr Lc 22,20). Così si notano i legami profondi che esistono tra la vita coniugale e l’Eucaristia.[378] Il nutrimento dell’Eucaristia è forza e stimolo per vivere ogni giorno l’alleanza matrimoniale come «Chiesa domestica».[379]

Spiritualità dell’amore esclusivo e libero

319. Nel matrimonio si vive anche il senso di appartenere completamente a una sola persona. Gli sposi assumono la sfida e l’anelito di invecchiare e consumarsi insieme e così riflettono la fedeltà di Dio. Questa ferma decisione, che segna uno stile di vita, è una «esigenza interiore del patto d’amore coniugale»,[380] perché «colui che non si decide ad amare per sempre, è difficile che possa amare sinceramente un solo giorno».[381] Ma questo non avrebbe significato spirituale se si trattasse solo di una legge vissuta con rassegnazione. E’ un’appartenenza del cuore, là dove solo Dio vede (cfr Mt 5,28). Ogni mattina quando ci si alza, si rinnova davanti a Dio questa decisione di fedeltà, accada quel che accada durante la giornata. E ciascuno, quando va a dormire, aspetta di alzarsi per continuare questa avventura, confidando nell’aiuto del Signore. Così, ogni coniuge è per l’altro segno e strumento della vicinanza del Signore, che non ci lascia soli: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).

320. C’è un punto in cui l’amore della coppia raggiunge la massima liberazione e diventa uno spazio di sana autonomia: quando ognuno scopre che l’altro non è suo, ma ha un proprietario molto più importante, il suo unico Signore. Nessuno può pretendere di possedere l’intimità più personale e segreta della persona amata e solo Lui può occupare il centro della sua vita. Nello stesso tempo, il principio del realismo spirituale fa sì che il coniuge non pretenda che l’altro soddisfi completamente le sue esigenze. E’ necessario che il cammino spirituale di ciascuno – come indicava bene Dietrich Bonhoeffer – lo aiuti a “disilludersi” dell’altro,[382] a smettere di attendere da quella persona ciò che è proprio soltanto dell’amore di Dio. Questo richiede una spogliazione interiore. Lo spazio esclusivo che ciascuno dei coniugi riserva al suo rapporto personale con Dio, non solo permette di sanare le ferite della convivenza, ma anche di trovare nell’amore di Dio il senso della propria esistenza. Abbiamo bisogno di invocare ogni giorno l’azione dello Spirito perché questa libertà interiore sia possibile.

Spiritualità della cura, della consolazione e dello stimolo

321. «I coniugi cristiani sono cooperatori della grazia e testimoni della fede l’uno per l’altro, nei confronti dei figli e di tutti gli altri familiari».[383] Dio li invita a generare e a prendersi cura. Ecco perché la famiglia «è sempre stata il più vicino “ospedale”».[384]Prendiamoci cura, sosteniamoci e stimoliamoci vicendevolmente, e viviamo tutto ciò come parte della nostra spiritualità familiare. La vita di coppia è una partecipazione alla feconda opera di Dio, e ciascuno è per l’altro una permanente provocazione dello Spirito. L’amore di Dio si esprime «attraverso le parole vive e concrete con cui l’uomo e la donna si dicono il loro amore coniugale».[385]Così i due sono tra loro riflessi dell’amore divino che conforta con la parola, lo sguardo, l’aiuto, la carezza, l’abbraccio. Pertanto, «voler formare una famiglia è avere il coraggio di far parte del sogno di Dio, il coraggio di sognare con Lui, il coraggio di costruire con Lui, il coraggio di giocarci con Lui questa storia, di costruire un mondo dove nessuno si senta solo».[386]

322. Tutta la vita della famiglia è un “pascolo” misericordioso. Ognuno, con cura, dipinge e scrive nella vita dell’altro: «La nostra lettera siete voi, lettera scritta nei nostri cuori […] non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente» (2 Cor 3,2-3). Ognuno è un «pescatore di uomini» (Lc 5,10) che nel nome di Gesù getta le reti (cfr Lc 5,5) verso gli altri, o un contadino che lavora in quella terra fresca che sono i suoi cari, stimolando il meglio di loro. La fecondità matrimoniale comporta la promozione, perché «amare una persona è attendere da essa qualcosa di indefinibile, di imprevedibile; è al tempo stesso offrirle in qualche modo il mezzo per rispondere a questa attesa».[387] Questo è un culto a Dio, perché è Lui che ha seminato molte cose buone negli altri nella speranza che le facciamo crescere.

323. E’ una profonda esperienza spirituale contemplare ogni persona cara con gli occhi di Dio e riconoscere Cristo in lei. Questo richiede una disponibilità gratuita che permetta di apprezzare la sua dignità. Si può essere pienamente presenti davanti all’altro se ci si dona senza un perché, dimenticando tutto quello che c’è intorno. Così la persona amata merita tutta l’attenzione. Gesù era un modello, perché quando qualcuno si avvicinava a parlare con Lui, fissava lo sguardo, guardava con amore (cfr Mc 10,21). Nessuno si sentiva trascurato in sua presenza, poiché le sue parole e i suoi gesti erano espressione di questa domanda: «Che cosa vuoi che io faccia per te?» (Mc 10,51).Questo si vive nella vita quotidiana della famiglia. In essa ricordiamo che la persona che vive con noi merita tutto, perché ha una dignità infinita, essendo oggetto dell’immenso amore del Padre. Così fiorisce la tenerezza, in grado di «suscitare nell’altro la gioia di sentirsi amato. Essa si esprime in particolare nel volgersi con attenzione squisita ai limiti dell’altro, specialmente quando emergono in maniera evidente».[388]

324. Sotto l’impulso dello Spirito, il nucleo familiare non solo accoglie la vita generandola nel proprio seno, ma si apre, esce da sé per riversare il proprio bene sugli altri, per prendersene cura e cercare la loro felicità. Questa apertura si esprime particolarmente nell’ospitalità[389], incoraggiata dalla Parola di Dio in modo suggestivo: «Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli»(Eb 13,2). Quando la famiglia accoglie, e va incontro agli altri, specialmente ai poveri e agli abbandonati, è «simbolo, testimonianza, partecipazione della maternità della Chiesa».[390]L’amore sociale, riflesso della Trinità, è in realtà ciò che unifica il senso spirituale della famiglia e la sua missione all’esterno di sé stessa, perché rende presente il kerygma con tutte le sue esigenze comunitarie. La famiglia vive la sua spiritualità peculiare essendo, nello stesso tempo, una Chiesa domestica e una cellula vitale per trasformare il mondo.[391]

* * *

325. Le parole del Maestro (cfr Mt 22,30) e quelle di san Paolo (cfr 1 Cor 7,29-31) sul matrimonio, sono inserite – non casualmente – nella dimensione ultima e definitiva della nostra esistenza, che abbiamo bisogno di recuperare. In tal modo gli sposi potranno riconoscere il senso del cammino che stanno percorrendo. Infatti, come abbiamo ricordato più volte in questa Esortazione, nessuna famiglia è una realtà perfetta e confezionata una volta per sempre, ma richiede un graduale sviluppo della propria capacità di amare. C’è una chiamata costante che proviene dalla comunione piena della Trinità, dall’unione stupenda tra Cristo e la sua Chiesa, da quella bella comunità che è la famiglia di Nazareth e dalla fraternità senza macchia che esiste tra i santi del cielo. E tuttavia, contemplare la pienezza che non abbiamo ancora raggiunto ci permette anche di relativizzare il cammino storico che stiamo facendo come famiglie, per smettere di pretendere dalle relazioni interpersonali una perfezione, una purezza di intenzioni e una coerenza che potremo trovare solo nel Regno definitivo. Inoltre ci impedisce di giudicare con durezza coloro che vivono in condizioni di grande fragilità. Tutti siamo chiamati a tenere viva la tensione verso qualcosa che va oltre noi stessi e i nostri limiti, e ogni famiglia deve vivere in questo stimolo costante. Camminiamo, famiglie, continuiamo a camminare! Quello che ci viene promesso è sempre di più. Non perdiamo la speranza a causa dei nostri limiti, ma neppure rinunciamo a cercare la pienezza di amore e di comunione che ci è stata promessa.

Preghiera alla Santa Famiglia

Gesù, Maria e Giuseppe,
in voi contempliamo
lo splendore del vero amore,
a voi, fiduciosi, ci affidiamo.

Santa Famiglia di Nazaret,
rendi anche le nostre famiglie
luoghi di comunione e cenacoli di preghiera,
autentiche scuole di Vangelo
e piccole Chiese domestiche.

Santa Famiglia di Nazaret,
mai più ci siano nelle famiglie
episodi di violenza, di chiusura e di divisione;
che chiunque sia stato ferito o scandalizzato
venga prontamente confortato e guarito.

Santa Famiglia di Nazaret,
fa’ che tutti ci rendiamo consapevoli
del carattere sacro e inviolabile della famiglia,
della sua bellezza nel progetto di Dio.

Gesù, Maria e Giuseppe,
ascoltateci e accogliete la nostra supplica.
Amen.

Dato a Roma, presso San Pietro, nel Giubileo Straordinario della Misericordia, il 19 marzo, solennità di San Giuseppe, dell’anno 2016, quarto del mio Pontificato.

Francesco


[1] III Assemblea Generale Straordinaria del Sinodo dei Vescovi, Relatio Synodi, 18 ottobre 2014, 2.

[2] XIV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, Relatio finalis, 24 ottobre 2015, 3.

[3] Discorso a conclusione della XIV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi (24 ottobre 2015): L’Osservatore Romano,26-27 ottobre 2015, p. 13; cfr Pontificia Commissione Biblica, Fede e cultura alla luce della Bibbia. Atti della Sessione plenaria 1979 della Pontificia Commissione Biblica, Torino 1981; Conc. Ecum. Vat. II, Cost. Gaudium et spes, 44; Giovanni Paolo II, Lett. enc. Redemptoris missio (7 dicembre 1990), 52: AAS 83 (1991), 300; Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 69.117: AAS 105 (2013), 1049.1068-1069.

[4] Discorso nell’incontro con le famiglie a Santiago di Cuba (22 settembre 2015): L’Osservatore Romano, 24 settembre 2015, p. 7.

[5] Jorge Luis Borges, “Calle desconocida”, en Fervor de Buenos Aires, Buenos Aires 2011, 23 (trad. it.: Fervore di Buenos Aires, Milano 2010, 29).

[6] Omelia nella Messa a Puebla de los Ángeles (28 gennaio 1979), 2: AAS 71 (1979), 184.

[7] Cfr ibid.

[8] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 4: AAS 74 (1982), 84.

[9] Relatio Synodi 2014, 5.

[10] Conferenza Episcopale Spagnola, Matrimonio y familia (6 luglio 1979), 3.16.23.

[11] Relatio finalis 2015, 5.

[12] Relatio Synodi 2014, 5.

[13] Relatio finalis 2015, 8.

[14] Discorso al Congresso degli Stati Uniti d’America (24 settembre 2015): L’Osservatore Romano, 26 settembre 2015, p. 7.

[15] Relatio finalis 2015, 29.

[16] Relatio Synodi 2014, 10.

[17] III Assemblea Generale Straordinaria del Sinodo dei Vescovi, Messaggio, 18 ottobre 2014.

[18] Relatio Synodi 2014, 10.

[19] Relatio finalis 2015, 7.

[20] Ibid., 63.

[21] Conferenza dei Vescovi cattolici della Corea, Towards a culture of life! (15 marzo 2007).

[22] Relatio Synodi 2014, 6.

[23] Pontificio Consiglio per la Famiglia, Carta dei diritti dalla famiglia (22 ottobre 1983), 11.

[24] Cfr Relatio finalis 2015, 11-12.

[25] Pontificio Consiglio per la Famiglia, Carta dei diritti dalla famiglia (22 ottobre 1983), Intr.

[26] Ibid., 9.

[27] Relatio finalis 2015, 14.

[28] Relatio Synodi 2014, 8.

[29] Cfr Relatio finalis 2015, 78.

[30] Relatio Synodi 2014, 8.

[31] Relatio finalis 2015, 23; cfr Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato 2016 (12 settembre 2015): L’Osservatore Romano, 2 ottobre 2015, p. 8.

[32] Relatio finalis 2015, 24.

[33] Ibid., 21.

[34] Ibid., 17.

[35] Ibid., 20.

[36] Cfr ibid., 15.

[37] Discorso conclusivo della XIV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi (24 ottobre 2015): L’Osservatore Romano, 26-27 ottobre 2015, p. 13.

[38] Conferenza Episcopale Argentina, Navega mar adentro (31 maggio 2003), 42.

[39] Conferenza Episcopale Messicana, Que en Cristo Nuestra Paz México tenga vida digna (15 febbraio 2009), 67.

[40] Relatio finalis 2015, 25.

[41] Ibid., 10.

[42] Catechesi (22 aprile 2015):L’Osservatore Romano, 23 aprile 2015, p. 7.

[43] Catechesi (29 aprile 2015):L’Osservatore Romano, 30 aprile 2015, p. 8.

[44] Relatio finalis 2015, 28.

[45] Ibid., 8.

[46] Ibid., 58.

[47] Ibid., 33.

[48] Relatio Synodi 2014, 11.

[49] Conferenza Episcopale Colombiana, A tiempos difíciles, colombianos nuevos (13 febbraio 2003), 3.

[50] Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 35: AAS 105 (2013), 1034.

[51] Ibid., 164: AAS 105 (2013), 1088.

[52] Ibid.

[53] Ibid., 165: AAS 105 (2013), 1089.

[54] Relatio Synodi 2014, 12.

[55] Ibid., 14.

[56] Ibid., 16.

[57] Relatio finalis 2015, 41.

[58] Ibid., 38.

[59] Relatio Synodi 2014, 17.

[60] Relatio finalis 2015, 43.

[61] Relatio Synodi 2014, 18.

[62] Ibid., 19.

[63] Relatio finalis 2015, 38.

[64] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 13: AAS 74 (1982), 94.

[65] Relatio Synodi 2014, 21.

[66] Catechismo della Chiesa Cattolica, 1642.

[67] Ibid.

[68] Catechesi (6 maggio 2015):L’Osservatore Romano(7 maggio 2015), p. 8.

[69] Leone Magno, Epistola Rustico narbonensi episcopo, inquis. IV: PL 54, 1205A; cfr Incmaro di Reims, Epist. 22: PL 126, 142.

[70] Cfr Pio XII, Lett. enc. Mystici Corporis Christi (29 giugno 1943): AAS 35 (1943), 202: «Matrimonio enim quo coniuges sibi invicem sunt ministri gratiae».

[71] Cfr Codice di Diritto Canonico, cc. 1116; 1161-1165; Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, 832; 848-852.

[72] Codice di Diritto Canonico, c. 1055 § 2.

[73] Relatio Synodi 2014, 23.

[74] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 9: AAS 74 (1982), 90.

[75] Relatio finalis 2015, 47.

[76]Ibid.

[77] Omelia nella Santa Messa di chiusura dell’VIII Incontro Mondiale delle famiglie, Filadelfia (27 settembre 2015): L´Osservatore Romano, 28-29 settembre 2015, p. 7.

[78] Relatio finalis 2015, 53-54.

[79] Ibid., 51.

[80] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 48.

[81] Cfr Codice di Diritto Canonico, c. 1055 § 1: «Ad bonum coniugum atque ad prolis generationem et educationem ordinatum».

[82] Catechismo della Chiesa Cattolica, 2360.

[83] Ibid., 1654.

[84] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 48.

[85] Catechismo della Chiesa Cattolica, 2366.

[86] Cfr Paolo VI, Lett. enc. Humanae vitae (25 luglio 1968), 11-12: AAS 60 (1968), 488-489.

[87] Catechismo della Chiesa Cattolica, 2378.

[88] Congregazione per la Dottrina della Fede, Istr. Donum vitae (22 febbraio 1987), II, 8: AAS 80 (1988), 97.

[89] Relatio finalis 2015, 63.

[90] Relatio Synodi 2014, 57.

[91] Ibid., 58.

[92] Ibid., 57.

[93] Relatio finalis 2015, 64.

[94] Relatio Synodi 2014, 60.

[95] Ibid., 61.

[96] Codice di Diritto Canonico, c. 1136; cfr Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, 627.

[97] Pontificio Consiglio per la Famiglia, Sessualità umana: verità e significato (8 dicembre 1995), 23.

[98] Catechesi (20 maggio 2015):L’Osservatore Romano, 21 maggio 2015, p. 8.

[99] Cfr Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 38: AAS 74 (1982), 129.

[100] Cfr Discorso all’Assemblea diocesana di Roma (14 giugno 2015): L’Osservatore Romano, 15-16 giugno 2015, p. 8.

[101] Relatio Synodi 2014, 23.

[102] Relatio finalis 2015, 52.

[103] Ibid., 49-50.

[104] Catechismo della Chiesa Cattolica, 1641.

[105] Cfr Benedetto XVI, Lett. enc. Deus caritas est (25 dicembre 2005), 2: AAS 98 (2006), 218.

[106] Esercizi spirituali, Contemplazione per raggiungere l’amore, 230.

[107] Octavio Paz, La llama doble, Barcelona 1993, 35.

[108] Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae II-II, q. 114, a. 2, ad 1.

[109] Catechesi (13 maggio 2015):L’Osservatore Romano, 14 maggio 2015, p. 8.

[110] Summa Theologiae II-II, q. 27, a. 1, ad 2.

[111] Ibid., a. 1.

[112] Catechesi (13 maggio 2015):L’Osservatore Romano, 14 maggio 2015, p. 8.

[113] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 21: AAS 74 (1982), 106.

[114] Sermone tenuto nella chiesa Battista di Dexter Avenue, Montgomery, Alabama, 17 novembre 1957.

[115] San Tommaso d’Aquino intende l’amore come «vis unitiva» (Summa Theologiae I, q. 20, a. 1, ad 3), riprendendo un’espressione di Dionigi Ps.-Areopagita (De divinis nominibus, IV, 12: PG 3, 709).

[116] Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae II-II, q. 27, a. 2.

[117] Lett. enc. Casti connubii (31 dicembre 1930): AAS 22 (1930), 547-548.

[118] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 13: AAS 74 (1982), 94.

[119] Catechesi (2 aprile 2014):L’Osservatore Romano, 3 aprile 2014, p. 8.

[120] Ibid.

[121] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 9: AAS 74 (1982), 90.

[122] Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentiles, III, 123; cfr Aristotele, Etica Nic., 8, 12 (ed. Bywater, Oxford 1984, 174).

[123] Lett. enc. Lumen fidei (29 giugno 2013), 52: AAS 105 (2013), 590.

[124] De sacramento matrimonii, I, 2: in Id. Disputationes, III, 5, 3 (ed. Giuliano, Napoli 1858, 778).

[125] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 50.

[126] Ibid., 49.

[127] Cfr Summa Theologiae I-II, q. 31, a. 3, ad 3.

[128] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 48.

[129] Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae I-II, q. 26, a. 3.

[130] Ibid., q. 110, a. 1.

[131] Confessioni, VIII, 3, 7: PL 32, 752.

[132] Discorso alle famiglie del mondo in occasione del loro pellegrinaggio a Roma nell’Anno della Fede (26 ottobre 2013):AAS 105 (2013), 980.

[133] Angelus (29 dicembre 2013):L’Osservatore Romano, 30-31 dicembre 2013, p. 7.

[134] Discorso alle famiglie del mondo in occasione del loro pellegrinaggio a Roma nell’Anno della Fede (26 ottobre 2013): AAS 105 (2013), 978.

[135] Summa Theologiae II-II, q. 24, a. 7.

[136] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 48.

[137] Conferenza Episcopale del Cile, La vida y la familia: regalos de Dios para cada uno de nosotros (21 luglio 2014).

[138] Cost. past. Gaudium et spes, 49.

[139] A. Sertillanges, L’amour chrétien, Paris 1920, 174.

[140] Cfr Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae I-II, q. 24, a. 1.

[141] Cfr ibid., q. 59, a. 5.

[142] Lett. enc. Deus caritas est (25 dicembre 2005), 3: AAS 98 (2006), 219-220.

[143] Ibid., 4 : AAS 98 (2006), 220.

[144] Cfr Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae I-II, q. 32, a. 7.

[145] Cfr ibid., II-II, q. 153, a. 2, ad 2: «Abundantia delectationis quae est in actu venereo secundum rationem ordinato, non contrariatur medio virtutis».

[146] Giovanni Paolo II, Catechesi (22 ottobre 1980), 5: Insegnamenti III, 2 (1980), 951.

[147] Ibid., 3.

[148] Id., Catechesi (24 settembre 1980), 4: Insegnamenti III, 2 (1980), 719.

[149] Catechesi (12 novembre 1980), 2: Insegnamenti III, 2 (1980), 1133.

[150] Ibid., 4.

[151] Ibid., 5.

[152] Ibid., 1: 1132.

[153] Catechesi (16 gennaio 1980), 1: Insegnamenti III, 1 (1980), 151.

[154] Josef Pieper, Über die Liebe, München 2014, 174.

[155] Giovanni Paolo II, Lett. enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), 23: AAS 87 (1995), 427.

[156] Paolo VI, Lett. enc. Humanae vitae (25 luglio 1968), 13: AAS 60 (1968), 489.

[157] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 49.

[158] Catechesi (18 giugno 1980), 5: Insegnamenti III, 1 (1980), 1778.

[159] Ibid., 6.

[160] Cfr Catechesi (30 luglio 1980), 1: Insegnamenti III, 2 (1980), 311.

[161] Catechesi (8 aprile 1981), 3: Insegnamenti IV, 1 (1981), 904.

[162] Catechesi (11 agosto 1982), 4: Insegnamenti V, 3 (1982), 205-206.

[163] Lett. enc. Deus caritas est (25 dicembre 2005), 5: AAS 98 (2006), 221.

[164] Ibid., 7.

[165] Relatio finalis 2015, 22.

[166] Catechesi (14 aprile 1982), 1: Insegnamenti V, 1 (1982), 1176.

[167] Glossa in quatuor libros sententiarum Petri Lombardi, IV, XXVI, 2 (Quaracchi 1957, 446).

[168] Giovanni Paolo II, Catechesi (7 aprile 1982), 2: Insegnamenti V, 1 (1982), 1127.

[169] Id., Catechesi (14 aprile 1982), 3: Insegnamenti V, 1 (1982), 1177.

[170] Ibid.

[171] Id., Lett. enc. Redemptor hominis (4 marzo 1979), 10: AAS 71 (1979), 274.

[172] Cfr Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae II-II, q. 27, a. 1.

[173] Pontificio Consiglio per la Famiglia, Famiglia, matrimonio e “unioni di fatto” (26 luglio 2000), 40.

[174] Giovanni Paolo II, Catechesi (31 ottobre 1984), 6: Insegnamenti VII, 2 (1984), 1072.

[175] Benedetto XVI, Lett. enc. Deus caritas est (25 dicembre 2005), 8: AAS 98 (2006), 224.

[176] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 14: AAS 74 (1982), 96.

[177] Catechesi (11 febbraio 2015): L’Osservatore Romano, 12 febbraio 2015, p. 8.

[178] Ibid.

[179] Catechesi (8 aprile 2015): L’Osservatore Romano,9 aprile 2015, p. 8.

[180] Ibid.

[181] Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. Past. Gaudium et spes, 51: «Tutti sappiamo che la vita dell’uomo e il compito di trasmetterla non sono limitati agli orizzonti di questo mondo e non vi trovano né la loro piena dimensione, né il loro pieno senso, ma riguardano il destino eterno degli uomini».

[182] Lettera alla Segretaria generale della Conferenza internazionale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite su popolazione e sviluppo (18 marzo 1994): Insegnamenti XVII, 1 (1994), 750-751.

[183] Giovanni Paolo II, Catechesi (12 marzo 1980), 3: Insegnamenti III, 1 (1980), 543.

[184] Ibid.

[185] Discorso nell’incontro con le famiglie a Manila (16 gennaio 2015):AAS 107 (2015), 176.

[186] Catechesi (11 febbraio 2015):L’Osservatore Romano, 12 febbraio 2015, p. 8.

[187] Catechesi (14 ottobre 2015):L’Osservatore Romano, 15 ottobre 2015, p. 8.

[188] Conferenza dei Vescovi Cattolici dell’Australia, Lett. past. Don’t Mess with Marriage (24 novembre 2015), 11.

[189] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 50.

[190] Giovanni Paolo II, Catechesi (12 marzo 1980), 2: Insegnamenti III, 1 (1980), 542.

[191] Cfr Id. Lett. ap. Mulieris dignitatem (15 agosto 1988), 30-31: AAS 80 (1988), 1727-1729.

[192] Catechesi (7 gennaio 2015):L’Osservatore Romano, 7-8 gennaio 2015, p. 8.

[193] Ibid.

[194] Catechesi (28 gennaio 2015):L’Osservatore Romano, 29 gennaio 2015, p. 8.

[195] Ibid.

[196] Cfr Relatio finalis 2015, 28.

[197] Catechesi (4 febbraio 2015):L’Osservatore Romano, 5 febbraio 2015, p. 8.

[198] Ibid.

[199] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 50.

[200] V Conferenza Generale dell’Episcopato Latino-americano e dei Caraibi, Documento di Aparecida (29 giugno 2007), 457.

[201] Relatio finalis 2015, 65.

[202] Ibid.

[203] Discorso all’incontro con le famiglie a Manila (16 gennaio 2015):AAS 107 (2015), 178.

[204] Mario Benedetti, “Te quiero”, in Poemas de otros, Buenos Aires 1993, 316.

[205] Cfr Catechesi (16 settembre 2015):L’Osservatore Romano, 17 settembre 2015, p. 8.

[206] Catechesi (7 ottobre 2015):L’Osservatore Romano, 8 ottobre 2015, p. 8.

[207] Benedetto XVI, Lett. enc. Deus caritas est (25 dicembre 2005), 14: AAS 98 (2006), 228.

[208] Cfr Relatio finalis 2015, 11.

[209] Catechesi (18 marzo 2015):L’Osservatore Romano, 19 marzo 2015, p. 8.

[210] Catechesi (11 febbraio 2015):L’Osservatore Romano, 12 febbraio 2015, p. 8.

[211] Cfr Relatio finalis 2015, 17-18.

[212] Catechesi (4 marzo 2015):L’Osservatore Romano, 5 marzo 2015, p. 8.

[213] Catechesi (11 marzo 2015):L’Osservatore Romano, 12 marzo 2015, p. 8.

[214] Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 27: AAS 74 (1982), 113.

[215] Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al Forum internazionale sull’invecchiamento attivo (5 settembre 1980), 5: Insegnamenti III, 2 (1980), 539.

[216] Relatio finalis 2015, 18.

[217] Catechesi (4 marzo 2015):L’Osservatore Romano, 5 marzo 2015), p. 8.

[218] Ibid.

[219] Discorso all’Incontro con gli anziani (28 settembre 2014):L’Osservatore Romano,29-30 settembre 2014, p. 7.

[220] Catechesi (18 febbraio 2015):L’Osservatore Romano, 19 febbraio 2015, p. 8.

[221] Ibid.

[222] Ibid.

[223] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 18: AAS 74 (1982), 101.

[224] Catechesi (7 ottobre 2015):L’Osservatore Romano, 8 ottobre 2015, p. 8.

[225] Relatio Synodi 2014, 30.

[226] Ibid., 31.

[227] Relatio finalis 2015, 56.

[228] Ibid., 89.

[229] Relatio Synodi 2014, 32.

[230] Ibid., 33.

[231] Ibid., 38.

[232] Relatio finalis 2015, 77.

[233] Ibid., 61.

[234] Ibid.

[235] Ibid.

[236] Ibid.

[237] Cfr Relatio Synodi 2014, 26.

[238] Ibid., 39.

[239] Conferenza Episcopale Italiana. Commissione episcopale per la famiglia e la vita, Orientamenti pastorali sulla preparazione al matrimonio e alla famiglia (22 ottobre 2012), 1.

[240] Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali, annotazione 2.

[241] Ibid., annotazione 5.

[242] Giovanni Paolo II, Catechesi (27 giugno 1984), 4: Insegnamenti VII, 1 (1984), 1941.

[243] Catechesi (21 ottobre 2015): L’Osservatore Romano,22 ottobre 2015, p. 12.

[244] Conferenza Episcopale del Kenya, Messaggio di Quaresima (18 febbraio 2015).

[245] Cfr Pio XI, Lett. enc. Casti connubii (31 dicembre 1930): AAS 22 (1930), 583.

[246] Giovanni Paolo II, Catechesi (4 luglio 1984), 3.6:Insegnamenti VII, 2 (1984), 9.10.

[247] Relatio finalis 2015, 59.

[248] Ibid., 63.

[249] Cost. past. Gaudium et spes, 50.

[250] Relatio finalis 2015, 63.

[251] Relatio Synodi 2014, 40.

[252] Ibid., 34.

[253] Cantico spirituale B, XXV, 11.

[254] Relatio Synodi 2014, 44.

[255] Relatio finalis 2015, 81.

[256] Ibid., 78.

[257] Catechesi (24 giugno 2015): L’Osservatore Romano,25 giugno 2015, p. 8.

[258] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 83: AAS 74 (1982), 184.

[259] Relatio Synodi 2014, 47.

[260] Ibid., 50.

[261] Cfr Catechesi (5 agosto 2015): L’Osservatore Romano, 6 agosto 2015, p. 7.

[262] Relatio Synodi 2014, 51; cfr Relatio finalis 2015, 84.

[263] Relatio Synodi 2014, 48.

[264] Cfr Motu proprio Mitis Iudex Dominus Iesus (15 agosto 2015): L’Osservatore Romano, 9 settembre 2015, pp. 3-4; Motu proprio Mitis et Misericors Iesus (15 agosto 2015): L’Osservatore Romano, 9 settembre 2015, pp. 5-6.

[265] Motu proprio Mitis Iudex Dominus Iesus (15 agosto 2015), preambolo, III: L’Osservatore Romano, 9 settembre 2015, p. 3.

[266] Relatio finalis 2015, 82.

[267] Relatio Synodi 2014, 47.

[268] Catechesi (20 maggio 2015): L’Osservatore Romano, 21 maggio 2015, p. 8.

[269] Catechesi (24 giugno 2015): L’Osservatore Romano,25 giugno 2015, p. 8.

[270] Catechesi (5 agosto 2015): L’Osservatore Romano,6 agosto 2015, p. 7.

[271] Relatio finalis 2015, 72.

[272] Ibid., 73.

[273] Ibid., 74.

[274] Ibid., 75.

[275] Cfr Bolla Misericordiae Vultus, 12: AAS 107 (2015), 409.

[276] Catechismo della Chiesa Cattolica, 2358; cfr Relatio finalis 2015, 76.

[277]Cfr ibid.

[278] Relatio finalis 2015, 76; cfr Congregazione per la Dottrina della Fede, Considerazioni circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali (3 giugno 2003), 4.

[279] Relatio finalis 2015, 80.

[280] Cfr ibid., 20.

[281] Catechesi (17 giugno 2015): L’Osservatore Romano, 18 giugno 2015, p. 8.

[282] Relatio finalis 2015, 19.

[283]Catechesi (17 giugno 2015): L’Osservatore Romano, 18 giugno 2015, p. 8.

[284] Ibid.

[285] Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 958.

[286] Ibid.

[287] Cfr Ultimi colloqui, “Quaderno giallo” di Madre Agnese, 17 luglio 1897: Opere complete, Città del Vaticano – Roma 1997, 1028. A tale proposito è significativa la testimonianza delle consorelle circa la promessa di santa Teresa che la sua partenza da questo mondo sarebbe stata «come una pioggia di rose» (ibid., 9 giugno, 991).

[288] Giordano di Sassonia, Libellus de principiis Ordinis prædicatorum, 93: Monumenta Historica Sancti Patris Nostri Dominici, XVI, Roma 1935, 69.

[289] Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 957.

[290] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium, 49.

[291] Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 222: AAS 105 (2013), 1111.

[292] Catechesi (20 maggio 2015): L’Osservatore Romano, 21 maggio 2015, p. 8.

[293] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 17.

[294] Catechesi (30 settembre 2015): L’Osservatore Romano, 1 ottobre 2015, p. 8.

[295] Catechesi (10 giugno 2015): L’Osservatore Romano, 11 giugno 2015, p. 8.

[296] Cfr Relatio finalis 2015, 67.

[297] Catechesi (20 maggio 2015): L’Osservatore Romano, 21 maggio 2015, p. 8.

[298] Catechesi (9 settembre 2015): L’Osservatore Romano, 10 settembre 2015, p. 8.

[299] Relatio finalis 2015, 68.

[300] Ibid., 58.

[301] Dich. Gravissimum educationis, 1.

[302] Relatio finalis 2015, 56.

[303] Erich Fromm, The Art of Loving, New York 1956, p. 54 (trad. it.: L’arte di amare, Milano 1978, 72-73).

[304] Lett. enc. Laudato siʼ (24 maggio 2015), 155.

[305] Catechesi (15 aprile 2015): L´Osservatore Romano, 16 aprile 2015, p. 8.

[306] Cfr Relatio finalis 2015, 13-14.

[307] De sancta virginitate, 7, 7: PL 40, 400.

[308] Catechesi (26 agosto 2015): L´Osservatore Romano, 27 agosto 2015, p. 8.

[309] Relatio finalis 2015, 89.

[310] Ibid., 93.

[311] Relatio Synodi 2014, 24.

[312] Ibid., 25.

[313] Ibid., 28.

[314] Cfr ibid., 41.43; Relatio finalis 2015, 70.

[315] Relatio Synodi 2014, 27.

[316] Ibid., 26.

[317] Ibid., 41.

[318] Ibid.

[319] Relatio finalis 2015, 71.

[320] Cfr ibid.

[321] Relatio Synodi 2014, 42.

[322] Ibid., 43.

[323] Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 34: AAS 74 (1982), 123.

[324] Ibid., 9: 90.

[325] Cfr Catechesi (24 giugno 2015): L’Osservatore Romano, 25 giugno 2015, p. 8.

[326] Omelia durante l’Eucaristia celebrata con i nuovi cardinali (15 febbraio 2015): AAS 107 (2015), 257.

[327] Relatio finalis 2015, 51.

[328] Relatio Synodi 2014, 25.

[329] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 84: AAS 74 (1982), 186. In queste situazioni, molti, conoscendo e accettando la possibilità di convivere “come fratello e sorella” che la Chiesa offre loro, rilevano che, se mancano alcune espressioni di intimità, «non è raro che la fedeltà sia messa in pericolo e possa venir compromesso il bene dei figli» (Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 51).

[330] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 84: AAS 74 (1982), 186.

[331] Relatio Synodi 2014, 26.

[332] Cfr ibid., 45.

[333] Benedetto XVI, Discorso al VII Incontro Mondiale delle Famiglie, Milano (2 giugno 2012), risposta 5: Insegnamenti VIII, 1 (2012), 691.

[334] Relatio finalis 2015, 84.

[335] Ibid., 51.

[336] Nemmeno per quanto riguarda la disciplina sacramentale, dal momento che il discernimento può riconoscere che in una situazione particolare non c’è colpa grave. Qui si applica quanto ho affermato in un altro documento: cfr Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 44.47: AAS 105 (2013), 1038-1040.

[337] Relatio finalis 2015, 85.

[338] Ibid., 86.

[339] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 33: AAS 74 (1982), 121.

[340] Relatio finalis 2015, 51.

[341] Cfr Summa Theologiae I-II, q. 65, a. 3, ad 2; De malo, q. 2, a. 2.

[342] Ibid., ad 3.

[343] N. 1735.

[344] Cfr ibid., 2352; Congregazione per la Dottrina della Fede, Dich. Iura et bona sull’eutanasia (5 maggio 1980), II: AAS 72 (1980), 546. Giovanni Paolo II, criticando la categoria della “opzione fondamentale”, riconosceva che «senza dubbio si possono dare situazioni molto complesse e oscure sotto l’aspetto psicologico, che influiscono sulla imputabilità soggettiva del peccatore» (Esort. ap. Reconciliatio et paenitentia [2 dicembre 1984], 17: AAS 77 [1985], 223).

[345] Cfr Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, Dichiarazione sull’ammissibilità alla Comunione dei divorziati risposati (24 giugno 2000), 2.

[346] Relatio finalis 2015, 85.

[347] Summa Theologiae I-II, q. 94, art. 4.

[348] Riferendosi alla conoscenza generale della norma e alla conoscenza particolare del discernimento pratico, san Tommaso arriva a dire che «se non vi è che una sola delle due conoscenze, è preferibile che questa sia la conoscenza della realtà particolare, che si avvicina maggiormente all’agire» (Sententia libri Ethicorum, VI, 6 [ed. Leonina, t. XLVII, 354]).

[349] Discorso a conclusione della XIV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi (24 ottobre 2015): L’Osservatore Romano,26-27 ottobre 2015, p. 13.

[350] In cerca di un’etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale (2009), 59.

[351] In certi casi, potrebbe essere anche l’aiuto dei Sacramenti. Per questo, «ai sacerdoti ricordo che il confessionale non dev’essere una sala di tortura bensì il luogo della misericordia del Signore» (Esort. ap. Evangelii gaudium [24 novembre 2013], 44: AAS 105 [2013], 1038). Ugualmente segnalo che l’Eucaristia «non è un premio per i perfetti, ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli» (ibid., 47: 1039).

[352] Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 44: AAS 105 (2013), 1038-1039.

[353] De catechizandis rudibus, I, 14, 22: PL 40, 327; cfr Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 193: AAS 105 (2013), 1101.

[354] Relatio Synodi 2014, 26.

[355] Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 44: AAS 105 (2013), 1038.

[356] Ibid., 45: AAS 105 (2013), 1039.

[357] Ibid., 270: AAS 105 (2013), 1128.

[358] Bolla Misericordiae Vultus (11 aprile 2015), 12: AAS 107 (2015), 407.

[359] Ibid., 5: 402.

[360] Ibid., 9: 405.

[361] Ibid., 10: 406.

[362] Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 47: AAS 105 (2013), 1040.

[363] Cfr ibid., 36-37: AAS 105 (2013), 1035.

[364] Forse per scrupolo, nascosto dietro un grande desiderio di fedeltà alla verità, alcuni sacerdoti esigono dai penitenti un proposito di pentimento senza ombra alcuna, per cui la misericordia sfuma sotto la ricerca di una giustizia ipoteticamente pura. Per questo vale la pena di ricordare l’insegnamento di san Giovanni Paolo II, il quale affermò che la prevedibilità di una nuova caduta «non pregiudica l’autenticità del proposito» (Lettera al Card. William W. Baum in occasione del corso sul foro interno organizzato dalla Penitenzeria Apostolica [22 marzo 1996], 5: Insegnamenti XIX, 1 [1996], 589).

[365] Commissione Teologica Internazionale, La speranza della salvezza per i bambini che muoiono senza battesimo (19 aprile 2007), 2.

[366] Bolla Misericordiae Vultus (11 aprile 2015), 15: AAS 107 (2015), 409.

[367] Decr. Apostolicam actuositatem, 4.

[368] Cfr ibid.

[369] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 49.

[370] Lett. enc. Deus caritas est (25 dicembre 2005), 16: AAS 98 (2006), 230.

[371] Ibid., 39: AAS 98 (2006), 250.

[372] Giovanni Paolo II, Esort. ap. postsin. Christifideles laici (30 dicembre 1988), 40: AAS 81 (1989), 468.

[373] Ibid.

[374] Relatio finalis 2015, 87.

[375] Giovanni Paolo II, Esort. ap. postsin. Vita consecrata (25 marzo 1996), 42: AAS 88 (1996), 416.

[376] Cfr Relatio finalis 2015, 87.

[377] Cfr Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 57: AAS 74 (1982), 150.

[378] Non dimentichiamo che l’Alleanza di Dio con il suo popolo si esprime come un fidanzamento (cfr Ez 16,8.60; Is 62,5; Os 2,21-22), e la nuova Alleanza si presenta anche come un matrimonio (cfr Ap 19,7; 21,2; Ef 5,25).

[379] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium, 11.

[380] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 11: AAS 74 (1982), 93.

[381] Id., Omelia nella Santa Messa celebrata per le famiglie a Córdoba – Argentina (8 aprile 1987), 4: Insegnamenti X, 1 (1987), 1161-1162.

[382] Cfr Gemeinsames Leben, München 1973, 18 (trad. it.: La vita comune, Brescia 1973, 46).

[383] Conc. Ecum. Vat. II, Decr. Apostolicam actuositatem, 11.

[384] Catechesi (10 giugno 2015): L’Osservatore Romano,(11 giugno 2015), p. 8.

[385] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 12: AAS 74 (1982), 93.

[386] Discorso alla Festa delle Famiglie e veglia di preghiera, Filadelfia (26 settembre 2015): L’Osservatore Romano,28-29 settembre 2015, p. 6.

[387] Gabriel Marcel, Homo viator. Prolégomènes à une métaphysique de l´espérance, Paris 1944, 63.

[388] Relatio finalis 2015, 88.

[389] Cfr Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 44: AAS 74 (1982), 136.

[390] Ibid., 49: AAS 74 (1982), 141.

[391] Sugli aspetti sociali della famiglia, cfr Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, 248-254.

 


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8 Gennaio 2025 - Categoria: letteratura sarda

RECENSIONE SU “ZAFFERANO” A CURA DI CLAUDIO CODA

ZAFFERANO

di Giampiero MURONI

ed. Il Maestrale

Centro Culturale “Ciriaco Carru”

ex Caserma dei Carabinieri (1878)

(Chiaramonti 20 dic. 2024)

<< Ti mando l’ultimo a Dio giacchè una palla assassina mi a colpito mentre rincasavo. Ti chiedo perdo e pregherò il cielo afinchè arriverti miglior fortuna di quella che fu riserbata a me. Per precauzzione hofatto brucciare le tue lettere. >> [*]

[*]- bigliettino, per com’è in originale -rif. ASSS- di Gabriele Angius (pseudonimo del mugnaio Michele Pinducciu da Nuchis) fatto scrivere, sotto dettatura, dal suo locatore prima del decesso.

1)- Il canonico ploaghese Giovanni Spano, senatore del Regno, nella sua traduzione di “Voyage en Sardaigne “ di Alberto Ferrero La Marmora (1826) dopo l’esperienze di viaggio nell’Isola (ai primi dell’800), annotava con schietezza, su la moralità Tzaramòntesa un’analisi distruttiva, fatale:

“…ager sanguinis” = ovvero “terreno-territorio di sangue”.

Ma già prima, nel 1769, Vincenzo Mameli de Olmedilla, nella sua relazione sugli Stati d’Oliva (ducato del Monteacuto e Principato d’Anglona)

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16 Dicembre 2024 - Categoria: eventi straordinari

“Poesie e prose del Natale in sardo con un ricordo spassoso in italiano” cura di Ange de Clermont

 Di  Pietro Meloni vescovo

Meza notti!…
No’ intendu più sunà li me’ campani
lu Natali chist’annu no’ ha luci
la beddha festa a cosa si riduci
si no’ poni ‘inè li nostri anziani?

Lu “viru” pochi n’ha lacatu sani
agghiani fattu o no li tre tamponi
chistu scalmentu ha presu mali e boni
solu rimediu è … laassi li mani.

Ma noi chi semu fideli cristiani
sapemu chi la festa è i’la so’ grotta
Gesù no’ manca di ‘inè chist’annu!

Videndi chi la gjenti è in affannu
no’polta in donu panittoni motta
lu so’ donu è l’Amori i’ lu so’ “Pani”.

 

Di Giuanne  Soro, poeta.

Nadale 2020

No m’at restadu ‘oghe ne lamentu
Pro sighire a cantare melodias
Ca sa terra  es vestida de chimentu
E m’at furadu medas fantasias .

In giru totu es mannu unu desertu
chena sole, nè luna, nè isteddu,
mi mancat puru cudd’amigu espertu
pro distinger su biancu  o su nieddu.

Su  covid si ch’at juttu sos companzos:
non tenzo lagrimas  a los lobrare;
sos ojos mios,  tropu, meda lanzos
sun asciustos pro su tantu penare.

Tue, Gèsus Bambinu, immaculadu
dae s’altu chelu, donanos allegrias,
pro cantu in terra an semper isbagliadu
non  fin padronos de sas maladias.

Ztaramonte 24/12/2020

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5 Dicembre 2024 - Categoria: letteratura sarda

il tessuto urbano di Chiaramonti dalla fondazione 1348/1350 a cura di Angelino Tedde, Andreina Cascioni, Giovanni Soro

Gli archeologi capeggiati dalprof. Marco Milanese hanno cercato fin dal tempo dell’amministrazione di Ezio Schintu di mettere in luce i resti della storia della fondazione del borgo di Claramonti esaminando le ceramiche che potevano riscontrarsi nella mole della torre campanaria la cui lanterna sembra sia crollata ai primi del Novecento. Le maioliche diedero risposta negativa circa l’antichità della torre che per tutti gli studiosi precedenti, La Marmora, Vittorio Angius, Francesco Vico, la datavano ai primi del Cinquecento, quando fu costruita nell’area di sedie della cappella del Castello dei Doria la distrutta chiesa di San Matteo apostolo ed Evangelista i cui ruderi ancora resistono al tempo e vengono scambiati per il castello.

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3 Dicembre 2024 - Categoria: versos in limba

“Cant’est bella Toiedda” ” Giuanna e Baldoto” de Anghelu de sa Niera

TOIEDDA

Cant’est bella Toiedda

Accerad’ a su balcone

At sa conca pili niedda

E sas laras che.i s’anzone.

Issa faeddat cun totu
cun betzos e cun bajanos

sena fagher abbulotu

saludende cun sas manos

Chie la cheret isposa

Chie la cheret teraca

Paret una mariposa

Totu la cherent a faca.

No si negat  a niunu

Forsis  pro educatione

Ma non  nd’isposat mancunu

Nen teraca a su ricone.

Toiedda est che una mela

in sa punta de sa nae

est coment’una bandela

chi perunu tocat mae

Issa est cuntenta gai

At a restare bajana

E niunu andat mai

A fagher sa serenada.

Issa est bella che-i su sole

Dat a totu meda gosu

Ma de custu non si dole (t)

At sa paghe e su reposu.

Ischit solu chi sa vida

L’at fata pro s’accerare

In carrotza est naschìda

E non podet caminare.

 

GIUANNA E BALDOTO

Giuanna cantu s’est bella

Cando falas a funtana

Mi pares una itella

Cantu ti tenes bajana.

Como chi tenes maridu

Mi faghes innamorare

Calchi die fidu fidu
deo ti cherz’abbojare

No t’attrives conchi macu

A  falar’in funtanedda

Betadiche in su   lacu

E ifriscadi sa conchedda.

In su lacu no mi eto

Ma mi eto subra tie

In sa chessa deo t’iseto

Prima chi si fetat die.

Si lu naro a Pedru meu

Tue moris che unu cane

Prima chi ti ocat Deu

Finis de papare pane.

Gai deo li naro totu

Su c’as fatu in gioventura

In conchedda ‘e tiu Brotu

In sa mata  ‘e  sa chijura

Tando fala cras manzanu

Cando benzo a samunare

T’ap’a tocare sa manu

Unu asu t’ap’ a dare

Gai ses tantu galana

E che  su sole s’est bella

Tue falas  a funtana

Ap’a tocar’ un’istella

Pedru Antoni su manzanu

In bestes de sa muzere

E  cun sa resosa  in manu

Saludad’a su messere.

Sas feminas de sas oto

L’ant apidu mortu male

 A Bore nadu Baldoto

L’an fatu su funerale.

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29 Novembre 2024 - Categoria: letteratura sarda

“Alla memoria di Salvatore Canu (Ittiri 1924-Thiesi 1990), pluridecorato della seconda guerra mondiale” di Luigi Canu

Mio padre Salvatore Canu, nacque a Ittiri (Provincia di Sassari) il 26 Dicembre 1924 da Angelo Maria Canu, di professione Contadino, e Maria Francesca Deriu, di professione Casalinga.
Visse l’infanzia e l’adolescenza a Ittiri in un agiata famiglia e si occupava di lavorare molto in campagna.
Non era potuto andare a Scuola per il lavoro.
Credeva molto nella nazione Italia, onorando la Patria.
Il 17 Aprile 1943 viene chiamato alle armi, giunge in territorio di Guerra a Bono (Provincia di Sassari) come Soldato dell’Esercito con il 13° Reggimento Genio Artieri dal 18 Aprile 1943 fino alla Liberazione del territorio.
Successivamente (dal 11/01/1945 al 08/05/1945) partecipa alla Guerra di Liberazione sul Fronte Italiano Adriatico inquadrato come Soldato, a fianco degli Alleati, nel valoroso e glorioso Gruppo di Combattimento “Cremona” del ricostituito Esercito Italiano, che aveva operato in Romagna per un Italia libera e felice.
Salvatore, dopo la Guerra nel mese di Ottobre del 1953 si unisce in matrimonio con la sua compaesana Rosa Deriu, che lo rende felice genitore di sei figli (Francesca, Antonello, Angela, Mario, Giacomina e Luigi).
Salvatore per più di 40 anni presta la sua quotidiana attività lavorativa come bravo e stimato Operaio nell’Impresa Commerciale a Thiesi (Provincia di Sassari), luogo di residenza dopo il matrimonio.
Dopo una vita dedicata completamente al lavoro e alla famiglia, muore a Thiesi il 24 Agosto 1990 all’età di 65 anni.
Mio padre Salvatore Canu e’ stato insignito della Croce al Merito di Guerra e della Medaglia Commemorativa della Guerra di Liberazione per avere combattuto per la Patria (dalla parte giusta e in operazioni rischiose) con onore, generosità, lealtà, integrità e coraggio.
E’ stato un vero Combattente per la Libertà di Italia e un grande Uomo di Pace.
Esempio di attaccamento alla Patria, ha sostenuto il desiderio sublime per il riscatto della dignità umana, offrendo virtù civiche e morali.
Onesto, Operoso e Altruista, esempio di Legalità, lascia sulla terra le tracce luminose delle Sue grandi virtù.
A testimonianza dei suoi nobili ideali patriottici, del Suo impegno palesato e posto in essere per la difesa dell’amata Patria Italia e per avere promosso e tutelato la sacralità della vita, si ritiene doveroso rendergli il dovuto e meritato riconoscimento nel riportare le onorificenze che le Istituzioni, gli Enti e le Associazioni gli hanno conferito alla Memoria:
-Diploma d’Onore di “Combattente per la Libertà di Italia 1943/1945” concesso il 06 Settembre 2005 dal Ministero della Difesa;
-Diploma della “Croce al Merito di Guerra” con relativa Croce conferita dal Comandante del Distretto Militare di Cagliari il 06 Luglio 2005;
-Diploma di “Cavaliere della Patria” conferito dalla Associazione Nazionale Cavalieri della Patria di Genova (riconosciuta da Ministero della Difesa) in data 20 Novembre 2019;
-Diploma della “Medaglia Commemorativa della Guerra di Liberazione 1943/1945” con relativa Medaglia, conferito dal Comando Militare Esercito di Cagliari il 29 Febbraio 2020;
-Diploma di Citazione di Merito concesso dalla Federazione Italiana dei Combattenti Alleati con l’insegna Croce Alleata in data 03 Maggio 2020;
-Diploma della “Croce del Combattente d’Europa” con relativa Croce conferito dalla Confederazione Europea dei Combattenti di Parigi il 04 Novembre 2020;
-Diploma della “Medaglia della Fraternità Europea” con relativa insegna conferito dalla Federazione Franco-Italiana dei Combattenti Alleati e dell’Amicizia fra i Popoli di Francia il 25 Aprile 2020, 75° anniversario della Liberazione;
-Diploma della “Medaglia Aurata al Merito Sociale e Umanitario” conferito dalla Accademia Costantina di Grosseto il 02 Febbraio 2021;
-Diploma di Accademico Onorario conferito dalla Nobile Accademia Internazionale di Storia Patria “Santi Giovanni, Giorgio e Michele Arcangelo” di Sorrento il 16 Febbraio 2021;
-Encomio Solenne conferito dalla Accademia Internazionale Partenopea “Federico II” di Napoli nel mese di Aprile del 2021;
Diploma di Accademico Onorario conferito dalla Accademia Internazionale “Capitano Bartolomeo Colleoni”;
-Diploma di “Cavaliere per la Pace” conferito dal Centro Internazionale per la Pace fra i Popoli di Assisi il 04 Ottobre 2021;
– Diploma del “Gran Premio delle Generazioni” conferito dalla Università delle Generazioni di Agnone del Molise il 02 Giugno 2022;
-Encomio Solenne “Albert Schweitzer” per l’Impegno Sociale conferito dalla Accademia del Leone di Sora (FR) il 30 Giugno 2022;
– Diploma di concessione della Cittadinanza Onoraria dal Comune di Alfonsine (RA), per avere combattuto nel territorio di Guerra con il Gruppo di Combattimento “Cremona”, rilasciato il 27 Settembre 2022;
-Diploma con Menzione di Onore rilasciato dalla Associazione Amici del Tricolore di Montecorvino Pugliano (SA) il 25 Gennaio 2023;
– Diploma del Premio Internazionale di Eccellenza “De Ferraris” Città del Galateo concesso dalla Associazione VerbumlandiArt il 06 Ottobre 2022;
-Diploma della Cittadinanza Onoraria conferita dal Comune di Mignano Monte Lungo (CE) il 16 Aprile 2021;
-Alto Riconoscimento alla Memoria conferito dalla Accademia Italia in Arte nel Mondo di Brindisi nel mese di Dicembre del 2021;
-Diploma del Premio “Le Eccellenze Italiane” dalla Associazione Progetto Italia di Roma il 23 Marzo 2024;
-Diploma di Benemerenza al Merito con Medaglia Salvo D’Acquisto conferito dalla Consulta Italiana Onoranze Religiose, Militari e Sportive il 24 Maggio 2022;
-Diploma del Premio Internazionale San Giovanni Paolo II – Gran Gala’ per la Pace dalla Accademia Stars for Peace a Roma il 16 Settembre 2024;
-Diploma del Premio Terra Laboris dalla relativa Associazione il 31 Agosto 2024;
-Diploma di Onore ed Encomio di Pace dal Movimento Internazionale per la Pace fra i Popoli di Alife (CE) e Riconoscimenti Onorifici vari.
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24 Novembre 2024 - Categoria: eventi straordinari

Dilexit nos del Santo Padre Francesco sull’amore umano e divino del Cuore di Gesù Cristo

LETTERA ENCICLICA
DILEXIT NOS
DEL SANTO PADRE
FRANCESCO
SULL’AMORE UMANO E DIVINO
DEL CUORE DI GESÙ CRISTO

1. «Ci ha amati», dice San Paolo riferendosi a Cristo (Rm 8,37), per farci scoprire che da questo amore nulla «potrà mai separarci» (Rm 8,39). Paolo lo affermava con certezza perché Cristo stesso aveva assicurato ai suoi discepoli: «Io ho amato voi» (Gv 15,9.12). Ci ha anche detto: «Vi ho chiamato amici» (Gv 15,15). Il suo cuore aperto ci precede e ci aspetta senza condizioni, senza pretendere alcun requisito previo per poterci amare e per offrirci la sua amicizia: Egli ci ha amati per primo (cfr 1 Gv 4,10). Grazie a Gesù «abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi» (1 Gv 4,16). I.

L’IMPORTANZA DEL CUORE

2. Per esprimere l’amore di Gesù si usa spesso il simbolo del cuore. Alcuni si domandano se esso abbia un significato tuttora valido. Ma quando siamo tentati di navigare in superficie, di vivere di corsa senza sapere alla fine perché, di diventare consumisti insaziabili e schiavi degli ingranaggi di un mercato a cui non interessa il senso della nostra esistenza, abbiamo bisogno di recuperare l’importanza del cuore. [1]

Cosa intendiamo quando diciamo “cuore”?

3. Nel greco classico profano il termine kardía indica ciò che è più interiore negli esseri umani, negli animali e nelle piante. In Omero indica non solo il centro corporeo, ma anche l’anima e il nucleo spirituale dell’essere umano. Nell’ Iliade, il pensiero e il sentimento appartengono al cuore e sono molto vicini tra loro. [2] Il cuore vi appare come centro del desiderio e luogo in cui prendono forma le decisioni importanti della persona. [3] In Platone, il cuore assume una funzione in qualche modo “sintetizzante” di ciò che è razionale e delle tendenze di ognuno, poiché sia il mandato delle facoltà superiori sia le passioni si trasmettono attraverso le vene che convergono nel cuore. [4] Così, fin dall’antichità ci siamo resi conto dell’importanza di considerare l’essere umano non come una somma di capacità diverse, ma come un mondo animo-corporeo con un centro unificatore, che conferisce a tutto ciò che vive la persona lo sfondo di un senso e di un orientamento.

4. Dice la Bibbia che «la parola di Dio è viva, efficace […] e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4,12). In questo modo ci parla di un nucleo, il cuore, che sta dietro ogni apparenza, anche dietro i pensieri superficiali che ci confondono. I discepoli di Emmaus, durante il loro misterioso cammino con Cristo risorto, vivevano un momento di angoscia, confusione, disperazione, delusione. Eppure, al di là di tutto ciò e nonostante tutto, qualcosa accadeva nel profondo: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via?» (Lc 24,32).

5. Al tempo stesso, il cuore è il luogo della sincerità, dove non si può ingannare né dissimulare. Di solito indica le vere intenzioni, ciò che si pensa, si crede e si vuole realmente, i “segreti” che non si dicono a nessuno, insomma la propria nuda verità. Si tratta di quello che non è apparenza né menzogna bensì autentico, reale, totalmente personale. Per questo a Sansone, che non le diceva il segreto della sua forza, Dalila domandava: «Come puoi dirmi: “Ti amo”, mentre il tuo cuore non è con me?» (Gdc 16,15). Solo quando le rivelò il suo segreto nascosto, lei «vide che egli le aveva aperto tutto il suo cuore» (Gdc 16,18).

6. Questa verità di ogni persona è spesso nascosta sotto una gran quantità di “fogliame” che la ricopre, e questo fa sì che difficilmente si arrivi alla certezza di conoscere sé stessi e ancor più di conoscere un’altra persona: «Niente è più infido del cuore e difficilmente guarisce! Chi lo può conoscere?» (Ger 17,9). Comprendiamo così perché il libro dei Proverbi ci chiede: «Più di ogni cosa degna di cura custodisci il tuo cuore, perché da esso sgorga la vita. Tieni lontano da te la bocca bugiarda» (4,23-24). La mera apparenza, la dissimulazione e l’inganno danneggiano e pervertono il cuore. Al di là dei tanti tentativi di mostrare o esprimere qualcosa che non siamo, tutto si gioca nel cuore: lì non conta ciò che si mostra all’esterno o ciò che si nasconde, lì siamo noi stessi. E questa è la base di qualsiasi progetto solido per la nostra vita, poiché niente di valido si può costruire senza il cuore. Le apparenze e le bugie offrono solo il vuoto.

7. Come metafora, permettetemi di ricordare una cosa che ho già raccontato in un’altra occasione: «Per carnevale, quando eravamo bambini, la nonna ci faceva delle frittelle, ed era una pasta molto sottile quella che faceva. Poi la buttava nell’olio e quella pasta si gonfiava, si gonfiava… E quando noi incominciavamo a mangiarla, era vuota. Quelle frittelle in dialetto si chiamavano “bugie”. Ed era proprio la nonna che ci spiegava il motivo: “Queste frittelle sono come le bugie, sembrano grandi, ma non hanno niente dentro, non c’è niente di vero, non c’è niente di sostanza”». [5]

8. Invece di cercare soddisfazioni superficiali e di recitare una parte davanti agli altri, la cosa migliore è lasciar emergere domande che contano: chi sono veramente, che cosa cerco, che senso voglio che abbiano la mia vita, le mie scelte o le mie azioni, perché e per quale scopo sono in questo mondo, come valuterò la mia esistenza quando arriverà alla fine, che significato vorrei che avesse tutto ciò che vivo, chi voglio essere davanti agli altri, chi sono davanti a Dio. Queste domande mi portano al mio cuore.

 

Ritornare al cuore

9. In questo mondo liquido è necessario parlare nuovamente del cuore; mirare lì dove ogni persona, di ogni categoria e condizione, fa la sua sintesi; lì dove le persone concrete hanno la fonte e la radice di tutte le altre loro forze, convinzioni, passioni, scelte. Ma ci muoviamo in società di consumatori seriali che vivono alla giornata e dominati dai ritmi e dai rumori della tecnologia, senza molta pazienza per i processi che l’interiorità richiede. Nella società di oggi, l’essere umano «rischia di smarrire il centro, il centro di se stesso». [6] «L’uomo contemporaneo, infatti, si trova spesso frastornato, diviso, quasi privo di un principio interiore che crei unità e armonia nel suo essere e nel suo agire. Modelli di comportamento purtroppo assai diffusi ne esasperano la dimensione razionale-tecnologica o, all’opposto, quella istintuale». [7] Manca il cuore.

10. Ora, il problema della società liquida è attuale, ma la svalutazione del centro intimo dell’uomo – il cuore – viene da più lontano: la troviamo già nel razionalismo greco e precristiano, nell’idealismo postcristiano e nel materialismo nelle sue varie forme. Il cuore ha avuto poco spazio nell’antropologia e risulta una nozione estranea al grande pensiero filosofico. Si sono preferiti altri concetti come quelli di ragione, volontà o libertà. Il suo significato è impreciso e non gli è stato concesso un posto specifico nella vita umana. Forse perché non era facile collocarlo tra le idee “chiare e distinte” o per la difficoltà che comporta la conoscenza di sé stessi: sembrerebbe che la realtà più intima sia anche la più lontana per la nostra conoscenza. Probabilmente perché l’incontro con l’altro non si consolida come via per trovare sé stessi, giacché il pensiero sfocia ancora una volta in un individualismo malsano. Molti si sono sentiti sicuri nell’ambito più controllabile dell’intelligenza e della volontà per costruire i loro sistemi di pensiero. E non trovando un posto per il cuore, distinto dalle facoltà e dalle passioni umane considerate separatamente le une dalle altre, non è stata sviluppata ampiamente nemmeno l’idea di un centro personale in cui l’unica realtà che può unificare tutto è, in definitiva, l’amore.

11. Se il cuore è svalutato, si svaluta anche ciò che significa parlare dal cuore, agire con il cuore, maturare e curare il cuore. Quando non viene apprezzato lo specifico del cuore, perdiamo le risposte che l’intelligenza da sola non può dare, perdiamo l’incontro con gli altri, perdiamo la poesia. E perdiamo la storia e le nostre storie, perché la vera avventura personale è quella che si costruisce a partire dal cuore. Alla fine della vita conterà solo questo.

12. Occorre affermare che abbiamo un cuore, che il nostro cuore coesiste con gli altri cuori che lo aiutano ad essere un “tu”. Non potendo sviluppare con ampiezza questo tema, ci avvarremo del personaggio di un romanzo, lo Stavròghin di Dostoevskij. [8]Romano Guardini lo mostra come l’incarnazione stessa del male, perché la sua caratteristica principale è di non avere cuore:«Stavròghin non ha cuore; perciò il suo spirito è freddo e vuoto e il suo corpo s’intossica nella pigrizia e nella sensualità “bestiale”. Perciò egli non può incontrare intimamente nessuno e nessuno incontra veramente lui. Poiché solo il cuore crea l’intimità, la vera vicinanza tra due esseri. Solo il cuore sa accogliere e dare una patria. L’intimità è l’atto, la sfera del cuore. Ma Stavròghin è distante. […] Infinitamente lontano anche da sé stesso, poiché interiore a sé l’uomo può esserlo soltanto col cuore, non con lo spirito. Essere interiore a sé con lo spirito non è in potere dell’uomo. Ora, se il cuore non vive, l’uomo rimane estraneo a sé stesso». [9]

13. Abbiamo bisogno che tutte le azioni siano poste sotto il “dominio politico” del cuore, che l’aggressività e i desideri ossessivi trovino pace nel bene maggiore che il cuore offre loro e nella forza che ha contro i mali; che anche l’intelligenza e la volontà si mettano al suo servizio, sentendo e gustando le verità piuttosto che volerle dominare come fanno spesso alcune scienze; che la volontà desideri il bene maggiore che il cuore conosce, e che anche l’immaginazione e i sentimenti si lascino moderare dal battito del cuore.

14. Si potrebbe dire che, in ultima analisi, io sono il mio cuore, perché esso è ciò che mi distingue, mi configura nella mia identità spirituale e mi mette in comunione con le altre persone. L’algoritmo all’opera nel mondo digitale dimostra che i nostri pensieri e le decisioni della nostra volontà sono molto più “standard” di quanto potremmo pensare. Sono facilmente prevedibili e manipolabili. Non così il cuore.

15. Si tratta di una parola importante per la filosofia e la teologia, che aspirano a raggiungere una sintesi complessiva. Infatti, la parola “cuore” non può essere spiegata in modo esaustivo dalla biologia, dalla psicologia, dall’antropologia o da qualsiasi scienza. È una di quelle parole originarie «che indicano la realtà che spetta all’uomo tutt’intero in quanto persona corporea e spirituale». [10]Così il biologo non è maggiormente realista quando parla del cuore, perché ne vede solo una parte, e l’insieme non è meno reale, ma lo è ancora di più. Nemmeno un linguaggio astratto potrebbe avere lo stesso significato concreto e contemporaneamente complessivo. Se il “cuore” ci conduce al centro intimo della nostra persona, ci permette anche di riconoscerci nella nostra interezza e non solo in qualche aspetto isolato.

16. D’altra parte, questa forza unica del cuore ci aiuta a capire perché si dice che quando si coglie una realtà con il cuore si può conoscerla meglio e più pienamente. Questo ci porta inevitabilmente all’amore di cui quel cuore è capace, perché «l’amore è il fattore più intimo della realtà». [11] Per Heidegger, secondo l’interpretazione che ne dà un pensatore contemporaneo, la filosofia non inizia con un concetto puro o con una certezza, ma con una scossa emotiva: «Il pensare dev’essere stato scosso emotivamente prima di lavorare con i concetti o mentre li lavora. Senza un’emozione profonda il pensare non può iniziare. La prima immagine mentale sarebbe la pelle d’oca. La prima cosa che fa pensare e interrogare è l’emozione profonda. La filosofia avviene sempre in uno stato d’animo fondamentale ( Stimmung)». [12] E qui compare il cuore, che «ospita gli stati d’animo, lavora come “custode dello stato d’animo”. Il “cuore” ascolta in modo non metaforico “la silenziosa voce” dell’essere, lasciandosi temperare e determinare da essa». [13]

Il cuore che unisce i frammenti

17. Al tempo stesso, il cuore rende possibile qualsiasi legame autentico, perché una relazione che non è costruita con il cuore è incapace di superare la frammentazione dell’individualismo: si manterrebbero in piedi solo due monadi che si accostano ma non si legano veramente. L’anti-cuore è una società sempre più dominata dal narcisismo e dall’autoreferenzialità. Alla fine si arriva alla “perdita del desiderio”, perché l’altro scompare dall’orizzonte e ci si chiude nel proprio io, senza capacità di relazioni sane. [14] Di conseguenza, diventiamo incapaci di accogliere Dio. Come direbbe Heidegger, per ricevere il divino dobbiamo costruire una “casa degli ospiti”. [15]

18. Vediamo così come nel cuore di ogni persona si produca questa paradossale connessione tra la valorizzazione di sé e l’apertura agli altri, tra l’incontro personalissimo con sé stessi e il dono di sé agli altri. Si diventa sé stessi solo quando si acquista la capacità di riconoscere l’altro, e si incontra con l’altro chi è in grado di riconoscere e accettare la propria identità.

19. Il cuore è anche capace di unificare e armonizzare la propria storia personale, che sembra frammentata in mille pezzi, ma dove tutto può avere un senso. Questo è ciò che il Vangelo esprime nello sguardo di Maria, che guardava con il cuore. Ella sapeva dialogare con le esperienze custodite meditandole nel suo cuore, dando loro tempo: rappresentandole e conservandole dentro per ricordare. Nel Vangelo, la migliore espressione di ciò che pensa un cuore sono i due passi di San Luca che ci dicono che Maria «custodiva (syneterei) tutte queste cose, meditandole (symballousa) nel suo cuore» (Lc 2,19; cfr 2,51). Il verbo symballein (da cui “simbolo”) significa ponderare, riunire due cose nella mente ed esaminare sé stessi, riflettere, dialogare con sé stessi. In Lc 2,51 dieterei significa “conservava con cura”, e ciò che lei custodiva non era solo “la scena” che vedeva, ma anche ciò che non capiva ancora e tuttavia rimaneva presente e vivo nell’attesa di mettere tutto insieme nel cuore.

 

20. Nell’era dell’intelligenza artificiale, non possiamo dimenticare che per salvare l’umano sono necessari la poesia e l’amore. Ciò che nessun algoritmo potrà mai albergare sarà, ad esempio, quel momento dell’infanzia che si ricorda con tenerezza e che, malgrado il passare degli anni, continua a succedere in ogni angolo del pianeta. Penso all’uso della forchetta per sigillare i bordi di quei panzerotti fatti in casa con le nostre mamme o nonne. È quel momento di apprendistato culinario, a metà strada tra il gioco e l’età adulta, in cui si assume la responsabilità del lavoro per aiutare l’altro. Come questo della forchetta, potrei citare migliaia di piccoli dettagli che compongono le biografie di tutti: far sbocciare sorrisi con una battuta, tracciare un disegno al controluce di una finestra, giocare la prima partita di calcio con un pallone di pezza, conservare dei vermetti in una scatola di scarpe, seccare un fiore tra le pagine di un libro, prendersi cura di un uccellino caduto dal nido, esprimere un desiderio sfogliando una margherita. Tutti questi piccoli dettagli, l’ordinario-straordinario, non potranno mai stare tra gli algoritmi. Perché la forchetta, le battute, la finestra, la palla, la scatola di scarpe, il libro, l’uccellino, il fiore… si appoggiano sulla tenerezza che si conserva nei ricordi del cuore.

21. Il nucleo di ogni essere umano, il suo centro più intimo, non è il nucleo dell’anima ma dell’intera persona nella sua identità unica, che è di anima e corpo. Tutto è unificato nel cuore, che può essere la sede dell’amore con tutte le sue componenti spirituali, psichiche e anche fisiche. In definitiva, se in esso regna l’amore, la persona raggiunge la propria identità in modo pieno e luminoso, perché ogni essere umano è stato creato anzitutto per l’amore, è fatto nelle sue fibre più profonde per amare ed essere amato.

22. Per questo motivo, vedendo come si susseguono nuove guerre, con la complicità, la tolleranza o l’indifferenza di altri Paesi, o con mere lotte di potere intorno a interessi di parte, viene da pensare che la società mondiale stia perdendo il cuore. Basta guardare e ascoltare le donne anziane – delle varie parti in conflitto – che sono prigioniere di questi conflitti devastanti. È straziante vederle piangere i nipoti uccisi, o sentirle augurarsi la morte per aver perso la casa dove hanno sempre vissuto. Esse, che tante volte sono state modelli di forza e resistenza nel corso di vite difficili e sacrificate, ora che arrivano all’ultima tappa della loro esistenza non ricevono una meritata pace, ma angoscia, paura e indignazione. Scaricare la colpa sugli altri non risolve questo dramma vergognoso. Veder piangere le nonne senza che questo risulti intollerabile è segno di un mondo senza cuore.

23. Quando ognuno riflette, cerca, medita sul proprio essere e sulla propria identità, o analizza le questioni più alte; quando pensa al senso della propria vita e pure se cerca Dio, quand’anche provasse il gusto di aver intravisto qualcosa della verità, tutto ciò esige di trovare il suo culmine nell’amore. Amando, una persona sente di sapere perché e a che scopo vive. Così tutto confluisce in uno stato di connessione e di armonia. Pertanto, di fronte al proprio mistero personale, forse la domanda più decisiva che ognuno si può porre è questa: ho un cuore?

Il fuoco

24. Questo ha conseguenze sulla spiritualità. Ad esempio, la teologia degli Esercizi Spirituali di Sant’Ignazio di Loyola ha come principio l’ affectus. La dimensione discorsiva si costruisce su un volere fondamentale (con tutta la forza del cuore), che dà energia e risorse al compito di riorganizzare la vita. Le regole e le composizioni di luogo che Ignazio mette in atto funzionano sulla base di un “fondamento” diverso da esse, l’ignoto del cuore. Michel de Certeau evidenzia come le “mozioni” di cui parla Sant’Ignazio siano le irruzioni di una volontà di Dio e di una volontà del proprio cuore che rimane diversa rispetto all’ordine manifesto. Qualcosa di inaspettato comincia a parlare nel cuore della persona, qualcosa che nasce dall’inconoscibile, rimuove la superficie di ciò che è noto e vi si oppone. È l’origine di un nuovo “ordinamento della vita” a partire dal cuore. Non si tratta di discorsi razionali che bisognerebbe mettere in pratica traducendoli nella vita, come se l’affettività e la pratica fossero semplicemente conseguenze – dipendenti – di un sapere assicurato. [16]

25. Lì dove il filosofo si ferma col suo pensiero, il cuore credente ama, adora, chiede perdono e si offre di servire nel luogo che il Signore gli dà da scegliere per seguirlo. Allora capisce di essere il “tu” di Dio e che può essere un “sé” perché Dio è un “tu” per lui. Il fatto è che solo il Signore ci offre di trattarci come un “tu” sempre e per sempre. Accettare la sua amicizia è una questione di cuore e ci costituisce come persone nel senso pieno del termine.

26. San Bonaventura diceva che a ben vedere si deve interrogare «non la luce, ma il fuoco». [17] E insegnava che «la fede è nell’intelletto, in modo da provocare l’affetto. Per esempio: sapere che Cristo è morto per noi non rimane conoscenza, ma diventa necessariamente affetto, amore». [18] In questa prospettiva, San John Henry Newman scelse come proprio motto la frase “ Cor ad cor loquitur”, perché, al di là di ogni dialettica, il Signore ci salva parlando al nostro cuore dal suo Sacro Cuore. Questa stessa logica faceva sì che per lui, grande pensatore, il luogo dell’incontro più profondo con sé stesso e con il Signore non fosse la lettura o la riflessione, ma il dialogo orante, da cuore a cuore, con Cristo vivo e presente. Perciò Newman trovava nell’Eucaristia il Cuore di Gesù vivo, capace di liberare, di dare senso ad ogni momento e di infondere nell’uomo la vera pace: «O santissimo ed amabilissimo Cuore di Gesù, tu sei nascosto nella santa Eucaristia, e qui palpiti sempre per noi. […] Io ti adoro con tutto il mio amore e con tutta la mia venerazione, col mio affetto fervente e con la mia volontà più sottomessa e risoluta. O mio Dio, quando tu vieni a me nella santa comunione e poni in me la tua dimora, fa’ che il mio cuore batta all’unisono col tuo. Purificalo da tutto ciò che è orgoglio e senso, che è durezza e crudeltà, da ogni perversità, da ogni disordine, da ogni tiepidezza. Riempilo talmente di te, che né gli avvenimenti quotidiani, né le circostanze della vita possano riuscire a sconvolgerlo, e nel tuo timore e nel tuo amore possa trovare la pace». [19]

27. Davanti al Cuore di Gesù vivo e presente, la nostra mente, illuminata dallo Spirito, comprende le parole di Gesù. Così la nostra volontà si mette in moto per praticarle. Ma ciò potrebbe rimanere una forma di moralismo autosufficiente. Sentire e gustare il Signore e onorarlo è cosa del cuore. Solo il cuore è capace di mettere le altre facoltà e passioni e tutta la nostra persona in atteggiamento di riverenza e di obbedienza amorosa al Signore.

Il mondo può cambiare a partire dal cuore

28. Solo a partire dal cuore le nostre comunità riusciranno a unire le diverse intelligenze e volontà e a pacificarle affinché lo Spirito ci guidi come rete di fratelli, perché anche la pacificazione è compito del cuore. Il Cuore di Cristo è estasi, è uscita, è dono, è incontro. In Lui diventiamo capaci di relazionarci in modo sano e felice e di costruire in questo mondo il Regno d’amore e di giustizia. Il nostro cuore unito a quello di Cristo è capace di questo miracolo sociale.

29. Prendere sul serio il cuore ha conseguenze sociali. Come insegna il Concilio Vaticano II, «ciascuno di noi deve adoperarsi per mutare il suo cuore, aprendo gli occhi sul mondo intero e su tutte quelle cose che gli uomini possono compiere insieme per condurre l’umanità verso un migliore destino». [20] Perché «gli squilibri di cui soffre il mondo contemporaneo si collegano con quel più profondo squilibrio che è radicato nel cuore dell’uomo». [21] Di fronte ai drammi del mondo, il Concilio invita a tornare al cuore, spiegando che l’essere umano «nella sua interiorità, trascende l’universo delle cose: in quelle profondità egli torna, quando fa ritorno a se stesso, là dove lo aspetta quel Dio che scruta i cuori (cfr 1 Sam 16,7; Ger 17,10) là dove sotto lo sguardo di Dio egli decide del suo destino». [22]

30. Questo non significa fare troppo affidamento su noi stessi. Stiamo attenti: rendiamoci conto che il nostro cuore non è autosufficiente, è fragile ed è ferito. Ha una dignità ontologica, ma allo stesso tempo deve cercare una vita più dignitosa. [23] Dice ancora il Concilio Vaticano II che «il fermento evangelico suscitò e suscita nel cuore dell’uomo questa irrefrenabile esigenza di dignità», [24] tuttavia per vivere secondo questa dignità non basta conoscere il Vangelo né fare meccanicamente ciò che esso ci comanda. Abbiamo bisogno dell’aiuto dell’amore divino. Andiamo al Cuore di Cristo, il centro del suo essere, che è una fornace ardente di amore divino e umano ed è la massima pienezza che possa raggiungere l’essere umano. È lì, in quel Cuore, che riconosciamo finalmente noi stessi e impariamo ad amare.

31. Infine, questo Cuore Sacro è il principio unificatore della realtà, perché «Cristo è il cuore del mondo; la sua Pasqua di morte e risurrezione è il centro della storia, che grazie a Lui è storia di salvezza». [25] Tutte le creature «avanzano, insieme a noi e attraverso di noi, verso la meta comune, che è Dio, in una pienezza trascendente dove Cristo risorto abbraccia e illumina tutto». [26]Davanti al Cuore di Cristo, chiedo al Signore di avere ancora una volta compassione di questa terra ferita, che Lui ha voluto abitare come uno di noi. Che riversi i tesori della sua luce e del suo amore, affinché il nostro mondo, che sopravvive tra le guerre, gli squilibri socioeconomici, il consumismo e l’uso anti-umano della tecnologia, possa recuperare ciò che è più importante e necessario: il cuore.

II.

GESTI E PAROLE D’AMORE

32. Il Cuore di Cristo, che simboleggia il suo centro personale da cui sgorga il suo amore per noi, è il nucleo vivo del primo annuncio. Lì è l’origine della nostra fede, la sorgente che mantiene vive le convinzioni cristiane.

Gesti che riflettono il cuore

33. Il modo in cui Cristo ci ama è qualcosa che Egli non ha voluto troppo spiegarci. Lo ha mostrato nei suoi gesti. Guardandolo agire possiamo scoprire come tratta ciascuno di noi, anche se facciamo fatica a percepirlo. Andiamo allora a guardare lì dove la nostra fede può riconoscerlo: nel Vangelo.

34. Il Vangelo dice che Gesù «venne fra i suoi» (Gv 1,11). I suoi siamo noi, perché Egli non ci tratta come qualcosa di estraneo. Ci considera cosa propria, che Lui custodisce con cura, con affetto. Ci tratta come suoi. Non nel senso che siamo suoi schiavi, Lui stesso lo nega: «Non vi chiamo più servi» (Gv 15,15). Ciò che propone è l’appartenenza reciproca degli amici. È venuto, ha superato tutte le distanze, si è fatto vicino a noi come le cose più semplici e quotidiane dell’esistenza. Infatti, Egli ha un altro nome, che è “Emmanuele” e significa “Dio con noi”, Dio vicino alla nostra vita, che vive in mezzo a noi. Il Figlio di Dio si è incarnato e «svuotò se stesso, assumendo una condizione di servo» (Fil 2,7).

35. Questo è evidente quando lo vediamo agire. È sempre alla ricerca, vicino, costantemente aperto all’incontro. Lo contempliamo quando si ferma a conversare con la Samaritana al pozzo dove lei andava a prendere l’acqua (cfr Gv 4,5-7). Lo vediamo che, a notte fonda, incontra Nicodemo, che aveva paura di farsi vedere insieme a Gesù (cfr Gv 3,1-2). Lo ammiriamo quando senza vergogna si lascia lavare i piedi da una prostituta (cfr Lc 7,36-50); quando dice, occhi negli occhi, alla donna adultera: “Non ti condanno” (cfr Gv8,11); o quando affronta l’indifferenza dei suoi discepoli e al cieco sulla strada dice con affetto: «Che cosa vuoi che io faccia per te?» (Mc 10,51). Cristo mostra che Dio è vicinanza, compassione e tenerezza.

36. Se guariva qualcuno, preferiva avvicinarsi: «Tese la mano e lo toccò» ( Mt 8,3); «le toccò la mano» ( Mt 8,15); «toccò loro gli occhi» ( Mt 9,29). E si fermava persino a guarire i malati con la sua stessa saliva (cfr Mc 7,33), come una madre, perché non lo sentissero estraneo alla loro vita. Perché «il Signore sa quella bella scienza delle carezze. La tenerezza di Dio: non ci ama a parole, si avvicina e nel suo starci vicino ci dà il suo amore con tutta la tenerezza possibile». [27]

37. Dato che per noi è difficile fidarci, perché siamo stati feriti da tante falsità, aggressioni e delusioni, Egli ci sussurra all’orecchio: «Coraggio, figlio» (Mt 9,2), «Coraggio, figlia» (Mt 9,22). Si tratta di superare la paura e renderci conto che con Lui non abbiamo nulla da perdere. A Pietro, che non si fidava, «Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: “[…] Perché hai dubitato?”» (Mt 14,31). Non temere. Lascialo venire vicino a te, fallo sedere accanto a te. Possiamo dubitare di tante persone, ma non di Lui. E non fermarti a causa dei tuoi peccati. Ricordati che molti peccatori «se ne stavano a tavola con Gesù» (Mt 9,10) e Lui non si scandalizzava di nessuno di loro. Gli elitari della religione si lamentavano e lo trattavano come «un mangione e un beone, amico di pubblicani e peccatori» (Mt 11,19). Quando i farisei criticavano questa sua vicinanza alle persone considerate di bassa condizione o peccatrici, Gesù diceva loro: «Misericordia io voglio e non sacrifici» (Mt 9,13).

38. Quello stesso Gesù oggi aspetta che tu gli dia la possibilità di illuminare la tua esistenza, di farti alzare, di riempirti con la sua forza. Prima di morire, infatti, disse ai suoi discepoli: «Non vi lascerò orfani: verrò da voi. Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete» (Gv 14,18-19). Egli trova sempre un modo per manifestarsi nella tua vita, perché tu possa incontrarti con Lui.

Lo sguardo

39. Narra il Vangelo che un uomo ricco venne da Lui, pieno di ideali ma senza la forza di cambiare vita. Allora «Gesù fissò lo sguardo su di lui» (Mc 10,21). Riesci a immaginare quell’istante, quell’incontro tra gli occhi di quest’uomo e lo sguardo di Gesù? Se ti chiama, se ti invita per una missione, prima ti guarda, scruta l’intimo del tuo essere, percepisce e conosce tutto ciò che vi è in te, pone su di te il suo sguardo: «Mentre camminava lungo il mare di Galilea, vide due fratelli […]. Andando oltre, vide altri due fratelli» (Mt4,18.21).

40. Molti testi del Vangelo ci mostrano Gesù che presta tutta la sua attenzione alle persone, alle loro preoccupazioni, alle loro sofferenze. Ad esempio: «Vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite» (Mt 9,36). Quando ci sembra che tutti ci ignorino, che nessuno sia interessato a ciò che ci accade, che non siamo importanti per nessuno, Lui è attento a noi. È quello che fece notare a Natanaele, che se ne stava solitario e assorto: «Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto l’albero di fichi» (Gv 1,48).

41. Proprio perché è attento a noi, Egli è in grado di riconoscere ogni buona intenzione che hai, ogni piccola buona azione che compi. Il Vangelo racconta che «vide una vedova povera, che vi gettava [nel tesoro del tempio] due monetine» (Lc 21,2) e subito lo fece notare ai suoi apostoli. Gesù presta attenzione in modo tale da ammirare le cose buone che riconosce in noi. Quando il centurione lo pregò con totale fiducia, «ascoltandolo, Gesù si meravigliò» (Mt 8,10). Quanto è bello sapere che se gli altri ignorano le nostre buone intenzioni o le cose positive che possiamo fare, a Gesù non sfuggono, anzi le ammira.

42. Egli, come uomo, aveva imparato questo da Maria, sua madre. Lei, che contemplava tutto con cura e lo «custodiva […] nel suo cuore» (Lc 2,19.51), gli insegnò fin da piccolo, insieme a San Giuseppe, a prestare attenzione.

Le parole

43. Benché nelle Scritture abbiamo la sua Parola sempre viva e attuale, a volte Gesù ci parla interiormente e ci chiama per portarci nel posto migliore. E il posto migliore è il suo Cuore. Ci chiama per farci entrare lì dove possiamo recuperare le forze e la pace: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro» (Mt 11,28). Per questo ha chiesto ai suoi discepoli: «Rimanete in me» (Gv 15,4).

44. Le parole che Gesù diceva mostravano che la sua santità non eliminava i sentimenti. In alcune occasioni manifestavano un amore appassionato, che soffre per noi, si commuove, si lamenta, e arriva fino alle lacrime. È evidente che non lo lasciavano indifferente le comuni preoccupazioni e ansie della gente, come la stanchezza o la fame: «Sento compassione per la folla; […] non hanno da mangiare. […] Verranno meno lungo il cammino; e alcuni di loro sono venuti da lontano» (Mc 8,2-3).

45. Il Vangelo non nasconde i sentimenti di Gesù nei confronti di Gerusalemme, la città amata: «Quando fu vicino, alla vista della città, pianse su di essa» (Lc 19,41) ed espresse il suo desiderio più grande: «Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, quello che porta alla pace!» (19,42). Gli evangelisti, pur presentandolo talvolta potente o glorioso, non mancano di mostrare i suoi sentimenti di fronte alla morte e al dolore degli amici. Prima di raccontare che davanti alla tomba di Lazzaro «Gesù scoppiò in pianto» (Gv 11,35), il Vangelo si sofferma a dire che «Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro» (Gv 11,5) e che, vedendo piangere Maria e quelli che stavano con lei, «si commosse profondamente e [fu] molto turbato» (Gv 11,33). La narrazione non lascia dubbi sul fatto che si trattasse di un pianto sincero, scaturito da un turbamento interiore. Infine, nemmeno si è voluto nascondere l’angoscia di Gesù davanti alla propria morte violenta per mano di quelli che Lui tanto amava: «Cominciò a sentire paura e angoscia» (Mc 14,33), fino a dire: «la mia anima è triste fino alla morte» (Mc 14,34). Questo turbamento interiore si esprime in tutta la sua forza nel grido del Crocifisso: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34).

46. Tutto questo, a uno sguardo superficiale, può sembrare mero romanticismo religioso. Tuttavia, è la cosa più seria e più decisiva. Trova la sua massima espressione in Cristo inchiodato ad una croce. È la parola d’amore più eloquente. Non è un guscio vuoto, non è puro sentimento, non è un’evasione spirituale. È amore. Ecco perché San Paolo, quando cercava le parole giuste per spiegare il suo rapporto con Cristo, disse: «Mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,20). Questa era la sua più grande convinzione: sapere di essere amato. La dedizione di Cristo sulla croce lo soggiogava, ma aveva senso solo perché c’era qualcosa di ancora più grande di quella dedizione: “Mi ha amato”. Quando molte persone cercavano in varie proposte religiose la salvezza, il benessere o la sicurezza, Paolo, toccato dallo Spirito, ha saputo guardare oltre e meravigliarsi della cosa più grande e fondamentale: “Mi ha amato”.

47. Dopo aver contemplato Cristo, guardando ciò che i suoi gesti e le sue parole lasciano vedere del suo Cuore, ricordiamo ora come la Chiesa riflette sul santo mistero del Cuore del Signore.

III.

QUESTO È IL CUORE CHE HA TANTO AMATO

48. La devozione al Cuore di Cristo non è il culto di un organo separato dalla Persona di Gesù. Ciò che contempliamo e adoriamo è Gesù Cristo intero, il Figlio di Dio fatto uomo, rappresentato in una sua immagine dove è evidenziato il suo cuore. In questo caso il cuore di carne è assunto come immagine o segno privilegiato del centro più intimo del Figlio incarnato e del suo amore insieme divino e umano, perché più di ogni altro membro del suo corpo è «l’indice naturale, ovvero il simbolo della sua immensa carità». [28]

L’adorazione di Cristo

49. È indispensabile sottolineare che ci relazioniamo con la Persona di Cristo, nell’amicizia e nell’adorazione, attratti dall’amore rappresentato nell’immagine del suo Cuore. Veneriamo tale immagine che lo rappresenta, ma l’adorazione è rivolta solo a Cristo vivo, nella sua divinità e in tutta la sua umanità, per lasciarci abbracciare dal suo amore umano e divino.

50. Al di là dell’immagine utilizzata, è certo che il Cuore vivo di Cristo – mai un’immagine – è oggetto di adorazione, perché è parte del suo corpo santissimo e risorto, inseparabile dal Figlio di Dio che lo ha assunto per sempre. È adorato in quanto «Cuore della Persona del Verbo, al quale è inseparabilmente unito». [29] Non lo adoriamo isolatamente, ma in quanto con questo Cuore è il Figlio stesso incarnato che vive, ama e riceve il nostro amore. Pertanto, ogni atto d’amore o adorazione del suo Cuore è in realtà «veramente e realmente tributato a Cristo stesso», [30] poiché tale figura rimanda spontaneamente a Lui ed è «simbolo e immagine espressiva dell’infinita carità di Gesù Cristo». [31]

51. Per questo motivo nessuno dovrebbe pensare che questa devozione possa separarci o distrarci da Gesù Cristo e dal suo amore. In modo spontaneo e diretto ci indirizza a Lui e a Lui solo, che ci chiama a una preziosa amicizia fatta di dialogo, affetto, fiducia, adorazione. Questo Cristo dal cuore trafitto e ardente è lo stesso che è nato a Betlemme per amore; è quello che camminava per la Galilea guarendo, accarezzando, riversando misericordia; è quello che ci ha amati fino alla fine aprendo le braccia sulla croce. Infine, è lo stesso che è risorto e vive glorioso in mezzo a noi.

La venerazione della sua immagine

52. Va notato che l’immagine di Cristo con il suo cuore, pur non essendo in alcun modo oggetto di adorazione, non è una tra le tante che potremmo scegliere. Non è qualcosa di inventato a tavolino o disegnato da un artista, «non è un simbolo immaginario, è un simbolo reale, che rappresenta il centro, la fonte da cui è sgorgata la salvezza per l’umanità intera». [32]

53. C’è un’esperienza umana universale che rende unica tale immagine. È indubitabile, infatti, che nel corso della storia e in varie parti del mondo il cuore sia diventato simbolo dell’intimità più personale e anche degli affetti, delle emozioni, della capacità di amare. Al di là di ogni spiegazione scientifica, una mano posata sul cuore di un amico esprime un affetto speciale; quando ci si innamora e si sta vicino alla persona amata, il battito del cuore accelera; quando si subisce l’abbandono o l’inganno da parte di una persona cara, si sente come una forte oppressione sul cuore. Del resto, per esprimere che qualcosa è sincero, che viene davvero dal centro della persona, si dice: “Te lo dico di cuore”. Il linguaggio poetico non può ignorare la forza di queste esperienze. È quindi inevitabile che attraverso la storia il cuore abbia raggiunto una capacità simbolica unica, non meramente convenzionale.

54. Si comprende allora che la Chiesa abbia scelto l’immagine del cuore per rappresentare l’amore umano e divino di Gesù Cristo e il nucleo più intimo della sua Persona. Tuttavia, benché il disegno di un cuore con fiamme di fuoco possa essere un simbolo eloquente che ci ricorda l’amore di Gesù, è conveniente che questo cuore faccia parte di un’immagine di Gesù Cristo. In tal modo risulta ancora più significativa la sua chiamata a una relazione personale, di incontro e di dialogo. [33] Quell’immagine venerata di Cristo, dove risalta il suo cuore amoroso, ha nello stesso tempo uno sguardo che chiama all’incontro, al dialogo, alla fiducia; ha mani forti capaci di sostenerci; ha una bocca che ci rivolge la parola in modo unico e personalissimo.

55. Il cuore ha il pregio di essere percepito non come un organo separato, ma come un intimo centro unificatore e, allo stesso tempo, come espressione della totalità della persona, cosa che non succede con altri organi del corpo umano. Se è il centro intimo della totalità della persona, e quindi una parte che rappresenta il tutto, possiamo facilmente snaturarlo se lo contempliamo separatamente dalla figura del Signore. L’immagine del cuore deve metterci in relazione con la totalità di Gesù Cristo nel suo centro unificatore e, contemporaneamente, da quel centro unificatore, deve orientarci a contemplare Cristo in tutta la bellezza e la ricchezza della sua umanità e della sua divinità.

56. Questo va al di là dell’attrattiva che possono avere le varie immagini realizzate del Cuore di Cristo, perché, davanti alle immagini di Cristo, non «dobbiamo chiedere loro qualcosa», né «dobbiamo riporre la nostra fiducia nelle immagini, come facevano i pagani nei tempi antichi», ma «attraverso le immagini che baciamo e davanti alle quali ci scopriamo il capo e ci prostriamo, adoriamo Cristo». [34]

57. Inoltre, alcune di queste immagini possono sembrarci poco attraenti e non muoverci granché all’amore e alla preghiera. Questo è secondario, poiché l’immagine è solo una figura motivante e, come direbbero gli orientali, non bisogna fissare il dito che indica la luna. Mentre l’Eucaristia è presenza reale da adorare, in questo caso si tratta solo di un’immagine che, pur essendo benedetta, ci invita ad andare oltre, ci orienta a elevare il nostro cuore a quello di Cristo vivo e a unirlo a Lui. L’immagine venerata invita, indica, emoziona, affinché dedichiamo un tempo all’incontro con Cristo e alla sua adorazione, come ci sembra meglio immaginarlo. In questo modo, guardando l’immagine ci poniamo di fronte a Cristo, e dinanzi a Lui «l’amore si raccoglie, contempla il mistero e lo assapora in silenzio». [35]

58. Detto tutto questo, non dobbiamo dimenticare che l’immagine del cuore ci parla di carne umana, di terra, e perciò ci parla anche di Dio che ha voluto entrare nella nostra condizione storica, farsi storia e condividere il nostro cammino terreno. Una modalità di devozione più astratta o stilizzata non sarà necessariamente più fedele al Vangelo, perché in questo segno sensibile e accessibile si manifesta il modo in cui Dio ha voluto rivelarsi e farsi vicino.

Amore sensibile

59. Amore e cuore non sono necessariamente uniti, perché in un cuore umano possono regnare l’odio, l’indifferenza, l’egoismo. Ma non raggiungiamo la nostra piena umanità se non usciamo da noi stessi, e non diventiamo completamente noi stessi se non amiamo. Quindi il centro intimo della nostra persona, creato per l’amore, realizza il progetto di Dio solo se ama. Così, il simbolo del cuore simboleggia allo stesso tempo l’amore.

60. Il Figlio eterno di Dio, che mi trascende senza limiti, ha voluto amarmi anche con un cuore umano. I suoi sentimenti umani diventano sacramento di un amore infinito e definitivo. Il suo cuore non è dunque un simbolo fisico che esprime soltanto una realtà spirituale o separata dalla materia. Lo sguardo rivolto al Cuore del Signore contempla una realtà fisica, la sua carne umana, e questa rende possibile che Cristo abbia emozioni e sentimenti umani, come noi, benché pienamente trasformati dal suo amore divino. La devozione deve raggiungere l’amore infinito della persona del Figlio di Dio, ma dobbiamo affermare che esso è inseparabile dal suo amore umano, e a tale scopo ci aiuta l’immagine del suo cuore di carne.

61. Se ancora oggi il cuore è percepito nel sentimento popolare come il centro affettivo di ogni essere umano, esso è ciò che meglio può significare l’amore divino di Cristo unito per sempre e inseparabilmente al suo amore integralmente umano. Già Pio XII ricordava che la Parola di Dio, dove descrive «l’amore del Cuore di Gesù Cristo, non comprende soltanto la carità divina, ma si estende ai sentimenti dell’affetto umano. […] Pertanto il Cuore di Gesù Cristo, unito ipostaticamente alla Persona divina del Verbo, dovette indubbiamente palpitare d’amore e di ogni altro affetto sensibile». [36]

62. Nei Padri della Chiesa, a fronte di alcuni che negavano o relativizzavano la vera umanità di Cristo, troviamo una forte affermazione della realtà concreta e tangibile degli affetti umani del Signore. Così, San Basilio sottolinea che l’incarnazione del Signore non è qualcosa di fantasioso, ma che «il Signore ha posseduto gli affetti naturali». [37] San Giovanni Crisostomo propone un esempio: «Se non avesse avuto la nostra natura, non avrebbe sperimentato più volte la tristezza». [38] Sant’Ambrogio afferma: «Poiché ha preso l’anima, ha preso le passioni dell’anima». [39] E Sant’Agostino presenta gli affetti umani come una realtà che, una volta assunta da Cristo, non è più estranea alla vita della grazia: «Il Signore Gesù prese tutte queste conseguenze proprie della debolezza umana (come ne prese la morte corporale), non per una necessità impostagli, ma per una volontà di misericordia. […] Per cui, se a qualcuno fosse capitato di rattristarsi e di soffrire in mezzo alle tentazioni umane, non dovesse, perciò, ritenersi abbandonato dalla grazia di Cristo». [40] Infine, San Giovanni Damasceno ritiene che questa reale esperienza affettiva di Cristo nella sua umanità sia la prova che Egli ha assunto la nostra natura interamente e non parzialmente, per redimerla e trasformarla intera. Cristo ha dunque assunto tutti gli elementi che compongono la natura umana, affinché tutti fossero santificati. [41]

63. Vale la pena di riprendere qui la riflessione di un teologo, il quale riconosce che, «sotto l’influsso del pensiero greco, la teologia a lungo ha relegato il corpo e i sentimenti nel mondo del pre-umano, dell’infra-umano o della tentazione del vero umano, ma ciò che la teologia non ha risolto in teoria l’ha risolto la spiritualità in pratica. Essa e la religiosità popolare hanno mantenuto vivo il rapporto con gli aspetti somatici, psicologici e storici di Gesù. La Via Crucis, la devozione alle sue piaghe, la spiritualità del prezioso sangue, la devozione al cuore di Gesù, le pratiche eucaristiche […]. Tutto ciò ha colmato le lacune della teologia alimentando l’immaginazione e il cuore, l’amore e la tenerezza per Cristo, la speranza e la memoria, il desiderio e la nostalgia. La ragione e la logica hanno preso altre strade». [42]

Triplice amore

64. Non ci fermiamo nemmeno soltanto sui suoi sentimenti umani, per quanto belli e commoventi, perché contemplando il Cuore di Cristo riconosciamo come nei suoi nobili e sani sentimenti, nella sua tenerezza, nel vibrare del suo affetto umano, si manifesti tutta la verità del suo amore divino e infinito. Così lo esprimeva Benedetto XVI: «Dall’orizzonte infinito del suo amore, Dio ha voluto entrare nei limiti della storia e della condizione umana, ha preso un corpo e un cuore; così che noi possiamo contemplare e incontrare l’infinito nel finito, il Mistero invisibile e ineffabile nel Cuore umano di Gesù, il Nazareno». [43]

65. In realtà, c’è un triplice amore che è contenuto e ci abbaglia nell’immagine del Cuore del Signore. Innanzitutto, l’amore divino infinito che troviamo in Cristo. Ma pensiamo anche alla dimensione spirituale dell’umanità del Signore. Da questo punto di vista, il cuore «è il simbolo di quell’ardentissima carità, che, infusa nella sua anima, costituisce la preziosa dote della sua volontà umana». Infine, «è simbolo del suo amore sensibile». [44]

66. Questi tre amori non sono capacità separate, che funzionano in modo parallelo o slegato, bensì agiscono e si esprimono insieme e in un costante flusso di vita: «Alla luce, infatti, della fede, per la quale crediamo che nella Persona di Cristo esiste il connubio tra la natura umana e la divina, la nostra mente è resa idonea a concepire gli strettissimi vincoli che esistono tra l’amore sensibile del cuore fisico di Gesù e il suo duplice amore spirituale, l’umano e il divino». [45]

67. Perciò, entrando nel Cuore di Cristo, ci sentiamo amati da un cuore umano, pieno di affetti e sentimenti come i nostri. La sua volontà umana vuole liberamente amarci, e questa volontà spirituale è pienamente illuminata dalla grazia e dalla carità. Quando raggiungiamo l’intimo di quel Cuore, siamo inondati dalla gloria incommensurabile del suo amore infinito di Figlio eterno, che non possiamo più separare dal suo amore umano. È proprio nel suo amore umano, e non allontanandoci da esso, che troviamo il suo amore divino: troviamo «l’infinito nel finito». [46]

68. È un insegnamento costante e definitivo della Chiesa che la nostra adorazione alla sua Persona è unica e abbraccia inseparabilmente sia la sua natura divina che la sua natura umana. Fin dai tempi antichi la Chiesa insegna che dobbiamo «adorare un solo e medesimo Cristo, Figlio di Dio e dell’uomo, in due nature inseparabili e indivise». [47] E questo «con un’unica adorazione […], perché il Verbo si è fatto carne». [48] In nessun modo Cristo è «adorato in due nature, da cui si introducono due adorazioni», ma «il Verbo Dio incarnato con la propria carne è adorato con una sola adorazione». [49]

69. San Giovanni della Croce ha voluto esprimere che nell’esperienza mistica l’amore incommensurabile di Cristo risorto non è sentito come estraneo alla nostra vita. L’Infinito in qualche modo si abbassa affinché attraverso il Cuore aperto di Cristo possiamo vivere un incontro d’amore veramente reciproco: «È infatti possibile che un uccello di basso volo prenda un’aquila reale dal volo sublime, se questa, desiderando di essere presa, viene in basso ». [50] E spiega che «vedendo la sposa ferita dal suo amore e udendone il gemito, viene ferito dall’amore di lei giacché tra gli innamorati la ferita dell’uno è ferita dell’altro e unico è il sentimento che hanno ». [51]Questo mistico intende la figura del costato ferito di Cristo come una chiamata alla piena unione con il Signore. Egli è il cervo vulnerato, ferito quando non ci siamo ancora lasciati toccare dal suo amore, che scende ai ruscelli d’acqua per dissetarsi e trova conforto ogni volta che ci rivolgiamo a Lui:

«Volgiti, o colomba,
poiché il cervo ferito
sull’alto colle spunta
all’aura del tuo volo e il fresco prende». [52]

Prospettive trinitarie

70. La devozione al Cuore di Gesù è marcatamente cristologica; è una contemplazione diretta di Cristo che invita all’unione con Lui. Ciò è legittimo se teniamo presente quanto chiede la Lettera agli Ebrei: correre la nostra corsa «tenendo fisso lo sguardo su Gesù» (12,2). Tuttavia, non possiamo ignorare che, allo stesso tempo, Gesù si presenta come la via per andare al Padre: «Io sono la via […]. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» ( Gv 14,6). Egli vuole condurci al Padre. Ecco perché la predicazione della Chiesa, fin dall’inizio, non ci fa fermare a Gesù Cristo, ma ci conduce al Padre. È Lui che alla fine, come pienezza originaria, dev’essere glorificato. [53]

71. Soffermiamoci, ad esempio, sulla Lettera agli Efesini, dove si può vedere con forza e chiarezza come la nostra adorazione sia rivolta al Padre: «Io piego le ginocchia davanti al Padre» ( Ef 3,14). «C’è un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti» ( Ef 4,6). «Rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre» ( Ef 5,20). Il Padre è Colui al quale siamo destinati (cfr 1 Cor 8,6). Per questo motivo, San Giovanni Paolo II diceva che «tutta la vita cristiana è come un grande pellegrinaggio verso la casa del Padre». [54] È ciò che ha sperimentato Sant’Ignazio di Antiochia sulla via del martirio: «Un’acqua viva mormora dentro di me e mi dice: Vieni al Padre!» . [55]

72. È innanzitutto il Padre di Gesù Cristo: «Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo» ( Ef 1,3). È «il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria» ( Ef 1,17). Quando il Figlio si è fatto uomo, tutti i desideri e le aspirazioni del suo cuore umano erano rivolti al Padre. Se vediamo come Cristo si riferiva al Padre, possiamo cogliere questo fascino del suo cuore umano, questo perfetto e costante orientamento al Padre. [56] La sua storia su questa nostra terra è stata un camminare sentendo nel suo cuore umano una chiamata incessante ad andare al Padre. [57]

73. Sappiamo che la parola aramaica con cui Egli si rivolgeva al Padre era “Abbà”, che significa “papà, babbo”. Ai suoi tempi alcuni erano infastiditi da questa familiarità (cfr Gv 5,18). È l’espressione che Gesù ha usato per comunicare con il Padre quando è apparsa l’angoscia della morte: «Abbà (papà)! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu» (Mc 14,36). Sempre Egli si è riconosciuto amato dal Padre: «Mi hai amato prima della creazione del mondo» (Gv 17,24). E Gesù, nel suo cuore umano, era estasiato nell’ascoltare il Padre che gli diceva: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento» (Mc 1,11).

74. Il quarto Vangelo dice che il Figlio eterno del Padre è da sempre «nel seno del Padre» ( Gv 1,18). [58] Sant’Ireneo afferma che «il Figlio di Dio è sempre esistito al cospetto del Padre». [59] E Origene sostiene che il Figlio persevera «nell’incessante contemplazione dell’abisso paterno». [60] Per questo, quando il Figlio si è fatto uomo, passava notti intere a comunicare con il Padre amato, in cima al monte (cfr Lc 6,12). Diceva: «Devo occuparmi delle cose del Padre mio» ( Lc 2,49). Guardiamo le sue espressioni di lode: «Gesù esultò di gioia nello Spirito Santo e disse: «Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra» ( Lc 10, 21). E le sue ultime parole, piene di fiducia, furono: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» ( Lc 23,46).

75. Volgiamo ora lo sguardo allo Spirito Santo, che riempie il Cuore di Cristo e arde in Lui. Perché, come ha detto San Giovanni Paolo II, il Cuore di Cristo è «il capolavoro dello Spirito Santo». [61] Non è solo una cosa del passato, perché «nel Cuore di Cristo è viva l’azione dello Spirito Santo, a cui Gesù ha attribuito l’ispirazione della sua missione (cfr Lc 4,18; Is 61,1) e di cui aveva nell’Ultima Cena promesso l’invio. È lo Spirito che aiuta a cogliere la ricchezza del segno del costato trafitto di Cristo, dal quale è scaturita la Chiesa (cfr Cost. Sacrosanctum Concilium, 5)». [62] In definitiva, «solo lo Spirito Santo può aprire dinanzi a noi questa pienezza dell’“uomo interiore”, che si trova nel Cuore di Cristo. Solo Lui può far sì che da questa pienezza attingano forza, gradatamente, anche i nostri cuori umani». [63]

76. Se cerchiamo di addentrarci nel mistero dell’azione dello Spirito, vediamo che Egli geme in noi e dice “Abbà”: «Che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: “Abbà! Padre!”» (Gal 4,6). Infatti «lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio» (Rm 8,16). L’azione dello Spirito Santo nel cuore umano di Cristo provoca incessantemente questa attrazione verso il Padre. E quando ci unisce per la grazia ai sentimenti di Cristo, ci rende partecipi della relazione del Figlio con il Padre, è «lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: “Abbà! Padre!”» (Rm 8,15).

77. Il nostro rapporto con il Cuore di Cristo si trasforma allora sotto l’impulso dello Spirito, che ci orienta verso il Padre, fonte della vita e origine ultima della grazia. Cristo stesso non desidera che ci fermiamo solo a Lui. L’amore di Cristo è «rivelazione della misericordia del Padre». [64] Il suo desiderio è che, spinti dallo Spirito che sgorga dal suo Cuore, “con Lui e in Lui” andiamo al Padre. La gloria è rivolta al Padre “per” Cristo, [65] “con” Cristo [66] e “in” Cristo. [67] San Giovanni Paolo II insegnava che «il Cuore del Salvatore ci invita a risalire all’amore del Padre, che è la sorgente di ogni autentico amore». [68] È proprio questo che lo Spirito Santo, venendo a noi dal Cuore di Cristo, cerca di alimentare nei nostri cuori. Per questo la Liturgia, sotto l’azione vivificante dello Spirito, si rivolge sempre al Padre dal Cuore risorto di Cristo.

Espressioni magisteriali recenti

78. In diverse modalità il Cuore di Cristo è stato presente nella storia della spiritualità cristiana. Nella Bibbia e nei primi secoli della Chiesa appariva nella figura del costato ferito del Signore, come fonte della grazia o come richiamo a un intimo incontro d’amore. Così è costantemente riapparso nella testimonianza di molti santi fino al giorno d’oggi. Negli ultimi secoli questa spiritualità ha assunto la forma di un vero e proprio culto del Cuore del Signore.

79. Alcuni miei predecessori hanno fatto riferimento al Cuore di Cristo e con espressioni molto differenti hanno invitato a unirsi a Lui. Alla fine del XIX secolo, Leone XIII ci invitava a consacrarci a Lui e nella sua proposta univa al tempo stesso l’invito all’unione con Cristo e l’ammirazione per lo splendore del suo amore infinito. [69] Circa trent’anni dopo, Pio XI presentò questa devozione come un compendio dell’esperienza di fede cristiana. [70]Inoltre, Pio XII ha affermato che il culto del Sacro Cuore esprime in modo eccellente, come una sintesi sublime, il nostro culto a Gesù Cristo. [71]

80. Più recentemente, San Giovanni Paolo II ha presentato lo sviluppo di questo culto nei secoli passati come una risposta alla crescita di forme di spiritualità rigoriste e disincarnate che dimenticavano la misericordia del Signore, ma allo stesso tempo come un appello attuale davanti a un mondo che cerca di costruirsi senza Dio: «La devozione al Sacro Cuore, così come si è sviluppata nell’Europa di due secoli fa, sotto l’impulso delle esperienze mistiche di Santa Margherita Maria Alacoque, è stata la risposta al rigorismo giansenista, che aveva finito per misconoscere l’infinita misericordia di Dio. […] L’uomo del Duemila ha bisogno del Cuore di Cristo per conoscere Dio e per conoscere se stesso; ne ha bisogno per costruire la civiltà dell’amore». [72]

81. Benedetto XVI invitava a riconoscere il Cuore di Cristo come presenza intima e quotidiana nella vita di ciascuno: «Ogni persona ha bisogno di avere un “centro” della propria vita, una sorgente di verità e di bene a cui attingere per affrontare le varie situazioni e la fatica della vita quotidiana. Ognuno di noi, quando fa silenzio, ha bisogno di sentire non solo il battito del proprio cuore, ma anche, più profondamente, il battito di una presenza affidabile, percepibile con i sensi della fede e tuttavia molto più reale: la presenza di Cristo, cuore del mondo». [73]

Approfondimento e attualità

82. L’immagine espressiva e simbolica del Cuore di Cristo non è l’unica risorsa che lo Spirito Santo ci dà per incontrare l’amore di Cristo, e avrà sempre bisogno di essere arricchita, illuminata e rinnovata attraverso la meditazione, la lettura del Vangelo e la maturazione spirituale. Già Pio XII diceva che la Chiesa non pretende «di vedere e di adorare nel Cuore di Gesù l’immagine così detta formale, cioè il segno proprio e perfetto del suo amore divino, non essendo possibile che l’intima essenza di questo sia adeguatamente rappresentata da qualsiasi immagine creata». [74]

83. La devozione al Cuore di Cristo è essenziale per la nostra vita cristiana in quanto significa l’apertura piena di fede e di adorazione al mistero dell’amore divino e umano del Signore, tanto che possiamo affermare ancora una volta che il Sacro Cuore è una sintesi del Vangelo. [75] Bisogna ricordare che le visioni o le manifestazioni mistiche narrate da alcuni santi che hanno proposto con passione la devozione al Cuore di Cristo non sono qualcosa che i credenti sono obbligati a credere come se fossero la Parola di Dio. [76] Sono stimoli belli che possono motivare e fare molto bene, anche se nessuno deve sentirsi obbligato a seguirli se non trova che lo aiutino nel suo cammino spirituale. Va sempre ricordato, del resto, come affermava Pio XII, che non si può dire che questo culto «debba la sua origine a rivelazioni private». [77]

84. La proposta della Comunione eucaristica il primo venerdì di ogni mese, ad esempio, era un messaggio forte in un momento in cui molte persone smettevano di accostarsi alla Comunione perché non avevano fiducia nel perdono divino, nella sua misericordia, e consideravano la Comunione come una sorta di premio per i perfetti. In quel contesto giansenista, la promozione di questa pratica fece molto bene, aiutando a riconoscere nell’Eucaristia l’amore gratuito e vicino del Cuore di Cristo che ci chiama all’unione con Lui. Possiamo affermare che anche oggi farebbe molto bene per un altro motivo: perché in mezzo al vortice del mondo attuale e alla nostra ossessione per il tempo libero, il consumo e il divertimento, i telefonini e i social media, dimentichiamo di nutrire la nostra vita con la forza dell’Eucaristia.

85. Allo stesso modo, nessuno deve sentirsi obbligato a fare un’ora di adorazione il giovedì. Ma come non raccomandarla? Quando qualcuno vive questa pratica con fervore insieme a tanti fratelli e sorelle e trova nell’Eucaristia tutto l’amore del Cuore di Cristo, «adora insieme con la Chiesa il simbolo e quasi il vestigio della Carità divina, la quale si è spinta fino ad amare anche col Cuore del Verbo Incarnato il genere umano». [78]

86. Questo era difficile da capire per molti giansenisti, che guardavano dall’alto in basso tutto ciò che era umano, affettivo, corporeo, e in definitiva ritenevano che tale devozione ci allontanasse dalla più pura adorazione del Dio Altissimo. Pio XII definì «falso misticismo» [79] l’atteggiamento elitario di alcuni gruppi che vedevano Dio così alto, così separato, così distante, da considerare le espressioni sensibili della pietà popolare pericolose e bisognose del controllo ecclesiastico.

87. Si potrebbe sostenere che oggi, più che al giansenismo, ci troviamo di fronte a una forte avanzata della secolarizzazione, che aspira ad un mondo libero da Dio. A ciò si aggiunge che si stanno moltiplicando nella società varie forme di religiosità senza riferimento a un rapporto personale con un Dio d’amore, che sono nuove manifestazioni di una “spiritualità senza carne”. Questo è vero. Tuttavia, devo constatare che all’interno della Chiesa stessa il dannoso dualismo giansenista è rinato con nuovi volti. Ha acquistato nuova forza negli ultimi decenni, ma è una manifestazione di quello gnosticismo che già danneggiava la spiritualità nei primi secoli della fede cristiana, e che ignorava la verità della “salvezza della carne”. Per questo motivo rivolgo il mio sguardo al Cuore di Cristo e invito a rinnovare la sua devozione. Spero che possa essere attraente anche per la sensibilità di oggi e in tal modo ci aiuti ad affrontare questi vecchi e nuovi dualismi ai quali offre una risposta adeguata.

88. Vorrei aggiungere che il Cuore di Cristo ci libera allo stesso tempo da un altro dualismo: quello di comunità e pastori concentrati solo su attività esterne, riforme strutturali prive di Vangelo, organizzazioni ossessive, progetti mondani, riflessioni secolarizzate, su varie proposte presentate come requisiti che a volte si pretende di imporre a tutti. Ne risulta spesso un cristianesimo che ha dimenticato la tenerezza della fede, la gioia della dedizione al servizio, il fervore della missione da persona a persona, l’esser conquistati dalla bellezza di Cristo, l’emozionante gratitudine per l’amicizia che Egli offre e per il senso ultimo che dà alla vita personale. Insomma, un’altra forma di trascendentalismo ingannevole, altrettanto disincarnato.

89. Queste malattie tanto attuali, dalle quali, quando ci siamo lasciati catturare, non sentiamo nemmeno il desiderio di guarire, mi spingono a proporre a tutta la Chiesa un nuovo approfondimento sull’amore di Cristo rappresentato nel suo santo Cuore. Lì possiamo trovare tutto il Vangelo, lì è sintetizzata la verità che crediamo, lì vi è ciò che adoriamo e cerchiamo nella fede, ciò di cui abbiamo più bisogno.

90. Davanti al Cuore di Cristo è possibile tornare alla sintesi incarnata del Vangelo e vivere ciò che ho proposto poco tempo fa, ricordando l’amata Santa Teresa di Gesù Bambino: «L’atteggiamento più adeguato è riporre la fiducia del cuore fuori di noi stessi: nell’infinita misericordia di un Dio che ama senza limiti e che ha dato tutto nella Croce di Gesù». [80] Ella lo viveva intensamente perché aveva scoperto nel Cuore di Cristo che Dio è amore: «A me Egli ha donato la sua Misericordia infinita ed è attraverso essa che contemplo e adoro le altre perfezioni Divine!». [81] Ecco perché la preghiera più popolare, diretta come un dardo al Cuore di Cristo, dice semplicemente: “Confido in te”. [82] Non servono altre parole.

91. Nei prossimi capitoli metteremo in evidenza due aspetti fondamentali che oggi la devozione al Sacro Cuore dovrebbe tenere uniti per continuare a nutrirci e ad avvicinarci al Vangelo: l’esperienza spirituale personale e l’impegno comunitario e missionario.

IV.

L’AMORE CHE DÀ DA BERE

92. Torniamo alle Sacre Scritture, ai testi ispirati che sono il luogo principale in cui troviamo la Rivelazione. In esse e nella Tradizione viva della Chiesa è contenuto ciò che il Signore stesso ha voluto dirci per tutta la storia. A partire dalla lettura di testi dell’Antico e del Nuovo Testamento, raccoglieremo alcuni effetti della Parola nel lungo cammino spirituale del Popolo di Dio.

Sete dell’amore di Dio

93. La Bibbia mostra che al popolo che aveva camminato attraverso il deserto e che attendeva la liberazione era annunciata un’abbondanza di acqua vivificante: «Attingerete acqua con gioia alle sorgenti della salvezza» (Is 12,3). Gli annunci messianici vennero assumendo la forma di una sorgente di acqua purificante: «Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati. […] Metterò dentro di voi uno spirito nuovo» (Ez 36,25-26). È l’acqua che restituirà al popolo un’esistenza piena, come una sorgente che sgorga dal tempio e riversa al suo passaggio vita e salute: «Vidi che sulla sponda del torrente vi era una grandissima quantità di alberi da una parte e dall’altra. […] Ogni essere vivente che si muove dovunque arriva il torrente, vivrà […], perché dove giungono quelle acque, risanano, e là dove giungerà il torrente tutto rivivrà» (Ez 47,7.9).

94. La festa ebraica delle Tende ( Sukkot), che commemorava i quarant’anni nel deserto, aveva gradualmente assunto il simbolo dell’acqua come elemento centrale e prevedeva un rito di offerta dell’acqua ogni mattina, che diventava molto solenne l’ultimo giorno della festa: si faceva una grande processione fino al tempio dove, infine, si compivano sette giri intorno all’altare e si offriva l’acqua a Dio in mezzo a un gran baccano. [83]

95. L’annuncio dell’avvento del tempo messianico era presentato come una sorgente aperta per il popolo: «Riverserò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione: guarderanno a me, colui che hanno trafitto. […] In quel giorno vi sarà per la casa di Davide e per gli abitanti di Gerusalemme una sorgente zampillante per lavare il peccato e l’impurità» (Zc 12,10; 13,1).

96. Un uomo trafitto, una sorgente aperta, uno spirito di grazia e di preghiera. I primi cristiani in modo evidente vedevano realizzata questa promessa nel costato aperto di Cristo, fonte da cui promana la vita nuova. Scorrendo il Vangelo di Giovanni vediamo come quella profezia si sia realizzata in Cristo. Contempliamo il suo costato aperto, da cui è scaturita l’acqua dello Spirito: «Uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua» (Gv 19,34). Poi l’evangelista aggiunge: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (Gv 19,37). Riprende così l’annuncio del profeta che prometteva al popolo una sorgente aperta a Gerusalemme, quando avrebbero rivolto lo sguardo al trafitto (cfr Zc 12,10). La fonte aperta è il fianco ferito di Gesù.

97. Notiamo che il Vangelo stesso annunciava questo momento sacro, precisamente «nell’ultimo, il grande giorno della festa» delle Tende (Gv 7,37). Allora Gesù gridò al popolo festante nella grande processione: «Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva […] dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva» (Gv 7,37-38). Perché ciò si attuasse doveva venire la sua “ora”, perché Gesù «non era ancora stato glorificato» (Gv 7,39). Tutto si è compiuto nella sorgente traboccante della Croce.

98. Nel Libro dell’Apocalisse riappaiono sia il Trafitto: «Ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero» (Ap 1,7), sia la fonte aperta: «Chi ha sete venga; chi vuole, prenda gratuitamente l’acqua della vita» (Ap 22,17).

99. Il costato trafitto è allo stesso tempo la sede dell’amore, un amore che Dio ha dichiarato al suo popolo con tante parole diverse che vale la pena ricordare:

«Tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo» (Is 43,4).

«Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai. Ecco, sulle palme delle mie mani ti ho disegnato» (Is 49,15-16).

«Anche se i monti si spostassero e i colli vacillassero, non si allontanerebbe da te il mio affetto, né vacillerebbe la mia alleanza di pace» (Is 54,10).

«Ti ho amato di amore eterno, per questo continuo a esserti fedele» (Ger 31,3).

«Il Signore, tuo Dio, in mezzo a te è un salvatore potente. Gioirà per te, ti rinnoverà con il suo amore, esulterà per te con grida di gioia» (Sof 3,17).

100. Il profeta Osea arriva a parlare del cuore di Dio: «Li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore» (Os 11,4). A causa di questo stesso amore disprezzato, poteva dire: «Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione» (Os11,8). Ma sempre vincerà la misericordia (cfr Os 11,9), che raggiungerà la sua massima espressione in Cristo, la parola d’amore definitiva.

101. Nel Cuore trafitto di Cristo si concentrano, scritte nella carne, tutte le espressioni d’amore delle Scritture. Non si tratta di un amore semplicemente dichiarato, ma il suo costato aperto è sorgente di vita per quanti sono amati, è quella fonte che sazia la sete del suo popolo. Come insegnava San Giovanni Paolo II, «gli elementi essenziali di tale devozione appartengono dunque in modo permanente alla spiritualità della Chiesa nel corso della sua storia, poiché fin dal principio la Chiesa ha rivolto il suo sguardo al cuore di Cristo trafitto sulla croce». [84]

Risonanze della Parola nella storia

102. Consideriamo alcuni effetti che questa Parola di Dio ha prodotto nella storia della fede cristiana. Diversi Padri della Chiesa, soprattutto dell’Asia Minore, hanno menzionato la ferita nel costato di Gesù come origine dell’acqua dello Spirito: della Parola, della sua grazia e dei sacramenti che la comunicano. La forza dei martiri vive della «sorgente celeste dell’acqua viva che sgorga dalle viscere di Cristo», [85] o, come traduce Rufino, delle «sorgenti celesti ed eterne che procedono dalle viscere di Cristo». [86] Noi credenti, che siamo rinati dallo Spirito, veniamo da quella grotta della roccia, «siamo usciti dal grembo di Cristo». [87] Il suo costato ferito, che interpretiamo come il suo cuore, è pieno dello Spirito Santo e da Lui giunge a noi come fiumi di acqua viva: «La sorgente dello Spirito è interamente in Cristo». [88] Ma lo Spirito che riceviamo non ci allontana dal Signore risorto, bensì ci riempie di Lui, perché bevendo lo Spirito beviamo Cristo stesso: «Bevi Cristo, perché Egli è la roccia che riversa acqua. Bevi Cristo perché Egli è la fonte della vita. Bevi Cristo perché Egli è il fiume la cui forza rallegra la città di Dio. Bevi Cristo perché Egli è la pace. Bevi Cristo, perché dal suo seno sgorga acqua viva». [89]

103. Sant’Agostino ha aperto la strada alla devozione al Sacro Cuore come luogo di incontro personale con il Signore. Per lui, cioè, il petto di Cristo non è solo la fonte della grazia e dei sacramenti, ma lo personalizza, presentandolo come simbolo dell’unione intima con Cristo, come luogo di un incontro d’amore. Lì sta l’origine della sapienza più preziosa, che è quella di conoscere Lui. Infatti, Agostino scrive che Giovanni, l’amato, quando nell’ultima Cena chinò il capo sul petto di Gesù, si accostò al luogo segreto della sapienza. [90] Non siamo di fronte a una semplice contemplazione intellettuale di una verità teologica. San Girolamo spiegava che una persona capace di contemplazione «non gode della bellezza del ruscello d’acqua, ma beve l’acqua viva del costato del Signore». [91]

104. San Bernardo ha ripreso il simbolismo del costato trafitto del Signore, intendendolo esplicitamente come rivelazione e dono dell’amore del suo Cuore. Attraverso la ferita diventa accessibile a noi e possiamo fare nostro il grande mistero dell’amore e della misericordia: «Prendo per me dalle viscere del Signore quanto mi manca, perché abbondano in misericordia, né mancano le fenditure per cui possano scorrere fino a me. Hanno forato le sue mani e i suoi piedi, hanno squarciato il fianco con la lancia, e attraverso queste fessure io posso succhiare il miele della pietra e l’olio del durissimo sasso, cioè gustare e vedere com’è soave il Signore. […] Il ferro trapassò la sua anima, e si avvicinò al suo cuore perché ormai non possa più non compatire le mie debolezze. È aperto l’ingresso al segreto del cuore per le ferite del corpo, appare quel grande sacramento della pietà, appaiono le viscere di misericordia del nostro Dio». [92]

105. Questo si ripresenta in modo particolare in Guglielmo di Saint-Thierry, che invita ad entrare nel Cuore di Gesù, che ci nutre al suo stesso seno. [93] Ciò non sorprende, se ricordiamo che per questo autore «l’arte delle arti è l’arte dell’amore. […] L’amore è suscitato dal Creatore della natura […]. L’amore è una forza dell’anima, che la conduce come per un peso naturale al luogo e al fine che le è proprio». [94] E il luogo che le è proprio, dove l’amore regna in pienezza, è il Cuore di Cristo: «Signore, dove conduci coloro che abbracci e stringi tra le tue braccia, se non al tuo cuore? Il tuo cuore, Gesù, è la dolce manna della tua divinità (cfr Eb 9,4), che conservi in te nel vaso d’oro della tua anima, che supera ogni conoscenza. Beati coloro che sono condotti fin lì dal tuo abbraccio. Beati coloro che, immersi in queste profondità, sono stati nascosti da te nel segreto del tuo cuore». [95]

106. San Bonaventura unisce le due linee spirituali intorno al Cuore di Cristo: mentre lo presenta come fonte dei sacramenti e della grazia, propone che questa contemplazione diventi un rapporto di amicizia, un incontro personale di amore.

107. Da un lato, ci aiuta a riconoscere la bellezza della grazia e dei sacramenti che scaturiscono da quella fonte di vita che è il costato ferito del Signore: «Affinché dal costato di Cristo addormentato sulla croce si formasse la Chiesa e si adempisse la Scrittura che dice: “Guarderanno colui che hanno trafitto”, uno dei soldati lo colpì con una lancia e gli aprì il costato. E ciò fu permesso dalla divina provvidenza, affinché, sgorgando dalla ferita sangue e acqua, si riversasse il prezzo della nostra salvezza, che, emanando dall’arcana fonte del cuore, desse ai sacramenti della Chiesa la virtù di conferire la vita della grazia, e fosse per coloro che vivono in Cristo come una coppa riempita alla sorgente viva, che zampilla fino alla vita eterna». [96]

108. Ci invita poi a fare un altro passo, affinché l’accesso alla grazia non diventi qualcosa di magico, o una sorta di emanazione di tipo neoplatonico, ma un rapporto diretto con Cristo, abitando nel suo Cuore, perché chi beve è amico di Cristo, è un cuore che ama: «Alzati, dunque, anima amica di Cristo, e sii la colomba che nidifica nella parete di una grotta; sii il passero che ha trovato una casa e non cessa di custodirla; sii la tortora che nasconde i pulcini del suo casto amore in quell’apertura sacratissima». [97]

La diffusione della devozione al Cuore di Cristo

109. A poco a poco il costato ferito, dove risiede l’amore di Cristo, da cui a sua volta promana la vita della grazia, venne assumendo la figura del cuore, soprattutto nella vita monastica. Sappiamo che nel corso della storia il culto del Cuore di Cristo non si è manifestato in modi uguali e che gli aspetti sviluppati in epoca moderna, legati a varie esperienze spirituali, non possono essere estrapolati e accostati alle forme medievali e ancor meno a quelle bibliche in cui possiamo intravedere i semi di questo culto. Tuttavia, oggi la Chiesa non disprezza nulla del bene che lo Spirito Santo ci ha donato nel corso dei secoli, sapendo che sarà sempre possibile riconoscere un significato più chiaro e pieno di alcuni particolari della devozione, o comprenderne e svelarne nuovi aspetti.

110. Diverse donne sante hanno raccontato esperienze del loro incontro con Cristo, caratterizzato dal riposo nel Cuore del Signore, fonte di vita e di pace interiore. È il caso di Santa Lutgarda, di Santa Matilde di Hackeborn, di Santa Angela da Foligno, di Giuliana di Norwich, tra le altre. Santa Gertrude di Helfta, monaca cistercense, ha narrato un momento di preghiera in cui ha appoggiato il capo sul Cuore di Cristo e ne ha ascoltato il battito. In un dialogo con San Giovanni Evangelista gli chiese perché nel suo Vangelo non avesse parlato di ciò che aveva provato quando aveva fatto questa medesima esperienza. Gertrude conclude che «la dolcezza di questi battiti è stata riservata ai tempi moderni, affinché, ascoltandoli, possa rinnovarsi il mondo invecchiato e tiepido nell’amore di Dio». [98] Potremmo forse pensare che sia un annuncio per i nostri tempi, un richiamo a riconoscere quanto questo mondo sia diventato “vecchio”, bisognoso di percepire il messaggio sempre nuovo dell’amore di Cristo? Santa Gertrude e Santa Matilde sono state considerate tra «le più intime confidenti del Sacro Cuore». [99]

111. I certosini, incoraggiati soprattutto da Ludolfo di Sassonia, trovarono nella devozione al Sacro Cuore una via per riempire di affetto e di vicinanza il loro rapporto con Gesù Cristo. Chi entra attraverso la ferita del suo Cuore si infiamma di affetto. Santa Caterina da Siena ha scritto che le sofferenze patite dal Signore non sono qualcosa a cui possiamo presenziare, ma che il Cuore aperto di Cristo è per noi la possibilità di un incontro attuale e personale con tanto amore: «Questo vi manifestai nell’apritura del lato mio, dove truovi el segreto del cuore: mostrando che Io v’amo più che mostrare non posso con questa pena finita». [100]

112. La devozione al Cuore di Cristo ha oltrepassato gradualmente la vita monastica e ha colmato la spiritualità di santi maestri, predicatori e fondatori di congregazioni religiose che l’hanno diffusa nei luoghi più remoti della terra. [101]

113. Di particolare interesse fu l’iniziativa di San Giovanni Eudes, che «dopo aver svolto con i suoi missionari una ferventissima missione a Rennes, ottenne che monsignor Vescovo approvasse per quella diocesi la celebrazione della festa del Cuore adorabile di Nostro Signore Gesù Cristo. Questa fu la prima volta che tale festa venne ufficialmente autorizzata nella Chiesa. In seguito, i Vescovi di Coutances, Evreux, Bayeux, Lisieux e Rouen autorizzarono la stessa festa per le rispettive diocesi tra il 1670 e il 1671». [102]

San Francesco di Sales

114. Nei tempi moderni è degno di nota il contributo di San Francesco di Sales. Egli contemplava spesso il Cuore aperto di Cristo, che invita a dimorare dentro di Lui in una relazione personale di amore, nella quale si illuminano i misteri della vita. Possiamo vedere nel pensiero di questo santo dottore come, di fronte a una morale rigorista o a una religiosità di mera osservanza, il Cuore di Cristo gli apparisse come un richiamo alla piena fiducia nell’azione misteriosa della sua grazia. Così lo esprimeva nella sua proposta alla baronessa di Chantal: «Mi è molto chiaro che noi non rimarremo più in noi stessi […] e che dimoreremo per sempre nel fianco squarciato del Salvatore; senza di lui, infatti, noi non solo non possiamo, ma anche se potessimo, non vorremmo fare niente». [103]

115. Per lui la devozione era ben lontana dal diventare una forma di superstizione o un’indebita oggettivazione della grazia, perché significava l’invito a una relazione personale in cui ciascuno si sente unico davanti a Cristo, riconosciuto nella sua realtà irripetibile, pensato da Cristo e considerato in modo diretto ed esclusivo: «Questo adorabilissimo e amabilissimo cuore del nostro Maestro, ardente dell’amore che professa per noi, cuore in cui vediamo scritti tutti i nostri nomi […]. È certamente un argomento di grandissima consolazione il fatto di essere amati con tanto affetto da Nostro Signore che ci porta sempre nel suo Cuore». [104] Quel nome proprio scritto sul Cuore di Cristo era il modo in cui San Francesco di Sales cercava di simboleggiare fino a che punto l’amore di Cristo per ciascuno non è astratto o generico, ma implica una personalizzazione per cui il credente si sente valorizzato e riconosciuto per sé stesso: «Quanto è bello questo cielo ora che il Salvatore ne è divenuto il sole e il suo petto è una sorgente d’amore alla quale i beati bevono a sazietà. Ognuno va a contemplarlo e vi vede scritto, dentro, il suo amore a caratteri di amore che solo l’amore sa leggere e che solo l’amore ha scolpiti. Ah, Figlia mia, i nostri nomi non vi figureranno? Sì, vi figureranno senza dubbio, perché sebbene il nostro cuore non abbia l’amore, ha però il desiderio dell’amore e l’inizio dell’amore». [105]

116. Egli considerava questa esperienza come qualcosa di fondamentale per una vita spirituale che poneva tale convinzione tra le grandi verità di fede: «Sì, mia carissima Figlia, Egli pensa a voi, e non solo a voi, ma anche al più piccolo fra i capelli del vostro capo: è una verità di fede che non bisogna assolutamente mettere in dubbio». [106] Ne consegue che il credente diventa capace di abbandonarsi completamente nel Cuore di Cristo, dove trova riposo, consolazione e forza: «O Dio, che felicità stare così tra le braccia e sul petto [del Salvatore]. […] Rimanete così, Figlia cara, e come un altro piccolo San Giovanni, mentre gli altri mangiano vari cibi alla tavola del Salvatore, voi riposate e inclinate, con semplicissima fiducia, la vostra testa, la vostra anima, il vostro spirito sul petto amorevole del caro Signore». [107] «Spero che voi siate con lo spirito nella caverna della tortorella e nel fianco squarciato del nostro caro Salvatore. […] Com’è buono questo Signore, cara figlia mia! Come il suo cuore è amabile! Rimaniamo lì, in quel santo domicilio». [108]

117. Fedele, tuttavia, al suo insegnamento sulla santificazione nella vita ordinaria, egli propone che ciò sia vissuto in mezzo alle attività, ai compiti e ai doveri della vita quotidiana: «Mi chiedete come debbano comportarsi in tutte le loro azioni le anime che sono attratte nella preghiera a questa santa semplicità e a questo perfetto abbandono a Dio? Rispondo che, non solo nella preghiera, ma nella condotta di tutta la loro vita, devono invariabilmente camminare in spirito di semplicità, abbandonando e consegnando tutta la loro anima, le loro azioni e i loro successi alla volontà di Dio, con un amore di perfetta e assoluta fiducia, abbandonandosi alla grazia e alla cura dell’amore eterno che la Divina Provvidenza prova per loro». [109]

118. Per tutti questi motivi, quando si trattò di pensare a un simbolo che potesse riassumere la sua proposta di vita spirituale, egli concluse: «Ho dunque pensato, mia cara Madre, se siete d’accordo, che dobbiamo prendere come nostro stemma un unico cuore trafitto da due frecce, racchiuso in una corona di spine». [110]

Una nuova dichiarazione d’amore

119. È sotto il salutare influsso di questa spiritualità di San Francesco di Sales che si svolsero gli eventi di Paray-le-Monial alla fine del XVII secolo. Santa Margherita Maria Alacoque ha raccontato importanti apparizioni avvenute tra la fine di dicembre 1673 e il giugno 1675. Fondamentale è una dichiarazione d’amore che spicca nella prima grande apparizione. Gesù dice: «Il mio divin Cuore è tanto appassionato d’amore per gli uomini e per te in particolare, che, non potendo più contenere in sé stesso le fiamme del suo ardente Amore, sente il bisogno di diffonderle per mezzo tuo e di manifestarsi agli uomini per arricchirli dei preziosi tesori che ti scoprirò». [111]

120. Santa Margherita Maria riassume tutto in modo potente e fervoroso: «Mi scoprì le meraviglie del suo Amore e i segreti inesplicabili del suo Sacro Cuore, che mi aveva tenuti nascosti fino a quel momento, nel quale me lo aprì per la prima volta. E lo fece in modo così reale e sensibile da non permettermi ombra di dubbio». [112] Nelle manifestazioni successive viene ribadita la bellezza di questo messaggio: «Mi svelò le meraviglie inesplicabili del suo puro Amore e fino a quale eccesso questo lo avesse spinto ad amare gli uomini». [113]

121. Questo intenso riconoscimento dell’amore di Gesù che Santa Margherita Maria ci ha trasmesso ci offre preziosi stimoli per la nostra unione con Lui. Ciò non significa che ci sentiamo obbligati ad accettare o ad assumere tutti i dettagli di questa proposta spirituale, dove, come spesso accade, all’azione divina si mescolano elementi umani legati ai desideri, alle preoccupazioni e alle immagini interiori del soggetto. [114] Tale proposta dev’essere sempre riletta alla luce del Vangelo e di tutta la ricca tradizione spirituale della Chiesa, mentre riconosciamo quanto bene ha fatto in tante sorelle e in tanti fratelli. Questo ci permette di riconoscere doni dello Spirito Santo all’interno di questa esperienza di fede e di amore. Più importante dei dettagli è il nucleo del messaggio che ci viene trasmesso e che può essere riassunto in quelle parole che Santa Margherita ha udito: «Ecco quel Cuore che tanto ha amato gli uomini e che nulla ha risparmiato fino ad esaurirsi e a consumarsi per testimoniare loro il suo Amore». [115]

122. Questa manifestazione è un invito a crescere nell’incontro con Cristo, grazie a una fiducia senza riserve, fino a raggiungere un’unione piena e definitiva: «Il divin Cuore di Gesù si sostituisca talmente a noi da vivere e agire solo in noi e per noi. La sua Volontà […] possa agire assolutamente senza resistenza da parte nostra; in conclusione, gli affetti, i desideri, i pensieri suoi siano al posto dei nostri, ma soprattutto il suo amore che si amerà da sé stesso in noi e per noi. E così, quell’amabile Cuore di Gesù essendo per noi tutto in ogni cosa, potremo dire con san Paolo che non viviamo più noi ma che è lui che vive in noi». [116]

123. In effetti, nel primo messaggio ricevuto, ella presenta questa esperienza in modo più personale, più concreto, pieno di fuoco e di tenerezza: «Mi domandò il cuore e io Lo supplicai di prenderlo. Lo prese e lo mise nel suo Cuore adorabile, nel quale me lo fece vedere come un piccolo atomo, che si consumava in quella fornace ardente». [117]

124. In un altro punto notiamo che Colui che si dona a noi è il Cristo risorto, pieno di gloria, pieno di vita e di luce. Anche se in vari momenti parla delle sofferenze che ha sopportato per noi e dell’ingratitudine che riceve, qui non sono il sangue e le ferite dolorose a risaltare, ma la luce e il fuoco del Vivente. Le ferite della Passione, che non scompaiono, vengono trasfigurate. Così, il Mistero della Pasqua si manifesta qui nella sua interezza: «Una volta, […] mentre era esposto il Santo Sacramento, […] Gesù Cristo, il mio dolce Maestro, si presentò a me tutto splendente di gloria con le sue cinque piaghe sfolgoranti come cinque soli. Da ogni parte di quella sacra Umanità si sprigionavano fiamme, ma soprattutto dal suo adorabile petto, che somigliava a una fornace ardente. Dopo averlo scoperto, mi mostrò il suo amante e amabilissimo Cuore, sorgente viva di quelle fiamme. Fu allora che mi svelò le meraviglie inesplicabili del suo puro Amore e fino a quale eccesso questo lo avesse spinto ad amare gli uomini, dai quali poi non riceveva in cambio che ingratitudini e indifferenza». [118]

San Claudio de La Colombière

125. Quando San Claudio de La Colombière venne a conoscenza delle esperienze di Santa Margherita, ne divenne immediatamente difensore e divulgatore. Egli ebbe un ruolo speciale nella comprensione e nella diffusione di questa devozione al Sacro Cuore, ma anche nella sua interpretazione alla luce del Vangelo.

126. Mentre alcune espressioni di Santa Margherita, se fraintese, potevano indurre a confidare troppo nei propri sacrifici e nelle proprie offerte, San Claudio mostra che la contemplazione del Cuore di Cristo, se è autentica, non provoca un compiacimento in sé stessi o una vanagloria nelle esperienze o negli sforzi umani, bensì un indescrivibile abbandono in Cristo che riempie la vita di pace, di sicurezza, di decisione. Egli ha espresso molto bene questa fiducia assoluta in una famosa preghiera:

«Per me, o mio Dio, son troppo persuaso che voi vegliate sopra coloro che sperano in voi, e che non può mancar loro cosa alcuna, quando sperano tutto da voi. Son risoluto perciò di vivere per l’avvenire senza cruccio alcuno, e di rimettere a voi tutte le mie inquietudini […]. Non perderò giammai la mia speranza, la manterrò fino all’ultimo momento di mia vita; e tutti i demoni dell’inferno invano si affaticheranno in quel punto per levarmela […]. Aspetti pure chi vuole la sua felicità dalle ricchezze o dall’ingegno; confidi altri nell’innocenza della sua vita o nel rigore della sua penitenza, o nell’abbondanza delle sue limosine, o nel fervore delle sue preghiere […]. Per me, Signore, tutta la mia confidenza sta riposta in voi solo. Né questa confidenza ingannò mai alcuno […]. Posso dunque star sicuro che sarò eternamente felice, perché spero fermamente d’esserlo e perché è voi, o mio Dio, siete quello da cui lo spero». [119]

127. San Claudio scrisse una nota nel gennaio del 1677, preceduta da alcune righe che si riferiscono alla certezza che sentiva circa la propria missione: «Ho saputo che Dio ha voluto che lo servissi cercando di realizzare i suoi desideri riguardo alla devozione che Egli ha suggerito a una persona a cui si comunica in modo confidenziale, e a favore della quale ha voluto servirsi della mia debolezza; già l’ho ispirata a parecchie persone». [120]

128. È importante notare come, nella spiritualità di La Colombière, ci sia una felice sintesi tra la ricca e bella esperienza spirituale di Santa Margherita e la contemplazione molto concreta degli Esercizi ignaziani. Egli scriveva all’inizio della Terza Settimana del mese di Esercizi: «Due cose mi hanno commosso straordinariamente. La prima è la disposizione con cui Gesù si è presentato a coloro che lo cercavano. Il suo Cuore è immerso in un’orribile amarezza; tutte le passioni sono sciolte dentro di Lui, l’intera natura è sconcertata, e attraverso tutti questi disordini, tutte queste tentazioni, il Cuore si rivolge direttamente a Dio; non esita a prendere la parte suggeritagli dalla virtù e dalla più alta virtù. La seconda cosa è il comportamento di questo stesso Cuore nei confronti di Giuda che lo tradisce, degli apostoli che lo abbandonano vigliaccamente, dei sacerdoti e degli altri autori della persecuzione a cui è sottoposto; tutto ciò non è stato in grado di suscitare in Lui il minimo sentimento di odio o di indignazione. Mi rappresento, dunque, quel Cuore senza amarezza, senza acrimonia, pieno di vera tenerezza verso i suoi nemici». [121]

San Charles de Foucauld e Santa Teresa di Gesù Bambino

129. San Charles de Foucauld e Santa Teresa di Gesù Bambino, senza averne la pretesa, hanno rimodellato alcuni elementi della devozione al Cuore di Cristo, aiutandoci a comprenderla in modo ancora più fedele al Vangelo. Vediamo ora come questa devozione si è espressa nella loro vita. Nel prossimo capitolo torneremo su di loro per mostrare l’originalità della dimensione missionaria che entrambi, in modi diversi, hanno sviluppato.

Iesus Caritas

130. A Louye, San Charles de Foucauld faceva visita al Santissimo Sacramento con sua cugina, Madame de Bondy, e un giorno lei gli indicò un’immagine del Sacro Cuore. [122] Questa cugina è stata fondamentale nella conversione di Carlo, come egli stesso riconosce: «Giacché il buon Dio vi ha reso il primo strumento delle sue misericordie nei miei confronti, esse discendono tutte da voi: se voi non mi aveste convertito, ricondotto a Gesù, se non mi aveste insegnato a poco a poco, quasi parola per parola, ciò che è buono e pio, sarei oggi a questo punto?». [123] Ma ciò che ella ha risvegliato in lui è proprio l’ardente consapevolezza dell’amore di Gesù. Era tutto lì, questa era la cosa più importante. E questo si concentrava particolarmente nella devozione al Cuore di Cristo, dove egli trovava una misericordia senza limiti: «Speriamo nella misericordia infinita di Colui del quale mi avete fatto conoscere il Sacro Cuore». [124]

131. In seguito il suo direttore spirituale, Don Henri Huvelin, lo aiuterà ad approfondire tale prezioso mistero: «Questo Cuore benedetto di cui Lei ci parlava così spesso». [125] Il 6 giugno 1889, Carlo si consacrò al Sacro Cuore, nel quale trovava un amore assoluto. Egli dice a Cristo: «Mi avete talmente colmato di benefici che mi sembrerebbe essere ingrati verso il vostro cuore non credere che esso è pronto a colmarmi di ogni bene, per quanto grande esso sia, e che il suo amore come la sua generosità sono senza misura». [126] Egli sarà l’eremita «sotto il nome del Sacro Cuore». [127]

132. Il 17 maggio 1906, lo stesso giorno in cui fratel Carlo, da solo, non può più celebrare la Messa, scrive questa promessa: «Lasciar vivere in me il Cuore di Gesù affinché non sia più io che vivo, ma il Cuore di Gesù che vive in me, com’Egli viveva a Nazaret». [128] La sua amicizia con Gesù, cuore a cuore, non aveva nulla di un devozionismo intimistico. Era la radice di quella vita spogliata di Nazaret con cui Carlo voleva imitare Cristo e configurarsi a Lui. Quella tenera devozione al Cuore di Cristo ebbe conseguenze molto concrete sul suo stile di vita e la sua Nazaret si nutriva di tale relazione molto personale con il Cuore di Cristo.

Santa Teresa di Gesù Bambino

133. Come San Charles de Foucauld, Santa Teresa di Gesù Bambino respirò l’enorme devozione che inondava la Francia nel XIX secolo. Il sacerdote Almire Pichon era il direttore spirituale della sua famiglia ed era considerato un grande apostolo del Sacro Cuore. Una delle sue sorelle prese il nome religioso di “Maria del Sacro Cuore”, e il monastero in cui la Santa entrò era dedicato al Sacro Cuore. Tuttavia, la sua devozione assunse alcune caratteristiche proprie, al di là delle forme in cui si esprimeva all’epoca.

134. Quando aveva quindici anni, trovò un modo per riassumere il suo rapporto con Gesù: «Colui il cui cuore batteva all’unisono col mio». [129] Due anni dopo, quando le parlavano di un Cuore coronato di spine, aggiungeva in una lettera: «Tu lo sai: io non guardo al Sacro Cuore come tutti; penso che il cuore del mio sposo è solo mio, così come il mio appartiene solo a lui, e allora nella solitudine gli parlo di questo delizioso cuore a cuore, aspettando di contemplarlo un giorno faccia a faccia». [130]

135. In una poesia ella ha espresso il senso della sua devozione, fatta più di amicizia e fiducia che di sicurezza nei propri sacrifici:

«Un cuore caldo di tenerezza cerco,
che sostegno mi sia senza ricambio,
che tutto di me, debolezza inclusa,
ami e giorno e notte non m’abbandoni […].

Io voglio un Dio che con la mia natura
mi sia fratello e soffrire possa […].
Ben lo so tutte le giustizie nostre
non han valore alcuno agli occhi suoi […].

Per purgatorio mio scelgo felice
l’Amore tuo ardente, Cuore del mio Dio!». [131]

136. Forse il testo più importante per poter comprendere il significato della sua devozione al Cuore di Cristo è la lettera che scrisse, tre mesi prima di morire, all’amico Maurice Bellière: «Quando vedo Maddalena avanzarsi in mezzo ai numerosi convitati, bagnare con le sue lacrime i piedi del suo Maestro adorato, che lei tocca per la prima volta, sento che il suo cuore ha compreso gli abissi d’amore e di misericordia del Cuore di Gesù e che, per quanto peccatrice sia, questo Cuore d’amore non solo è disposto a perdonarla, ma anche a prodigarle i benefici della sua intimità divina, ad elevarla fino alle più alte cime della contemplazione. Ah, caro piccolo Fratello mio, da quando mi è stato dato di capire così l’amore del Cuore di Gesù, le confesso che esso ha scacciato dal mio cuore ogni timore. Il ricordo delle mie colpe mi umilia, mi induce a non appoggiarmi mai sulla mia forza che non è che debolezza; ma ancor più questo ricordo mi parla di misericordia e di amore». [132]

137. Le menti moralistiche, che pretendono di controllare la misericordia e la grazia, direbbero che ella poteva dire questo perché era santa, ma che un peccatore non potrebbe dirlo. Così facendo, tralasciano della spiritualità di Teresa la sua bella novità che riflette il cuore del Vangelo. Purtroppo, è diventato frequente in alcuni ambienti cristiani questo intento di rinchiudere lo Spirito Santo in uno schema che permetta di avere tutto sotto la propria supervisione. Tuttavia, questa saggia Dottore della Chiesa li smentisce e contraddice direttamente tale interpretazione riduttiva con le seguenti parole molto chiare: «Se avessi commesso tutti i crimini possibili, avrei sempre la stessa fiducia, sento che tutta questa moltitudine di offese sarebbe come una goccia d’acqua gettata in un braciere ardente». [133]

138. A suor Maria, che la lodava per il suo generoso amore a Dio, disposto anche al martirio, risponde ampiamente in una lettera che oggi è una delle pietre miliari della storia della spiritualità. Questa pagina andrebbe letta mille volte per la sua profondità, chiarezza e bellezza. In essa aiuta la sorella “del Sacro Cuore” a non concentrare tale devozione su un aspetto doloristico, giacché alcuni intendevano la riparazione come una sorta di primato dei sacrifici o di adempimento moralistico. Lei, invece, riassume tutto nella fiducia come la migliore offerta, gradita al Cuore di Cristo: «I miei desideri di martirio non sono nulla; non sono quei desideri che mi danno la fiducia illimitata che sento nel cuore. A dire il vero, sono le ricchezze spirituali che rendono ingiusti quando ci si riposa in esse con compiacenza e si crede che siano qualcosa di grande. […] Ciò che gli piace è di vedermi amare la mia piccolezza e la mia povertà, è la cieca speranza che ho nella sua misericordia! Ecco il mio solo tesoro. […] Se lei desidera sentire gioia, essere attratta dalla sofferenza, lei cerca la sua consolazione. […] Comprenda che, per amare Gesù, per essere sua vittima d’amore, più si è deboli, senza desideri né virtù, più si è adatti alle operazioni di questo Amore che consuma e trasforma! […] Oh, come vorrei poterle far capire quel che sento! È la fiducia e null’altro che la fiducia che deve condurci all’Amore!». [134]

139. In molti dei suoi testi si nota la sua lotta contro forme di spiritualità troppo incentrate sullo sforzo umano, sul merito proprio, sull’offerta di sacrifici, su determinati adempimenti per “guadagnarsi il cielo”. Per lei, «il merito non consiste nel fare né nel donare molto, ma piuttosto nel ricevere». [135]Leggiamo ancora una volta alcuni dei testi molto significativi nei quali insiste su questa via, che è un modo semplice e veloce di conquistare il Signore attraverso il cuore.

140. Così scrive alla sorella Leonia: «Ti assicuro che il buon Dio è assai migliore di quanto tu creda: si accontenta di uno sguardo, di un sospiro d’amore. Quanto a me, trovo molto facile praticare la perfezione, perché ho capito che non c’è che da prendere Gesù per il cuore! Guarda un bambino, che ha appena recato dispiacere a sua madre. […] Se le tenderà le braccine sorridendo e dicendo: “Abbracciami, non ricomincerò più”, potrà forse sua madre non stringerselo al cuore con tenerezza e dimenticare le sue mancanze infantili? Tuttavia ella sa bene che il suo caro piccino ricomincerà alla prossima occasione, ma questo non importa: se egli la prende ancora per il cuore, non sarà mai punito». [136]

141. In una lettera al padre Adolphe Roulland dice: «La mia via è una via tutta di fiducia e d’amore; io non capisco le anime che hanno paura di un così tenero Amico. Talvolta, quando leggo certi trattati spirituali, nei quali la perfezione è presentata attraverso mille ostacoli, circondata da una folla di illusioni, il mio povero spirito si stanca molto presto; chiudo il dotto libro, che mi rompe la testa e mi inaridisce il cuore, e prendo la Sacra Scrittura. Allora tutto mi appare luminoso: una sola parola svela alla mia anima orizzonti infiniti; la perfezione mi appare facile; vedo che basta conoscere il proprio niente e abbandonarsi come un bambino nelle braccia del buon Dio». [137]

142. E rivolgendosi al Rev.do Maurice Bellière, a proposito di un genitore osserva: «Non credo che il cuore di quel padre felice possa resistere alla fiducia filiale di suo figlio, del quale conosce la sincerità e l’amore. Tuttavia non ignora che più d’una volta suo figlio ricadrà negli stessi errori, ma è disposto a perdonarlo sempre, se suo figlio lo prenderà sempre dalla parte del cuore». [138]

Risonanze nella Compagnia di Gesù

143. Abbiamo visto come San Claudio de La Colombière collegasse l’esperienza spirituale di Santa Margherita con la proposta degli Esercizi Spirituali. Ritengo che il posto del Sacro Cuore nella storia della Compagnia di Gesù meriti un breve cenno.

144. La spiritualità della Compagnia di Gesù ha sempre proposto una “conoscenza interiore del Signore per meglio amarlo e seguirlo”. [139] Sant’Ignazio ci invita, nei suoi Esercizi Spirituali, a metterci davanti al Vangelo che ci dice che «il costato [di Gesù] fu ferito con la lancia e venne fuori acqua e sangue». [140] Quando l’esercitante si trova davanti al costato ferito di Cristo, Ignazio gli propone di entrare nel Cuore di Cristo. Questa è una via per maturare il proprio cuore per mano di un “maestro degli affetti”, secondo l’espressione usata da San Pietro Favre in una delle sue lettere a Sant’Ignazio. [141]Anche Padre Juan Alfonso de Polanco ne parla nella sua biografia di Sant’Ignazio: «[il Cardinale Contarini] riconosceva di aver trovato in Padre Ignazio un maestro degli affetti». [142] I colloqui che Sant’Ignazio propone sono una parte essenziale di questa educazione del cuore, perché sentiamo e gustiamo con il cuore un messaggio del Vangelo e ne conversiamo con il Signore. Sant’Ignazio dice che possiamo comunicare le nostre cose al Signore e chiedergli consiglio riguardo ad esse. Qualsiasi esercitante può riconoscere che negli Esercizi c’è un dialogo da cuore a cuore.

145. Sant’Ignazio termina le contemplazioni ai piedi del Crocifisso invitando l’esercitante a rivolgersi con grande affetto al Signore crocifisso e a chiedergli, «come un amico parla all’altro amico, o un servo al suo signore», cosa debba fare per Lui. [143] L’itinerario degli Esercizi culmina nella “Contemplazione per raggiungere l’amore”, da cui scaturisce il ringraziamento e l’offerta di “memoria, intelletto e volontà” al Cuore che è fonte e origine di ogni bene. [144] Tale conoscenza interiore del Signore non si costruisce con le nostre capacità e i nostri sforzi, si chiede come dono.

146. Questa stessa esperienza è alla base di una lunga catena di sacerdoti gesuiti che hanno fatto esplicito riferimento al Cuore di Gesù, come San Francesco Borgia, San Pietro Favre, Sant’Alonso Rodriguez, Padre Álvarez de Paz, Padre Vincenzo Carafa, Padre Kasper Drużbicki e tanti altri. Nel 1883 i Gesuiti dichiararono che «la Compagnia di Gesù accetta e riceve con spirito traboccante di gioia e di gratitudine, il dolcissimo fardello affidatole da nostro Signore Gesù Cristo di praticare, promuovere e propagare la devozione al suo divinissimo Cuore». [145] Nel dicembre 1871, Padre Pieter Jan Beckx consacrò la Compagnia al Sacro Cuore di Gesù e, a testimonianza del fatto che continua a essere un elemento attuale della vita della Compagnia, Padre Pedro Arrupe lo fece nuovamente nel 1972, con una convinzione che si esprime in queste parole: «Voglio dire alla Compagnia qualcosa che ritengo di non dover tacere. Fin dal mio noviziato, sono stato sempre convinto che quella che chiamiamo “Devozione al Sacro Cuore” racchiuda un’espressione simbolica del nucleo più profondo dello spirito ignaziano, e una straordinaria efficacia – ultra quam speraverint – tanto per la perfezione propria come per la fecondità apostolica. La stessa convinzione conservo ancora. […] In questa devozione trovo una delle sorgenti più intime della mia vita interiore». [146]

147. Quando San Giovanni Paolo II invitò «tutti i membri della Compagnia a promuovere con maggior zelo ancora tale devozione che risponde più che mai alle attese dei nostri tempi», lo fece perché riconosceva gli intimi legami tra la devozione al Cuore di Cristo e la spiritualità ignaziana, poiché «il desiderio di “conoscere intimamente il Signore” e di “mantenere un dialogo” con Lui, cuore a cuore, è caratteristico, grazie agli Esercizi Spirituali, del dinamismo spirituale e apostolico ignaziano, totalmente al servizio dell’amore del Cuore di Dio». [147]

Una lunga corrente di vita interiore

148. La devozione al Cuore di Cristo riappare nel cammino spirituale di molti santi molto diversi tra loro e in ognuno di essi tale devozione assume aspetti nuovi. San Vincenzo de’ Paoli, per fare un esempio, diceva che ciò che Dio vuole è il cuore: «Dio chiede prima di tutto il cuore, il cuore: questa è la cosa principale. Perché chi non possiede nulla può aver più merito di chi ha grandi possessi ai quali rinunzia? Perché chi non ha nulla va a Lui con più affetto; ed è questo che Dio vuole in modo tutto particolare». [148] Ciò comporta di accettare che il proprio cuore si unisca a quello di Cristo: «Una suora che fa tutto quello che può per disporre il suo cuore a stare unito a quello di Nostro Signore […] quali benedizioni non riceverà da Dio!». [149]

149. A volte siamo tentati di considerare questo mistero d’amore come un fatto ammirevole del passato, come una bella spiritualità di altri tempi, e dobbiamo ricordare sempre di nuovo, come diceva un santo missionario, che «Questo Cuore divino che tollerò d’essere squarciato da una lancia nemica per poter effondere da quella sacra apertura i Sacramenti, onde s’è formata la Chiesa, non ha altrimenti finito di amare». [150] Altri santi più recenti, come San Pio da Pietrelcina, Santa Teresa di Calcutta e molti altri, parlano con sentita devozione del Cuore di Cristo. Ma vorrei anche ricordare le esperienze di Santa Faustina Kowalska, che ripropongono la devozione al Cuore di Cristo con un forte accento sulla vita gloriosa del Risorto e sulla misericordia divina. Infatti, motivato da queste esperienze della santa e attingendo dall’eredità spirituale lasciata dal Vescovo San Józef Sebastian Pelczar (1842-1924), [151] San Giovanni Paolo II ha collegato intimamente la sua riflessione sulla misericordia con la devozione al Cuore di Cristo: «La Chiesa sembra professare in modo particolare la misericordia di Dio e venerarla rivolgendosi al Cuore di Cristo. Infatti, proprio l’accostarci a Cristo nel mistero del suo Cuore ci consente di soffermarci su questo punto […] della rivelazione dell’amore misericordioso del Padre, che ha costituito il contenuto centrale della missione messianica del Figlio dell’Uomo». [152] Lo stesso San Giovanni Paolo II, riferendosi al Sacro Cuore, ha riconosciuto in modo molto personale: «Mi ha parlato fin dall’età giovanile». [153]

150. L’attualità della devozione al Cuore di Cristo è particolarmente evidente nell’opera evangelizzatrice ed educativa di numerose congregazioni religiose femminili e maschili che sono state segnate fin dalle loro origini da questa esperienza spirituale cristologica. Citarle tutte sarebbe un’impresa interminabile. Vediamo solo due esempi presi a caso: «Il Fondatore [S. Daniele Comboni] trovò nel mistero del Cuore di Gesù la forza per il suo impegno missionario». [154] «Spinte dall’amore del Cuore di Gesù, cerchiamo di far crescere le persone nella loro dignità umana e come figli e figlie di Dio, sulla base del Vangelo e delle sue richieste di amore, di perdono, di giustizia e di solidarietà con i poveri e gli emarginati». [155] Allo stesso modo, i Santuari consacrati al Cuore di Cristo, sparsi per il mondo, sono una fonte attraente di spiritualità e fervore. A tutti coloro che in qualche modo partecipano a questi luoghi di fede e di carità rivolgo la mia paterna benedizione.

La devozione della consolazione

151. La ferita del costato, da cui sgorga l’acqua viva, rimane aperta nel Risorto. Questa grande ferita prodotta dalla lancia e le piaghe della corona di spine, che spesso appaiono nelle rappresentazioni del Sacro Cuore, sono inseparabili da questa devozione. In essa, infatti, contempliamo l’amore di Gesù che è stato capace di donarsi fino alla fine. Il cuore del Risorto conserva questi segni della totale donazione di sé che ha comportato un’intensa sofferenza per noi. È quindi in qualche modo inevitabile che il credente desideri rispondere non solo a questo grande amore, ma anche al dolore che Cristo ha accettato di sopportare per tanto amore.

Con Lui sulla Croce

152. Vale la pena di recuperare questa espressione dell’esperienza spirituale sviluppata attorno al Cuore di Cristo: il desiderio interiore di dargli consolazione. Non tratterò ora della pratica della “riparazione”, che considero meglio collocata nel contesto della dimensione sociale di questa devozione e che svilupperò nel prossimo capitolo. Ora vorrei concentrarmi soltanto su quel desiderio che spesso affiora nel cuore del credente innamorato quando contempla il mistero della Passione di Cristo e lo vive come un mistero che non solo viene ricordato, ma che per grazia si rende presente, o meglio, ci porta a essere misticamente presenti a quel momento redentivo. Se l’Amato è il più importante, come allora non volerlo consolare?

153. Papa Pio XI cercò di dare fondamento a questa esperienza invitandoci a riconoscere che il mistero della Redenzione attraverso la Passione di Cristo oltrepassa, per la grazia di Dio, tutte le distanze di tempo e di spazio, così che se Egli sulla Croce si è donato anche per i peccati futuri, i nostri peccati, allo stesso modo i nostri atti offerti oggi per la sua consolazione, superando i tempi, hanno raggiunto il suo Cuore ferito: «Se a causa anche dei nostri peccati futuri, ma previsti, l’anima di Gesù divenne triste sino alla morte, non è a dubitare che qualche conforto non abbia anche fin da allora provato per la previsione della nostra riparazione, quando a lui “apparve l’Angelo dal cielo” ( Lc 22,43) per consolare il suo cuore oppresso dalla tristezza e dalle angosce. E così anche ora in modo mirabile ma vero, noi possiamo e dobbiamo consolare quel Cuore Sacratissimo che viene continuamente ferito dai peccati degli uomini ingrati». [156]

Le ragioni del cuore

154. Può sembrare che questa espressione di devozione non abbia un sufficiente supporto teologico, ma in realtà il cuore ha le sue ragioni. Il sensus fidelium intuisce che qui c’è qualcosa di misterioso che va oltre la nostra logica umana, e che la Passione di Cristo non è un mero fatto del passato: ad essa possiamo partecipare per la fede. Meditare il dono di sé di Cristo sulla croce è, per la pietà dei fedeli, qualcosa di più grande di un semplice ricordo. Tale convinzione è solidamente fondata nella teologia. [157] A questo si aggiunge la consapevolezza del proprio peccato, che Egli ha portato sulle sue spalle ferite, e della propria inadeguatezza di fronte a tanto amore, che sempre ci supera infinitamente.

155. In ogni caso, ci chiediamo come sia possibile relazionarsi con il Cristo vivo, risorto, pienamente felice e, allo stesso tempo, consolarlo nella Passione. Consideriamo il fatto che il Cuore risorto conserva la sua ferita come una memoria costante e che l’azione della grazia provoca un’esperienza che non è interamente contenuta nell’istante cronologico. Queste due convinzioni ci permettono di ammettere che siamo di fronte a un percorso mistico che supera i tentativi della ragione ed esprime ciò che la stessa Parola di Dio ci suggerisce. «Ma – scrive il Papa Pio XI – come potrà dirsi che Cristo regni beato nel Cielo se può essere consolato da questi atti di riparazione? “Da’ un’anima che ami e comprenderà quello che dico” ( In Ioannis evangelium, XXVI, 4), rispondiamo con le parole di Agostino, che fanno proprio al nostro proposito. Ogni anima, infatti, veramente infiammata nell’amore di Dio, se con la considerazione si volge al tempo passato, meditando vede e contempla Gesù sofferente per l’uomo, afflitto, in mezzo ai più gravi dolori, “per noi uomini e per la nostra salvezza”, dalla tristezza, dalle angosce e dagli obbrobri quasi oppresso, anzi “schiacciato dai nostri delitti” ( Is 53,5), e in atto di risanarci con i suoi lividi. Con tanta maggior verità le anime pie meditano queste cose, in quanto i peccati e i delitti degli uomini, in qualsiasi tempo commessi, furono la causa per la quale il Figlio di Dio fosse dato a morte». [158]

156. Questo insegnamento di Pio XI va tenuto presente. Infatti, quando la Scrittura afferma che i credenti che non vivono secondo la loro fede «per quanto sta in loro, […] crocifiggono di nuovo il Figlio di Dio» (Eb 6,6), o che quando sopporto sofferenze per gli altri «do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne» (Col 1,24), o che Cristo nella sua Passione ha pregato non solo per i suoi discepoli di allora, ma «per quelli che crederanno in me mediante la loro parola» (Gv 17,20), sta dicendo qualcosa che rompe i nostri schemi limitati. Ci mostra che non è possibile stabilire un prima e un dopo senza alcun legame, anche se il nostro pensiero non sa come spiegarlo. Il Vangelo, nei suoi vari aspetti, non è solo da riflettere o da ricordare, ma da vivere, sia nelle opere d’amore che nell’esperienza interiore, e questo vale soprattutto per il mistero della morte e della risurrezione di Cristo. Le separazioni temporali che la nostra mente utilizza non sembrano contenere la verità di questa esperienza credente in cui si fondono l’unione con Cristo sofferente e al tempo stesso la forza, la consolazione e l’amicizia che godiamo con il Risorto.

157. Vediamo allora l’unità del Mistero Pasquale, nei suoi due aspetti inseparabili che si illuminano a vicenda. Questo unico Mistero, che si rende presente per la grazia nelle sue due dimensioni, fa sì che mentre cerchiamo di offrire qualcosa a Cristo per la sua consolazione, le nostre stesse sofferenze vengono illuminate e trasfigurate dalla luce pasquale dell’amore. Ciò che accade è che partecipiamo a tale Mistero nella nostra vita concreta, perché in precedenza Cristo stesso ha voluto partecipare alla nostra vita, ha voluto vivere anticipatamente come capo ciò che avrebbe vissuto il suo corpo ecclesiale, tanto nelle ferite quanto nelle consolazioni. Quando viviamo in grazia di Dio, questa mutua partecipazione diventa un’esperienza spirituale. In definitiva, è il Risorto che, attraverso l’azione della sua grazia, rende possibile che ci uniamo misteriosamente alla sua Passione. Lo sanno i cuori credenti che vivono la gioia della risurrezione, ma allo stesso tempo desiderano partecipare al destino del loro Signore. Sono disposti a questa partecipazione con le sofferenze, le stanchezze, le delusioni e le paure che fanno parte della loro vita. Non vivono tale Mistero in solitudine, perché queste ferite sono ugualmente una partecipazione al destino del corpo mistico di Cristo che cammina nel popolo santo di Dio e che porta in sé il destino di Cristo in ogni tempo e luogo della storia. La devozione della consolazione non è astorica o astratta, si fa carne e sangue nel cammino della Chiesa.

La compunzione

158. L’insopprimibile desiderio di consolare Cristo, che parte dal dolore di contemplare ciò che Egli ha sofferto per noi, si nutre anche del riconoscimento sincero delle nostre schiavitù, degli attaccamenti, della mancanza di gioia nella fede, delle vane ricerche e, al di là dei peccati concreti, della mancata corrispondenza del cuore al suo amore e al suo progetto. È un’esperienza che ci purifica, perché l’amore ha bisogno della purificazione delle lacrime che alla fine ci lasciano più assetati di Dio e meno ossessionati da noi stessi.

159. Vediamo così che quanto più profondo diventa il desiderio di consolare il Signore, tanto più si approfondisce la compunzione del cuore credente, che «non è un senso di colpa che ci butta a terra, non è uno scrupolo che paralizza, ma è un pungolo benefico che brucia dentro e guarisce, perché il cuore, quando vede il proprio male e si riconosce peccatore, si apre, accoglie l’azione dello Spirito Santo, acqua viva che lo scuote e fa scorrere le lacrime sul suo volto […]. Non si tratta di commiserarsi, come spesso siamo tentati di fare. […] Avere lacrime di compunzione, invece, significa pentirsi seriamente di aver rattristato Dio con il peccato; significa riconoscere che siamo sempre in debito e mai in credito […]. Come una goccia scava una pietra, così le lacrime scavano lentamente i cuori induriti. In questo modo assistiamo al miracolo della tristezza, della buona tristezza che porta alla dolcezza […]. La compunzione non è frutto del nostro lavoro, ma è una grazia e come tale va chiesta nella preghiera». [159] È chiedere «dolore con Cristo abbandonato, tormento con Cristo tormentato, lacrime, intima pena per la grande pena che Cristo soffrì per me». [160]

160. Chiedo, quindi, che nessuno si faccia beffe delle espressioni di fervore credente del santo popolo fedele di Dio, che nella sua pietà popolare cerca di consolare Cristo. E invito ciascuno a chiedersi se non ci sia più razionalità, più verità e più saggezza in certe manifestazioni di questo amore che cerca di consolare il Signore che non nei freddi, distanti, calcolati e minimi atti d’amore di cui siamo capaci noi che pretendiamo di possedere una fede più riflessiva, coltivata e matura.

Consolati per consolare

161. In questa contemplazione del Cuore di Cristo donatosi fino all’estremo noi veniamo consolati. Il dolore che sentiamo nel cuore lascia il posto a una fiducia totale, e alla fine ciò che rimane è gratitudine, tenerezza, pace; rimane il suo amore che regna nella nostra vita. La compunzione «non provoca angoscia, ma alleggerisce l’anima dai pesi, perché agisce nella ferita del peccato, disponendoci a ricevere proprio lì la carezza del Signore». [161] E la nostra sofferenza si unisce a quella di Cristo sulla croce, perché quando diciamo che la grazia ci permette di superare tutte le distanze, ciò significa anche che Cristo, quando soffriva, si univa a tutte le sofferenze dei suoi discepoli nel corso della storia. Così, se soffriamo, possiamo provare la consolazione interiore di sapere che Cristo stesso soffre con noi. Desiderosi di consolarlo, ne usciamo consolati.

162. Ma a un certo punto di questa contemplazione del cuore credente, deve risuonare quel drammatico appello del Signore: «Consolate, consolate il mio popolo» (Is 40,1). E ci tornano alla mente le parole di San Paolo, che ci ricorda che Dio ci consola «perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in ogni genere di afflizione con la consolazione con cui noi stessi siamo consolati da Dio» (2 Cor 1,4).

163. Questo ci invita ora a cercare di approfondire la dimensione comunitaria, sociale e missionaria di ogni autentica devozione al Cuore di Cristo. Infatti, nello stesso momento in cui il Cuore di Cristo ci conduce al Padre, ci invia ai fratelli. Nei frutti di servizio, fraternità e missione che il Cuore di Cristo produce attraverso di noi, si compie la volontà del Padre. In tal modo il cerchio si chiude: «In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto» (Gv 15,8).

V.

AMORE PER AMORE

164. Nelle esperienze spirituali di Santa Margherita Maria, insieme all’ardente dichiarazione d’amore di Gesù, troviamo anche una risonanza interiore che chiama a dare la vita. Sapere di essere amati e riporre tutta la nostra fiducia in questo amore non significa annullare tutte le nostre capacità di donazione, non implica di rinunciare all’insopprimibile desiderio di dare qualche risposta con le nostre piccole e limitate capacità.

Un lamento e una richiesta

165. A partire dalla seconda grande manifestazione a Santa Margherita, Gesù esprime il dolore perché il suo grande amore per gli uomini «non riceveva in cambio che ingratitudini e indifferenza», «freddezze e ripulse». «Questo – dice il Signore – mi fa soffrire più di tutto ciò che ho patito nella mia Passione». [162]

166. Gesù parla della sua sete di essere amato, mostrandoci che il suo Cuore non è indifferente alla nostra reazione al suo desiderio: «Ho sete, una sete tanto ardente di essere amato dagli uomini nel Santissimo Sacramento che mi consuma. Eppure non trovo nessuno che, secondo il mio desiderio, tenti di dissetarmi corrispondendo al mio amore». [163] La richiesta di Gesù è l’amore. Quando il cuore credente lo scopre, la risposta che scaturisce spontaneamente non è un’onerosa ricerca di sacrifici o il mero adempimento di un pesante dovere, ma è una questione d’amore: «Ricevetti dal mio Dio grazie straordinarie del suo Amore; mi sentii spinta dal desiderio di ricambiarlo e di rendergli amore per amore». [164] Così insegna Leone XIII, scrivendo che, mediante l’immagine del Sacro Cuore, la carità di Cristo «ci spinge a ricambiare amore per amore». [165]

Prolungare il suo amore nei fratelli

167. Dobbiamo tornare alla Parola di Dio per riconoscere che la migliore risposta all’amore del suo Cuore è l’amore per i fratelli; non c’è gesto più grande che possiamo offrirgli per ricambiare amore per amore. La Parola di Dio lo dice con totale chiarezza:

«Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40).

«Tutta la Legge trova la sua pienezza in un solo precetto: Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Gal 5,14).

«Sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte» (1 Gv 3,14).

«Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1 Gv 4,20).

168. L’amore per i fratelli non si fabbrica, non è il risultato di un nostro sforzo naturale, ma richiede una trasformazione del nostro cuore egoista. Nasce allora spontaneamente la ben nota supplica: “Gesù, rendi il nostro cuore simile al tuo”. Per questo stesso motivo, l’invito di San Paolo non era: “Sforzatevi di fare opere buone”. Il suo invito era precisamente: «Abbiate tra voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù» (Fil 2,5).

169. È bene ricordare che nell’Impero romano molti poveri, forestieri e tante altre persone scartate trovavano nei cristiani rispetto, affetto e cura. Questo spiega il ragionamento dell’imperatore apostata Giuliano, che si chiedeva perché i cristiani fossero così rispettati e seguiti, e riteneva che una delle ragioni fosse il loro impegno di assistere i poveri e i forestieri, visto che l’Impero li ignorava e li disprezzava. Per questo imperatore era intollerabile che i suoi poveri non ricevessero aiuto da parte sua, mentre gli odiati cristiani «sfamano i loro, e pure i nostri». [166] In una lettera si sofferma soprattutto sull’ordine di creare istituzioni di beneficenza per competere con i cristiani e attirare il rispetto della società: «Apri in tutte le città numerosi alloggi, affinché gli stranieri possano godere della nostra umanità. […] Abitua gli Elleni alle opere di beneficienza». [167] Ma egli non raggiunse il suo obiettivo, sicuramente perché dietro tali opere non c’era l’amore cristiano, che permetteva di riconoscere ad ogni persona una dignità unica.

170. Identificandosi con i più piccoli della società (cfr Mt 25,31-46) «Gesù ha portato la grande novità del riconoscimento della dignità di ogni persona, ed anche e soprattutto di quelle persone che erano qualificate come “indegne”. Questo principio nuovo nella storia umana, per cui l’essere umano è tanto più “degno” di rispetto e di amore quanto più è debole, misero e sofferente, fino a perdere la stessa “figura” umana, ha cambiato il volto del mondo, dando vita a istituzioni che si prendono cura delle persone che si trovano in condizioni disagiate: i neonati abbandonati, gli orfani, gli anziani lasciati soli, i malati mentali, le persone affette da malattie incurabili o con gravi malformazioni, coloro che vivono per strada». [168]

171. Anche dal punto di vista della ferita del suo Cuore, guardare al Signore, che «ha preso su di sé le nostre infermità e si è caricato delle nostre malattie» ( Mt 8,17), ci aiuta a prestare maggiore attenzione alle sofferenze e ai bisogni degli altri, ci rende forti per partecipare alla sua opera di liberazione, come strumenti per la diffusione del suo amore. [169] Se contempliamo il dono di sé che Cristo ha fatto per tutti, diventa inevitabile chiederci perché non siamo capaci di dare la vita per gli altri: «In questo abbiamo conosciuto l’amore, nel fatto che egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli» ( 1 Gv 3,16).

Alcune risonanze nella storia della spiritualità

172. Questa unione tra la devozione al Cuore di Gesù e l’impegno verso i fratelli attraversa la storia della spiritualità cristiana. Vediamo alcuni esempi.

Essere una fonte per gli altri

173. A partire da Origene, diversi Padri della Chiesa hanno interpretato il testo di Giovanni 7,38 – «dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva» – come riferito al credente stesso, sebbene sia la conseguenza del fatto che egli stesso ha bevuto da Cristo. Così l’unione con Cristo mira non solo a saziare la propria sete bensì a farci diventare una fonte di acqua fresca per gli altri. Origene diceva che Cristo realizza la sua promessa facendo sgorgare da noi torrenti d’acqua: «L’anima dell’essere umano, che è a immagine di Dio, può contenere in sé e produrre da sé pozzi, sorgenti e fiumi». [170]

174. Sant’Ambrogio raccomandava di bere da Cristo «affinché abbondi in te la sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna». [171] E Mario Vittorino sosteneva che lo Spirito Santo si dona con tale abbondanza che «chi lo riceve diventa un grembo che riversa fiumi di acqua viva». [172] Sant’Agostino diceva che questo fiume che sgorga dal credente è la benevolenza. [173] San Tommaso d’Aquino ha ribadito questa idea sostenendo che quando qualcuno «si affretta a comunicare agli altri i vari doni della grazia che ha ricevuto da Dio, dal suo seno sgorga acqua viva». [174]

175. Infatti, se «il sacrificio della Croce, offerto con animo amante e obbediente, presenta una soddisfazione sovrabbondante e infinita per le colpe del genere umano», [175] la Chiesa, che nasce dal Cuore di Cristo, prolunga e comunica in ogni tempo e in ogni luogo gli effetti dell’unica Passione redentrice, che orientano le persone all’unione diretta con il Signore.

176. Nel seno della Chiesa, la mediazione di Maria, interceditrice e madre, può essere compresa solo «come partecipazione a questa unica fonte che è la mediazione di Cristo stesso», [176] l’unico Redentore, e «la Chiesa non dubita di riconoscere questa funzione subordinata a Maria». [177] La devozione al cuore di Maria, infatti, non vuole togliere nulla all’adorazione unica dovuta al Cuore di Cristo, ma stimolarla: «La funzione materna di Maria verso gli uomini in nessun modo oscura o diminuisce questa unica mediazione di Cristo, ma ne mostra l’efficacia». [178] Grazie all’immensa sorgente che sgorga dal costato aperto di Cristo, la Chiesa, Maria e tutti i credenti, in modi diversi, diventano canali di acqua viva. In questo modo Cristo stesso dispiega la sua gloria nella nostra piccolezza.

Fraternità e mistica

177. San Bernardo, mentre invitava all’unione con il Cuore di Cristo, utilizzava la ricchezza di questa devozione per proporre un cambiamento di vita fondato sull’amore. Egli riteneva che fosse possibile una trasformazione dell’affettività, resa schiava dai piaceri, che non si libera con la cieca obbedienza a un comando, ma in una risposta alla dolcezza dell’amore di Cristo. Il male si supera con il bene, il male si vince con la crescita dell’amore: «Ama dunque il Signore Dio tuo con tutto l’affetto del cuore, amalo con tutta l’attenzione e la cura della ragione, amalo poi con tutte le tue forze; non aver timore di morire per amor suo […]. Il Signore Gesù sia dolce e soave al tuo affetto, contro gli allettamenti piacevoli ma rovinosi della vita carnale; la dolcezza vinca la dolcezza, come chiodo scaccia chiodo». [179]

178. San Francesco di Sales si lasciava illuminare soprattutto dalla richiesta di Gesù: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore» ( Mt 11,29). In questo modo, diceva, nelle cose più semplici e ordinarie rubiamo il cuore al Signore: «Sarà contento di noi solo se avremo cura di servirlo bene nelle cose importanti e di rilievo come nelle piccole e insignificanti; sia con le une che con le altre, possiamo rapirgli il cuore […]. I piccoli gesti quotidiani di carità, un mal di testa, un mal di denti, un lieve malessere, una stranezza del marito o della moglie, un vaso rotto, un dispetto, una smorfia, la perdita di un guanto, di un anello, di un fazzoletto; quel piccolo sforzo per andare a letto presto la sera e alzarsi al mattino di buon’ora per pregare, per fare la comunione; quella piccola vergogna che si prova a fare in pubblico un atto di devozione; a farla breve, tutte le piccole contrarietà accettate e abbracciate con amore fanno infinitamente piacere alla Bontà divina». [180] Ma, in definitiva, la chiave della nostra risposta all’amore del Cuore di Cristo è l’amore per il prossimo: «un amore stabile, costante, immutabile, che, non soffermandosi sulle inezie, né sulle qualità o sulle condizioni delle persone, non è soggetto a cambiamenti o ad antipatie. […] Nostro Signore ci ama senza interruzione, sopporta i nostri difetti come le nostre imperfezioni; dobbiamo quindi fare lo stesso nei confronti dei nostri fratelli, senza mai stancarci di sopportarli». [181]

179. San Charles de Foucauld voleva imitare Gesù, vivere come Lui, agire come Lui agiva, fare sempre ciò che Gesù avrebbe fatto al suo posto. Per realizzare pienamente questo obiettivo, aveva bisogno di conformarsi ai sentimenti del Cuore di Cristo. Così compare ancora una volta l’espressione “amore per amore”, quando dice: «Desiderio di sofferenze per rendergli amore per amore; […] per partecipare al suo compito offrirmi con lui, nonostante il nulla che sono, come sacrificio, come vittima, per la santificazione degli uomini». [182] Il desiderio di portare l’amore di Gesù, il suo impegno missionario tra i più poveri e dimenticati della terra, lo condusse ad assumere come motto Iesus Caritas, con il simbolo del Cuore di Cristo sormontato da una croce. [183] Non è stata una decisione superficiale: «Con tutte le mie forze cerco di mostrare, di provare a questi poveri fratelli sviati che la nostra religione è tutta carità, tutta fraternità, che il suo emblema è un Cuore». [184] Ed il suo desiderio era di stabilirsi con altri fratelli «in Marocco nel nome del Cuore di Gesù». [185] In tal modo la loro opera evangelizzatrice sarebbe stata un’irradiazione: «La carità deve irradiare dalle fraternità, come irradia dal cuore di Gesù». [186] Questo desiderio lo ha reso a poco a poco un fratello universale, perché, lasciandosi plasmare dal Cuore di Cristo, voleva ospitare nel suo cuore fraterno tutta l’umanità sofferente: «Il nostro cuore, come quello della Chiesa, come quello di Gesù, deve abbracciare tutti gli uomini». [187] «L’amore del Cuore di Gesù per gli uomini, questo amore che Egli manifesta nella sua Passione, ecco quello che dobbiamo avere per tutti gli esseri umani». [188]

180. Don Huvelin, direttore spirituale di San Charles de Foucauld, diceva che «quando nostro Signore vive in un cuore, gli dà questi sentimenti, e questo cuore si abbassa verso i piccoli. Tale era la disposizione del cuore di un Vincenzo de’ Paoli. […] Quando nostro Signore vive nell’anima di un sacerdote lo inclina verso i poveri». [189] È importante notare come questa dedizione di San Vincenzo, che Don Huvelin descrive, fosse pure alimentata dalla devozione al Cuore di Cristo. Vincenzo esortava ad attingere “al cuore di Nostro Signore qualche parola di consolazione per il povero malato”. [190] Perché questo si realizzi, è necessario che il proprio cuore sia stato trasformato dall’amore e dalla mitezza del Cuore di Cristo, e San Vincenzo ripeteva molto questa convinzione nelle sue prediche e nei suoi consigli, tanto da farla diventare un elemento di spicco delle Costituzioni della sua Congregazione: «Tutti porranno anche il massimo impegno nell’imparare questa lezione insegnataci da Gesù: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore”; tenendo conto che, come dice Egli stesso, con la mitezza si possiede la terra, perché con la pratica di questa virtù si guadagnano i cuori degli uomini per convertirli a Dio, ciò che non possono ottenere quanti si comportano con il prossimo in maniera dura e aspra». [191]

La riparazione: costruire sulle rovine

181. Tutto questo ci permette di comprendere, alla luce della Parola di Dio, quale significato dobbiamo dare alla “riparazione” offerta al Cuore di Cristo, che cosa il Signore si aspetta veramente che noi ripariamo con l’aiuto della sua grazia. Si è discusso molto a tale riguardo, ma San Giovanni Paolo II ha offerto una risposta chiara per orientare noi cristiani di oggi verso uno spirito di riparazione più in sintonia con il Vangelo.

Significato sociale della riparazione al Cuore di Cristo

182. San Giovanni Paolo II ha spiegato che, offrendoci insieme al Cuore di Cristo, «sulle rovine accumulate dall’odio e dalla violenza, potrà essere costruita la civiltà dell’amore tanto desiderato, il regno del cuore di Cristo»; questo implica certamente che siamo in grado di «unire all’amore filiale verso Dio l’amore del prossimo»; ebbene, «questa è la vera riparazione chiesta dal Cuore del Salvatore». [192] Insieme a Cristo, sulle rovine che noi lasciamo in questo mondo con il nostro peccato, siamo chiamati a costruire una nuova civiltà dell’amore. Questo vuol dire riparare come il Cuore di Cristo si aspetta da noi. In mezzo al disastro lasciato dal male, il Cuore di Cristo ha voluto avere bisogno della nostra collaborazione per ricostruire il bene e la bellezza.

183. È certo che ogni peccato danneggia la Chiesa e la società, per cui «a ciascun peccato si può attribuire […] il carattere di peccato sociale», anche se questo vale soprattutto per alcuni peccati che «costituiscono, per il loro oggetto stesso, un’aggressione diretta al prossimo». [193] San Giovanni Paolo II ha spiegato che la ripetizione di questi peccati contro gli altri finisce molte volte per consolidare una “struttura di peccato” che influisce sullo sviluppo dei popoli. [194] Ciò fa spesso parte di una mentalità dominante che considera normale o razionale quello che in realtà è solo egoismo e indifferenza. Tale fenomeno si può definire alienazione sociale: «È alienata la società che, nelle sue forme di organizzazione sociale, di produzione e di consumo, rende più difficile la realizzazione di questo dono ed il costituirsi di questa solidarietà interumana». [195] Non è solo una norma morale ciò che ci spinge a resistere a queste strutture sociali alienate, a metterle a nudo e a propiziare un dinamismo sociale che ripristini e costruisca il bene, ma è la stessa «conversione del cuore» che «impone l’obbligo» [196] di riparare tali strutture. È la nostra risposta al Cuore amante di Gesù Cristo che ci insegna ad amare.

184. Proprio perché la riparazione evangelica possiede questo forte significato sociale, i nostri atti di amore, di servizio, di riconciliazione, per essere effettivamente riparatori, richiedono che Cristo li solleciti, li motivi, li renda possibili. Diceva ancora San Giovanni Paolo II che per costruire la civiltà dell’amore l’umanità di oggi ha bisogno del Cuore di Cristo. [197] La riparazione cristiana non può essere intesa solo come un insieme di opere esteriori, che pure sono indispensabili e talvolta ammirevoli. Essa esige una spiritualità, un’anima, un senso che le conferiscano forza, slancio e creatività instancabile. Ha bisogno della vita, del fuoco e della luce che vengono dal Cuore di Cristo.

Riparare i cuori feriti

185. Del resto, una riparazione meramente esteriore non basta né al mondo né al Cuore di Cristo. Se ognuno pensa ai propri peccati e alle loro conseguenze sugli altri, scoprirà che riparare il danno fatto a questo mondo implica anche il desiderio di riparare i cuori feriti, dove si è procurato il danno più profondo, la ferita più dolorosa.

186. Uno spirito di riparazione «ci invita a sperare che ogni ferita possa essere guarita, anche se è profonda. Una riparazione completa a volte sembra impossibile, quando beni o persone care vengono persi definitivamente o quando certe situazioni sono diventate irreversibili. Ma l’intenzione di riparare e di farlo concretamente è essenziale per il processo di riconciliazione e il ritorno della pace nel cuore». [198]

La bellezza di chiedere perdono

187. La buona intenzione non basta; è indispensabile un dinamismo interiore di desiderio che provochi conseguenze esterne. In sostanza, «la riparazione, per essere cristiana, per toccare il cuore della persona offesa e non essere un semplice atto di giustizia commutativa, presuppone due atteggiamenti impegnativi: riconoscersi colpevole e chiedere perdono. […] È da questo onesto riconoscimento del male arrecato al fratello, e dal sentimento profondo e sincero che l’amore è stato ferito, che nasce il desiderio di riparare». [199]

188. Non si deve pensare che riconoscere il proprio peccato davanti agli altri sia qualcosa di degradante o dannoso per la nostra dignità umana. Al contrario, è smettere di mentire a sé stessi, è riconoscere la propria storia così com’è, segnata dal peccato, soprattutto quando abbiamo fatto del male ai nostri fratelli: «Accusare sé stessi fa parte della saggezza cristiana. […] Questo piace al Signore, perché il Signore accoglie il cuore contrito». [200]

189. Fa parte di questo spirito di riparazione l’abitudine di chiedere perdono ai fratelli, che rappresenta una grande nobiltà in mezzo alla nostra fragilità. Chiedere perdono è un modo di guarire le relazioni perché «riapre il dialogo e manifesta la volontà di ristabilire il legame nella carità fraterna. […] Tocca il cuore del fratello, lo consola e suscita in lui l’accoglienza del perdono richiesto». Così, «se l’irreparabile non può essere completamente riparato, l’amore può sempre rinascere, rendendo sopportabile la ferita». [201]

190. Un cuore capace di compunzione può crescere nella fraternità e nella solidarietà, perché «chi non piange regredisce, invecchia dentro, mentre chi raggiunge una preghiera più semplice e intima, fatta di adorazione e commozione davanti a Dio, quello matura. Si lega sempre meno a sé stesso e più a Cristo, e diventa povero in spirito. In tal modo si sente più vicino ai poveri, i prediletti di Dio». [202] Di conseguenza, nasce un autentico spirito di riparazione, perché «chi si compunge nel cuore si sente più fratello di tutti i peccatori del mondo, si sente più fratello, senza parvenza di superiorità o asprezza di giudizio, ma sempre con il desiderio di amare e riparare». [203] Questa solidarietà generata dalla compunzione rende allo stesso tempo possibile la riconciliazione. La persona capace di compunzione, «anziché adirarsi e scandalizzarsi per il male commesso dai fratelli, piange per i loro peccati. Non si scandalizza. Avviene una sorta di ribaltamento, dove la tendenza naturale a essere indulgenti con sé stessi e inflessibili con gli altri si capovolge e, per grazia di Dio, si diventa fermi con sé stessi e misericordiosi con gli altri». [204]

La riparazione: un prolungamento per il Cuore di Cristo

191. C’è un altro modo complementare di intendere la riparazione, che ci permette di collocarla in un rapporto ancora più diretto con il Cuore di Cristo, senza escludere da questa riparazione l’impegno concreto verso i nostri fratelli e sorelle di cui abbiamo parlato.

192. In un altro contesto ho affermato che «in qualche modo, Egli [Dio] ha voluto limitare sé stesso» e «molte cose che noi consideriamo mali, pericoli o fonti di sofferenza, fanno parte in realtà dei dolori del parto, che ci stimolano a collaborare con il Creatore». [205] La nostra collaborazione può permettere alla potenza e all’amore di Dio di diffondersi nella nostra vita e nel mondo, mentre il rifiuto o l’indifferenza possono impedirlo. Alcune espressioni bibliche lo esprimono metaforicamente, come quando il Signore reclama: «Se vuoi davvero ritornare, Israele, a me dovrai ritornare» ( Ger 4,1). O quando dice, di fronte al rifiuto del suo popolo: «Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione» ( Os 11,8).

193. Benché non sia possibile parlare di una nuova sofferenza del Cristo glorioso, «il Mistero pasquale di Cristo […] e tutto ciò che Cristo è, tutto ciò che ha compiuto e sofferto per tutti gli uomini, partecipa dell’eternità divina e perciò abbraccia tutti i tempi e in essi è reso presente». [206] Possiamo invece dire che Egli stesso ha accettato di limitare la gloria espansiva della sua risurrezione, di contenere la diffusione del suo immenso e ardente amore per lasciare spazio alla nostra libera cooperazione con il suo Cuore. Questo è tanto reale che il nostro rifiuto lo ferma in tale impulso di donazione, così come la nostra fiducia e l’offerta di noi stessi apre uno spazio, offre un canale libero da ostacoli all’effusione del suo amore. Il nostro rifiuto o la nostra indifferenza limitano gli effetti della sua potenza e la fecondità del suo amore in noi. Se non trova in me fiducia e apertura, il suo amore viene privato – perché Lui stesso così ha voluto – del suo prolungamento nella mia vita, che è unica e irripetibile, e nel mondo in cui mi chiama a renderlo presente. Ciò non deriva da una sua fragilità, ma dalla sua infinita libertà, dalla sua paradossale potenza e dalla perfezione del suo amore per ciascuno di noi. Quando l’onnipotenza di Dio si mostra nella debolezza della nostra libertà, «soltanto la fede può riconoscerla». [207]

194. Infatti, Santa Margherita Maria racconta che, in una delle manifestazioni di Cristo, Egli le parlò del suo Cuore appassionato d’amore per noi, che «non potendo più contenere in sé stesso le fiamme del suo ardente Amore, sente il bisogno di diffonderle». [208] Dal momento che il Signore, che tutto può, nella sua divina libertà ha voluto avere bisogno di noi, la riparazione si intende come rimuovere gli ostacoli che poniamo all’espansione dell’amore di Cristo nel mondo con le nostre mancanze di fiducia, gratitudine e dedizione.

L’offerta all’Amore

195. Per riflettere meglio su questo mistero, ci viene nuovamente in aiuto la luminosa spiritualità di Santa Teresa di Gesù Bambino. Ella sapeva che alcune persone avevano sviluppato una forma estrema di riparazione, con la buona volontà di donarsi per gli altri, che consisteva nell’offrirsi come una sorta di “parafulmine” affinché si realizzasse la giustizia divina: «Pensavo alle anime che si offrono come vittime alla Giustizia di Dio allo scopo di stornare e di attirare su di sé i castighi riservati ai colpevoli». [209] Ma, per quanto ammirevole potesse sembrare tale offerta, lei non ne era troppo convinta: «Io ero lontana dal sentirmi portata a farla». [210] Questa insistenza sulla giustizia divina alla fine induceva a pensare che il sacrificio di Cristo fosse incompleto o parzialmente efficace, o che la sua misericordia non fosse sufficientemente intensa.

196. Con la sua intuizione spirituale Santa Teresa ha scoperto che c’è un altro modo di offrire sé stessi, in cui non è necessario saziare la giustizia divina, ma permettere all’amore infinito del Signore di diffondersi senza ostacoli: «O mio Dio! Il tuo amore disprezzato deve restare nel tuo Cuore? Mi sembra che se tu trovassi anime che si offrono come Vittime di olocausto al tuo Amore, tu le consumeresti rapidamente; mi sembra che saresti felice di non comprimere affatto i torrenti di infinite tenerezze che sono in te». [211]

197. Non c’è nulla da aggiungere all’unico sacrificio redentore di Cristo, ma è vero che il rifiuto della nostra libertà non permette al Cuore di Cristo di dilatare in questo mondo le sue “ondate di infinita tenerezza”. Ed è così perché il Signore stesso vuole rispettare tale possibilità. È questo, più che la giustizia divina, a turbare il cuore di Santa Teresa di Gesù Bambino, poiché per lei la giustizia si comprende solo alla luce dell’amore. Abbiamo visto che ella adorava tutte le perfezioni divine attraverso la misericordia, e così le vedeva trasfigurate, raggianti d’amore. Diceva: «Perfino la Giustizia (e forse anche più di ogni altra) mi sembra rivestita d’amore». [212]

198. Nasce così il suo atto di offerta, non alla giustizia divina, ma all’Amore misericordioso: «Mi offro come vittima d’olocausto al tuo Amore misericordioso, supplicandoti di consumarmi senza posa, lasciando traboccare nella mia anima le onde di infinita tenerezza che sono racchiuse in te, così che io diventi Martire del tuo Amore, o mio Dio!». [213] È importante notare che non si tratta solo di permettere al Cuore di Cristo di diffondere la bellezza del suo amore nel nostro cuore, attraverso una fiducia totale, ma anche che attraverso la propria vita raggiunga gli altri e trasformi il mondo: «Nel Cuore della Chiesa, mia Madre, sarò l’Amore! […] Così il mio sogno sarà realizzato». [214] I due aspetti sono inseparabilmente uniti.

199. Il Signore ha accettato la sua offerta. Infatti, qualche tempo dopo lei stessa manifestò un amore intenso per gli altri e affermò che proveniva dal Cuore di Cristo che si prolungava attraverso di lei. Così diceva a sua sorella Leonia: «Ti amo mille volte più teneramente di quanto si amino le sorelle comuni, poiché posso amarti con il Cuore del nostro Sposo celeste». [215] E qualche tempo dopo disse a Maurice Bellière: «Come vorrei farle comprendere la tenerezza del Cuore di Gesù, ciò che si aspetta da lei!». [216]

Integrità e armonia

200. Sorelle e fratelli, propongo che sviluppiamo questa forma di riparazione, che è, in ultima analisi, offrire al Cuore di Cristo una nuova possibilità di diffondere in questo mondo le fiamme della sua ardente tenerezza. Se è vero che la riparazione implica il desiderio di risarcire gli oltraggi in qualsiasi modo recati all’Amore increato, per dimenticanza o per offesa, [217] il modo più appropriato è che il nostro amore offra al Signore una possibilità di espandersi in cambio di quelle volte in cui è stato rifiutato o negato. Questo avviene se si va oltre la semplice “consolazione” a Cristo di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente, e si traduce in atti di amore fraterno con cui curiamo le ferite della Chiesa e del mondo. In tal modo offriamo nuove espressioni alla forza restauratrice del Cuore di Cristo.

201. Le rinunce e le sofferenze richieste da questi atti d’amore per il prossimo ci uniscono alla passione di Cristo, e soffrendo con Cristo in «quella mistica crocifissione di cui parla l’Apostolo, tanto più copiosi frutti di propiziazione e di espiazione raccoglieremo per noi e per gli altri». [218] Solo Cristo salva con il suo sacrificio sulla croce per noi, solo Lui redime, perché c’è «un solo Dio e un solo mediatore tra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti» ( 1 Tm 2,5-6). La riparazione che offriamo è una partecipazione liberamente accettata al suo amore redentore e al suo unico sacrificio. Così diamo compimento «a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella [nostra] carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa» ( Col 1,24), ed è Cristo stesso che prolunga attraverso di noi gli effetti della sua totale donazione per amore.

202. Le sofferenze hanno spesso a che fare con il nostro ego ferito, ma è proprio l’umiltà del Cuore di Cristo che ci mostra la via dell’abbassamento. Dio ha voluto venire a noi annientandosi, facendosi piccolo. Già lo insegna l’Antico Testamento attraverso varie metafore che mostrano un Dio che entra nelle piccolezze della storia e si lascia rifiutare dal suo popolo. Il suo amore si mescola alla vita quotidiana del popolo amato e si fa mendicante di una risposta, come se chiedesse il permesso di mostrare la sua gloria. D’altra parte, «forse una sola volta, con parole sue, il Signore Gesù si è richiamato al proprio cuore. E ha messo in evidenza questo unico tratto: “mitezza e umiltà”. Come se volesse dire che solo con questa via vuole conquistare l’uomo». [219] Quando Cristo ha detto: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore» ( Mt 11,29) ci ha indicato che «per esprimersi ha bisogno della nostra piccolezza, del nostro abbassarci». [220]

203. In ciò che abbiamo detto è importante notare diversi aspetti inseparabili, perché queste azioni di amore verso il prossimo, con tutte le rinunce, le abnegazioni, le sofferenze e le fatiche che comportano, compiono tale funzione quando sono alimentate dalla carità di Cristo stesso. Egli ci permette di amare come Lui ha amato e così Egli stesso ama e serve attraverso di noi. Se da un lato sembra rimpicciolirsi, annientarsi, perché ha voluto mostrare il suo amore mediante i nostri gesti, dall’altro, nelle più semplici opere di misericordia, il suo Cuore viene glorificato e manifesta tutta la sua grandezza. Un cuore umano che fa spazio all’amore di Cristo attraverso la fiducia totale e gli permette di espandersi nella propria vita con il suo fuoco, diventa capace di amare gli altri come Cristo, facendosi piccolo e vicino a tutti. Così Cristo sazia la propria sete e diffonde gloriosamente in noi e attraverso di noi le fiamme della sua tenerezza ardente. Notiamo la bella armonia che c’è in tutto questo.

204. Infine, per comprendere questa devozione in tutta la sua ricchezza, è necessario aggiungere, riprendendo quanto detto sulla sua dimensione trinitaria, che la riparazione di Cristo come essere umano si offre al Padre mediante l’opera dello Spirito Santo in noi. Pertanto, la nostra riparazione al Cuore di Cristo è rivolta in ultima analisi al Padre, che si compiace di vederci uniti a Cristo quando ci offriamo attraverso di Lui, con Lui e in Lui.

Far innamorare il mondo

205. La proposta cristiana è attraente quando può essere vissuta e manifestata integralmente: non come semplice rifugio in sentimenti religiosi o in riti sfarzosi. Che culto sarebbe per Cristo se ci accontentassimo di un rapporto individuale senza interesse per aiutare gli altri a soffrire meno e a vivere meglio? Potrà forse piacere al Cuore che ha tanto amato se rimaniamo in un’esperienza religiosa intima, senza conseguenze fraterne e sociali? Siamo onesti e leggiamo la Parola di Dio nella sua interezza. Ma per questo stesso motivo diciamo che non si tratta nemmeno di una promozione sociale priva di significato religioso, che alla fine sarebbe volere per l’uomo meno di quello che Dio vuole dargli. Ecco perché dobbiamo concludere questo capitolo ricordando la dimensione missionaria del nostro amore per il Cuore di Cristo.

206. San Giovanni Paolo II, oltre a parlare della dimensione sociale della devozione al Cuore di Cristo, ha fatto riferimento alla «riparazione, che è cooperazione apostolica alla salvezza del mondo». [221] Allo stesso modo, la consacrazione al Cuore di Cristo «è da accostare all’azione missionaria della Chiesa stessa, perché risponde al desiderio del Cuore di Gesù di propagare nel mondo, attraverso le membra del suo Corpo, la sua dedizione totale al Regno». [222] Di conseguenza, attraverso i cristiani, «l’amore sarà riversato nei cuori degli uomini, perché si edifichi il corpo di Cristo che è la Chiesa e si costruisca anche una società di giustizia, pace e fratellanza». [223]

207. Il prolungamento delle fiamme d’amore del Cuore di Cristo avviene anche nell’opera missionaria della Chiesa, che porta l’annuncio dell’amore di Dio manifestato in Cristo. San Vincenzo de’ Paoli lo insegnava molto bene quando invitava i suoi discepoli a chiedere al Signore «questo cuore, questo cuore che ci faccia andare dovunque, questo cuore del Figlio di Dio, cuore di Nostro Signore, […] che ci disponga ad andare, come egli andrebbe […] ed invia anche noi come loro [gli apostoli] a portare dovunque il fuoco». [224]

208. San Paolo VI, rivolgendosi alle Congregazioni che diffondono la devozione al Sacro Cuore, ricordava che «non vi è dubbio che l’impegno pastorale e lo zelo missionario arderanno in maniera vivissima, se, sacerdoti e fedeli, al fine di propagare la gloria di Dio, contempleranno l’esempio dell’amore eterno che Cristo ci ha mostrato, e rivolgeranno i loro sforzi per rendere partecipi tutti gli uomini delle imperscrutabili ricchezze di Cristo». [225] Alla luce del Sacro Cuore, la missione diventa una questione d’amore, e il rischio più grande in questa missione è che si dicano e si facciano molte cose, ma non si riesca a provocare il felice incontro con l’amore di Cristo che abbraccia e che salva.

209. La missione, intesa nella prospettiva di irradiare l’amore del Cuore di Cristo, richiede missionari innamorati, che si lascino ancora conquistare da Cristo e che non possano fare a meno di trasmettere questo amore che ha cambiato la loro vita. Perciò li addolora perdere tempo a discutere di questioni secondarie o a imporre verità e regole, perché la loro preoccupazione principale è comunicare quello che vivono e, soprattutto, che gli altri possano percepire la bontà e la bellezza dell’Amato attraverso i loro poveri sforzi. Non è ciò che accade a qualsiasi innamorato? Vale la pena di prendere ad esempio le parole con cui Dante Alighieri, innamorato, cercava di esprimere questa logica:

«Io dico che pensando il suo valore
Amor sì dolce mi si fa sentire,
che s’io allora non perdessi ardire,
farei parlando innamorar la gente». [226]

210. Parlare di Cristo, con la testimonianza o la parola, in modo tale che gli altri non debbano fare un grande sforzo per amarlo, questo è il desiderio più grande di un missionario dell’anima. Non c’è proselitismo in questa dinamica d’amore: le parole dell’innamorato non disturbano, non impongono, non forzano, solamente portano gli altri a chiedersi come sia possibile un tale amore. Con il massimo rispetto per la libertà e la dignità dell’altro, l’innamorato semplicemente spera che gli sia permesso di raccontare questa amicizia che riempie la sua vita.

211. Cristo ti chiede, senza venir meno alla prudenza e al rispetto, di non vergognarti di riconoscere la tua amicizia con Lui. Ti chiede di avere il coraggio di raccontare agli altri che è un bene per te averlo incontrato: «Chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli» (Mt 10,32). Ma per il cuore innamorato non è un obbligo, è una necessità difficile da contenere: «Guai a me se non annuncio il Vangelo» (1 Cor 9,16). «Nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo» (Ger 20,9).

In comunione di servizio

212. Non si deve pensare a questa missione di comunicare Cristo come se fosse solo una cosa tra me e Lui. La si vive in comunione con la propria comunità e con la Chiesa. Se ci allontaniamo dalla comunità, ci allontaneremo anche da Gesù. Se la dimentichiamo e non ci preoccupiamo per essa, la nostra amicizia con Gesù si raffredderà. Non va mai dimenticato questo segreto. L’amore per i fratelli della propria comunità – religiosa, parrocchiale, diocesana – è come un carburante che alimenta la nostra amicizia con Gesù. Gli atti d’amore verso i fratelli di comunità possono essere il modo migliore, o talvolta l’unico possibile, di esprimere agli altri l’amore di Gesù Cristo. L’ha detto il Signore stesso: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35).

213. È un amore che diventa servizio comunitario. Non mi stanco di ricordare che Gesù l’ha detto con grande chiarezza: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Egli ti propone di trovarlo anche lì, in ogni fratello e in ogni sorella, soprattutto nei più poveri, disprezzati e abbandonati della società. Che bell’incontro!

214. Pertanto, se ci dedichiamo ad aiutare qualcuno, non significa che ci dimentichiamo di Gesù. Al contrario, lo troviamo in un altro modo. E quando cerchiamo di sollevare e guarire qualcuno, Gesù è lì accanto a noi. Infatti, è bene ricordare che quando mandò i suoi discepoli in missione «il Signore agiva insieme con loro» (Mc 16,20). Egli è lì, lavora, lotta e fa del bene con noi. In modo misterioso, è il suo amore che si manifesta attraverso il nostro servizio, è Lui stesso che parla al mondo in quel linguaggio che a volte non può avere parole.

215. Egli ti manda a diffondere il bene e ti spinge da dentro. Per questo ti chiama con una vocazione di servizio: farai del bene come medico, come madre, come insegnante, come sacerdote. Ovunque tu sia, potrai sentire che Lui ti chiama e ti manda a vivere questa missione sulla terra. Egli stesso ci dice: «Vi mando» (Lc 10,3). Questo fa parte dell’amicizia con Lui. Perciò, affinché tale amicizia maturi, bisogna che ti lasci mandare da Lui a compiere una missione in questo mondo, con fiducia, con generosità, con libertà, senza paure. Se ti chiudi nelle tue comodità, questo non ti darà sicurezza, i timori, le tristezze, le angosce appariranno sempre. Chi non compie la propria missione su questa terra non può essere felice, è frustrato. Quindi è meglio che ti lasci inviare, che ti lasci condurre da Lui dove vuole. Non dimenticare che Lui ti accompagna. Non ti getta nell’abisso e ti lascia abbandonato alle tue forze. Lui ti spinge e ti accompagna. L’ha promesso e lo fa: «Io sono con voi tutti i giorni» (Mt 28,20).

216. In qualche modo devi essere missionario, missionaria, come lo furono gli apostoli di Gesù e i primi discepoli, che andarono ad annunciare l’amore di Dio, andarono a raccontare che Cristo è vivo e vale la pena di conoscerlo. Santa Teresa di Gesù Bambino lo viveva come elemento imprescindibile della sua offerta all’Amore misericordioso: «Volevo dar da bere al mio Amato e io stessa mi sentivo divorata dalla sete delle anime». [227] Questa è anche la tua missione. Ognuno la compie a modo suo, e tu vedrai come potrai essere missionario, missionaria. Gesù lo merita. Se ne avrai il coraggio, Lui ti illuminerà. Ti accompagnerà e ti rafforzerà, e vivrai un’esperienza preziosa che ti farà molto bene. Non importa se riuscirai a vedere dei risultati, questo lascialo al Signore che lavora nel segreto dei cuori, ma non smettere di vivere la gioia di cercare di comunicare l’amore di Cristo agli altri.

CONCLUSIONE

217. Ciò che questo documento esprime ci permette di scoprire che quanto è scritto nelle Encicliche sociali Laudato si’ e Fratelli tuttinon è estraneo al nostro incontro con l’amore di Gesù Cristo, perché, abbeverandoci a questo amore, diventiamo capaci di tessere legami fraterni, di riconoscere la dignità di ogni essere umano e di prenderci cura insieme della nostra casa comune.

218. Oggi tutto si compra e si paga, e sembra che il senso stesso della dignità dipenda da cose che si ottengono con il potere del denaro. Siamo spinti solo ad accumulare, consumare e distrarci, imprigionati da un sistema degradante che non ci permette di guardare oltre i nostri bisogni immediati e meschini. L’amore di Cristo è fuori da questo ingranaggio perverso e Lui solo può liberarci da questa febbre in cui non c’è più spazio per un amore gratuito. Egli è in grado di dare un cuore a questa terra e di reinventare l’amore laddove pensiamo che la capacità di amare sia morta per sempre.

219. Ne ha bisogno anche la Chiesa, per non sostituire l’amore di Cristo con strutture caduche, ossessioni di altri tempi, adorazione della propria mentalità, fanatismi di ogni genere che finiscono per prendere il posto dell’amore gratuito di Dio che libera, vivifica, fa gioire il cuore e nutre le comunità. Dalla ferita del costato di Cristo continua a sgorgare quel fiume che non si esaurisce mai, che non passa, che si offre sempre di nuovo a chi vuole amare. Solo il suo amore renderà possibile una nuova umanità.

220. Prego il Signore Gesù che dal suo Cuore santo scorrano per tutti noi fiumi di acqua viva per guarire le ferite che ci infliggiamo, per rafforzare la nostra capacità di amare e servire, per spingerci a imparare a camminare insieme verso un mondo giusto, solidale e fraterno. Questo fino a quando celebreremo felicemente uniti il banchetto del Regno celeste. Lì ci sarà Cristo risorto, che armonizzerà tutte le nostre differenze con la luce che sgorga incessantemente dal suo Cuore aperto. Che sia sempre benedetto!

Dato a Roma, presso San Pietro, il 24 ottobre dell’anno 2024, dodicesimo di Pontificato.

Francesco


[1] Buona parte delle riflessioni di questo primo capitolo si sono lasciate ispirare da scritti inediti del Padre Diego Fares, S.I. Il Signore lo abbia nella sua santa gloria.

[2] Cfr Omero, Iliade, 21, 441.

[3] Cfr ivi, 10, 244.

[4] Cfr Timeo 65 c-d; 70.

[5] Omelia nella Messa mattutina nella Domus Sanctae Marthae, 14 ottobre 2016: L’Osservatore Romano, 15 ottobre 2016, p. 8.

[6]S. Giovanni Paolo II, Angelus, 2 luglio 2000: L’Osservatore Romano, 3-4 luglio 2000, p. 4.

[7] Id., Catechesi, 8 giugno 1994: L’Osservatore Romano, 9 giugno 1994, p. 5.

[8] I demoni (1873).

[9] Romano Guardini, Il mondo religioso di Dostojevskij, Brescia 1980, 236.

[10] Karl Rahner, Alcune tesi per una teologia della devozione al cuore di Gesù, in Teologia del Cuore di Cristo, Roma 1995, 60.

[11] Ivi, 61.

[12] Byung-Chul Han, Heideggers Herz. Zum Begriff der Stimmung bei Martin Heidegger, München 1996, 39.

[13] Ivi, 60; cfr 176.

[14] Cfr Id., Eros in agonia, Milano 2019.

[15] Cfr Martin Heidegger, La poesia di Hölderlin, Milano 1988, 144.

[16] Cfr Michel de Certeau, Lo spazio del desiderio. Gli «Esercizi spirituali» di Loyola, in Il parlare angelico: figure per una poetica della lingua. Secoli XVI e XVII, Firenze 1989, 95-110.

[17] Itinerarium mentis in Deum, VII, 6: San Bonaventura, Itinerario della mente in Dio. Riconduzione delle Arti alla Teologia, Roma 1995, 93.

[18] Id., Proemium in I Sent., q. 3:  Opera Omnia, Quaracchi 1882, vol. 1, 13.

[19] S. John Henry Newman, Meditazioni e Preghiere, Milano 2002, 106.

[20] Cost. past. Gaudium et spes, 82.

[21] Ivi, 10.

[22] Ivi, 14.

[23] Cfr Dicastero per la Dottrina della Fede, Dich. Dignitas infinita (2 aprile 2024), 8. Cfr L’Osservatore Romano, 8 aprile 2024.

[24] Cost. past. Gaudium et spes, 26.

[25] S. Giovanni Paolo II, Angelus, 28 giugno 1998: L’Osservatore Romano, 30 giugno-1 luglio 1998, p. 7.

[26] Lett. enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), 83: AAS (2015), 880.

[27] Omelia nella Messa mattutina nella Domus Sanctae Marthae, 7 giugno 2013: L’Osservatore Romano, 8 giugno 2013, p. 8.

[28] Pio XII, Lett. enc. Haurietis Aquas (15 maggio 1956), I: AAS 48 (1956), 316.

[29] Pio VI, Cost. Auctorem fidei (28 agosto 1794), 63: DH, 2663.

[30] Leone XIII, Lett. enc. Annum Sacrum (25 maggio 1899): ASS 31 (1898-99), 649.

[31] Ibid.: «Inest in Sacro Corde symbolum atque expressa imago infinitae Iesu Christi caritatis».

[32] Angelus, 9 giugno 2013: L’Osservatore Romano, 10-11 giugno 2013, p. 8.

[33] Si comprende così perché la Chiesa abbia proibito che si collochino sull’altare raffigurazioni del solo cuore di Gesù o di Maria (cfr Risposta della Congregazione dei Riti al Rev. Charles Lecoq, P.S.S., 5 aprile 1879: Decreta authentica Congregationis Sacrorum Rituum ex actis ejusdem collecta, vol. III, 107-108, n. 3492). Fuori dalla Liturgia, «per la devozione privata» ( ibid.), si può utilizzare il simbolismo del cuore come espressione didattica, figura estetica o emblema che invita a pensare all’amore di Cristo, ma si corre il rischio di prendere il cuore come oggetto di adorazione o di dialogo spirituale separatamente dalla persona di Cristo. Il 31 marzo 1887 la Congregazione diede un’altra risposta simile ( ivi, 187, n. 3673).

[34] Conc. Ecum. di Trento, Sess. XXV, Decr. Mandat Sancta Synodus (3 dicembre 1563): DH, 1823.

[35] V Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi, Documento di Aparecida (29 giugno 2007), n. 259.

[36] Lett. enc. Haurietis Aquas (15 maggio 1956), I: AAS 48 (1956), 323-324.

[37] Ep. 261, 3: PG 32, 972.

[38] In Io. homil. 63, 2: PG 59, 350.

[39] De fide ad Gratianum, II, 7, 56: PL 16, 594 (ed. 1880).

[40] Enarr. in Ps. 87, 3: PL 37, 1111.

[41] Cfr De fide orth. 3, 6.20: PG 94, 1006.1081.

[42] Olegario González de Cardedal, La entraña del cristianismo, Salamanca 2010, 70-71.

[43] Angelus, 1 giugno 2008: L’Osservatore Romano, 2-3 giugno 2008, p. 1.

[44] Pio XII, Lett. enc. Haurietis Aquas (15 maggio 1956), II: AAS 48 (1956), 327-328.

[45] Ivi, 28: AAS 48 (1956), 343-344.

[46] Benedetto XVI, Angelus, 1 giugno 2008: L’Osservatore Romano, 2-3 giugno 2008, p. 1.

[47] Vigilio, Cost. Inter innumeras sollicitudines (14 maggio 553): DH, 420.

[48] Conc. Ecum. di Efeso , Anatemi di Cirillo di Alessandria, 8: DH, 259.

[49] Conc. Ecum. II di Costantinopoli, Sess. VIII (2 giugno 553), Can. 9: DH, 431.

[50] S. Giovanni della Croce, Cantico spirituale A, Strofa 22, 4: Opere, Roma 1979, 919.

[51] Ivi, Strofa 12, 8: Opere, cit., 881.

[52] Ivi, Strofa 12,1: 878.

[53] «Per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui» ( 1 Cor 8,6). «Al Dio e Padre nostro sia gloria nei secoli dei secoli. Amen» ( Fil 4,20). «Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione» ( 2 Cor 1,3).

[54] Lett. ap. Tertio millennio adveniente (10 novembre 1994), 49: AAS 87 (1995), 35.

[55] Ad Rom., 7: PG 5, 694.

[56] «Bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre» ( Gv 14,31). «Io e il Padre siamo una cosa sola» ( Gv 10,30). «Io sono nel Padre e il Padre è in me» ( Gv 14,10).

[57] «Vado al Padre» ( pros ton Patéra: Gv 16,28). «Io vengo a te» ( pros se: Gv 17,11).

[58] « Eis ton kolpon tou Patrós».

[59] Adv. Haer., III, 18, 1: PG 7, 932.

[60] In Joh., II, 2: PG 14, 110.

[61] Angelus, 23 giugno 2002: L’Osservatore Romano, 24-25 giugno 2002, p. 1.

[62] S. Giovanni Paolo II, Messaggio nel centenario della consacrazione del genere umano al Cuore divino di Gesù, Varsavia, 11 giugno 1999, Solennità del Sacro Cuore di Gesù: L’Osservatore Romano, 12 giugno 1999, p. 5.

[63] Id., Angelus, 8 giugno 1986, 4: L’Osservatore Romano, 9-10 giugno 1986, p. 5.

[64] Omelia, Visita al Policlinico Gemelli e alla Facoltà di Medicina dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, 27 giugno 2014: L’Osservatore Romano, 29 giugno 2014, p. 7.

[65] Ef 1,5.7; 2,18; 3,12.

[66] Ef 2,5.6; 4,15.

[67] Ef 1,3.4.6.7.11.13.15; 2,10.13.21.22; 3,6.11.21.

[68] Messaggio nel centenario della consacrazione del genere umano al Cuore divino di Gesù, Varsavia, 11 giugno 1999, Solennità del Sacro Cuore di Gesù: L’Osservatore Romano, 12 giugno 1999, p. 5.

[69] «Quoniamque inest in Sacro Corde symbolum atque expressa imago infinitae Iesu Christi caritatis, quae movet ipsa nos ad amandum mutuo, ideo consentaneum est dicare se Cordi eius augustissimo: quod tamen nihil est aliud quam dedere atque obligare se Iesu Christo […]. En alterum hodie oblatum oculis auspicatissimum divinissimumque signum: videlicet Cor Iesu sacratissimum, superimposita cruce, splendidissimo candore inter flammas elucens. In eo omnes collocandae spes: ex eo hominum petenda atque expectanda salus» (Lett. enc. Annum Sacrum [25 maggio 1899]: ASS 31 [1898-99], 649; 651).

[70] «In quel felicissimo segno e nella forma che ne emana non sono forse contenute tutta la sostanza della religione e specialmente la norma di una vita più perfetta, come quella che guida per una via più facile le menti a conoscere intimamente Gesù Cristo e induce i cuori ad amarlo più ardentemente e più generosamente ad imitarlo?» (Lett. enc. Miserentissimus Redemptor [8 maggio1928]: AAS 20 (1928), 167.

[71] «È un atto eccellentissimo della virtù di religione, cioè un atto di assoluta e incondizionata sottomissione e consacrazione da parte nostra all’amore del Redentore Divino, di cui è indice e simbolo quanto mai espressivo il suo Cuore trafitto […]; vi possiamo ammirare non soltanto il simbolo ma anche, per così dire, la sintesi di tutto il mistero della nostra redenzione […]. Gesù Cristo espressamente e ripetutamente indicò il suo Cuore come un simbolo quanto mai atto a stimolare gli uomini alla conoscenza e alla stima del suo amore; ed insieme lo costituì quasi segno ed arra di misericordia e di grazia per i bisogni spirituali della Chiesa nei tempi moderni» (Lett. enc. Haurietis Aquas [15 maggio 1956], Proemio; III; IV: AAS 48 (1956), 311; 336; 340).

[72] Catechesi, 8 giugno 1994, 2: L’Osservatore Romano, 9 giugno 1994, p. 5.

[73] Angelus, 1° giugno 2008: L’Osservatore Romano, 2-3 giugno 2008, p. 1.

[74] Lett. enc. Haurietis Aquas (15 maggio 1956), IV: AAS 48 (1956), 344.

[75] Cfr ivi: AAS 48 (1956), 336.

[76] «Il valore delle rivelazioni private è essenzialmente diverso dall’unica rivelazione pubblica: questa esige la nostra fede […]. Una rivelazione privata […] è un aiuto, che è offerto, ma del quale non è obbligatorio fare uso» (Benedetto XVI, Esort. ap. Verbum Domini [30 settembre 2010], 14: AAS 102 [2010], 696).

[77] Lett. enc. Haurietis Aquas (15 maggio 1956), IV: AAS 48 (1956), 340.

[78] Ivi: AAS 48 (1956), 344.

[79] Ibid.

[80] Esort. ap. C’est la confiance (15 ottobre 2023), 20: L’Osservatore Romano, 16 ottobre 2023.

[81] S. Teresa di Gesù Bambino, Ms A, 83vº: Opere complete, Roma 1997, 209.

[82] S. Maria Faustina Kowalska, Diario. La Misericordia Divina nella mia anima (1° quaderno, 22 febbraio 1931), Città del Vaticano 2021, 74.

[83] Cfr Mišna Sukkâ IV, 5. 9.

[84] Lettera al Reverendo Padre Peter-Hans Kolvenbach, Preposito generale della Compagnia di Gesù, Paray-le-Monial (Francia), 5 ottobre 1986: L’Osservatore Romano, 7 ottobre 1986, p. IX.

[85] Atti dei Martiri di Lione, in Eusebio di Cesarea, Hist. Eccles., V, 1, 22: PG 20, 418.

[86] Rufinus, V, 1, 22: GCS, Eusebius II, 1, p. 411, 13s.

[87] S. Giustino, Dial. 135: PG 6,787.

[88] Novaziano, De Trinitate, 29: PL 3, 944. Cfr S. Gregorio di Elvira, Tractatus Origenis de libris Ss. Scripturarum, 20, Paris 1900, 210.

[89] S. Ambrogio, Expl. Ps. I, 33: PL 14, 983-984.

[90] Cfr Tract. in Joann. 61, 6: PL 35,1801.

[91] Epist. ad Rufinum 3, 4.3: PL 22, 334.

[92] Sermones in Cant. 61, 4: PL 183, 1072.

[93] Cfr Expositio altera super Cantica Canticorum, c. 1: PL 180, 487.

[94] Guglielmo di Saint-Thierry, De natura et dignitate amoris, 1: PL 184, 379.

[95] Id., Meditativae Orationes 8, 6: PL 180, 230.

[96] S. Bonaventura, Lignum vitae. De mysterio passionis, 30:  Opuscoli Spirituali, 3, Roma 1992 ( Sancti Bonaventurae Opera, XIII), 245.

[97] Ivi, 47.

[98] S. Gertrude di Helfta, Legatus divinae pietatis, IV, 4, 4: SCh, 255, 66.

[99] Leone Dehon, Directoire spirituel des prêtres du Sacré Cœur de Jésus, Turnhout 1936, II, cap. VII, n. 141.

[100] S. Caterina da Siena, Dialogo della divina provvidenza, LXXV: Fiorilli M. – Caramella S. (ed.), Bari 1928, 144.

[101] Cfr ad esempio Angelus Walz, De veneratione divini cordis Iesu in Ordine Praedicatorum, Roma 1937.

[102] Rafael García Herreros, Vida de San Juan Eudes, Bogotá 1943, 42.

[103] Lettera a S. Giovanna Francesca di Chantal, 24 aprile 1610: Opere complete di Francesco di Sales, vol. 8/2: Lettere 1605-1610, Roma 2021, 686.

[104] Sermone per la II Dom. di Quaresima, 20 febbraio 1622.

[105] Lettera a S. Giovanna Francesca di Chantal nella Solennità dell’Ascensione del 1612: San Francesco di Sales, Tutte le lettere, vol. II (1611-1618). Roma 1967, 183, lett. n. 781.

[106] Lettera a Maria Amata di Blonay, 18 febbraio 1618: ivi, 1056, lett. n. 140.

[107] Lettera a S. Giovanna Francesca di Chantal, fine novembre 1609: ivi, 610, lett. n. 552.

[108] Lettera a S. Giovanna Francesca di Chantal, verso il 25 febbraio 1610: ivi, 654, lett. n. 573.

[109] Entretien XIV, De la simplicité et prudence religieuse.

[110] Lettera a S. Giovanna Francesca di Chantal, 10 giugno 1611: San Francesco di Sales, Tutte le lettere, vol. II (1611-1618), Roma 1967, 56, lett. n. 69.

[111] S. Margherita Maria Alacoque, Autobiografia, n. 53, Roma 1983, 131.

[112] Ibid.

[113] Ivi, 134.

[114] Cfr Dicastero per la Dottrina della Fede, Norme per procedere nel discernimento di presunti fenomeni soprannaturali, 17 maggio 2024, I, A, 12.

[115] S. Margherita Maria Alacoque, Autobiografia, n. 92, Roma 1983, 180.

[116] Ead., Lettera a Suor de la Barge, 22 ottobre 1689: Vita e opere di Santa Margherita Maria Alacoque, vol. II, Roma 1985, 301.

[117] Ead., Autobiografia, n. 53, Op. cit., 132.

[118] Ivi, n. 55, Op. cit., 134.

[119] S. Claudio de La Colombière, Discorso sulla confidenza in Dio: Discorsi sacri su N.S. Gesù Cristo, su Maria Vergine Santissima, sui Santi, sui Novissimi, ecc., vol. III, Torino 1913, 484-485.

[120] Id., Ritiro a Londra, 1-8 febbraio 1677.

[121] Id., Esercizi spirituali a Lione, ottobre-novembre 1674.

[122] Cfr S. Charles de Foucauld, Lettre à Madame de Bondy, 27 aprile 1897: in Fonds Charles de Foucauld – Archives Diocésaines Viviers.

[123] Id., Lettera a Madame de Bondy, 28 aprile 1901: C. de Foucalud, Lettere a M.me de Bondy. Dalla Trappa a Tamanrasset, Roma 1968, 73. Cfr Lettera a Madame de Bondy, 5 aprile 1909: «È per mezzo vostro che ho conosciuto le esposizioni del Santissimo Sacramento, le benedizioni e il Sacro Cuore!»: ivi, 154.

[124] Lettera a Madame de Bondy, 7 aprile 1890: C. de Foucauld, Op. cit., 29.

[125] Lettera a Don Huvelin, 27 giugno 1892: C. de Foucauld – Don Huvelin, Corrispondenza inedita, Torino-Leumann 1965, 30.

[126] S. Charles de Foucauld, Meditazioni sull’Antico Testamento (1896-1897), XXX, 1-21: C. de Foucalud, Chi può resistere a Dio? Meditazioni sulla Sacra Scrittura (1896-1898), Roma 1983, 77-78.

[127] Id., Lettera a Don Huvelin, 16 maggio 1900: C. de Foucauld – Don Huvelin, Corrispondenza inedita, Torino-Leumann 1965, 132-133.

[128] Id., Diario, 17 maggio 1906: Opere spirituali, Roma 1983, 346.

[129] S. Teresa di Gesù Bambino, Lettera 67 a sua zia Madame Guérin, 18 novembre 1888: Opere complete, Città del Vaticano 1997, 354.

[130] Ead., Lettera 122 a Celina, 14 ottobre 1890: Opere complete, 421.

[131] Ead., Poesie 23, “Al Sacro Cuore di Gesù”, giugno e ottobre 1895: Opere complete, 667-668.

[132] Ead., Lettera 247, al Reverendo Maurice Bellière, 21 giugno 1897: Opere complete, 587.

[133] Ead., Ultimi colloqui. Quaderno giallo, 11 luglio 1897: Opere complete, 1014-1015.

[134] Ead., Lettera 197, a Suor Maria del Sacro Cuore, 17 settembre 1896: Opere complete, 537-538. Questo non significa che Teresina non offrisse sacrifici, dolori, angustie come un modo di associarsi alle sofferenze di Cristo, ma quando voleva andare a fondo si preoccupava di non dare a queste offerte un’importanza che non hanno.

[135] Ead., Lettera 142, a Celina, 6 luglio 1893: Opere complete, 451.

[136] Ead., Lettera 191, a Leonia, 12 luglio 1896: Opere complete, 528.

[137] Ead., Lettera 226, al P. Roulland, 9 maggio 1897: Opere complete, 573.

[138] Ead. , Lettera 258 al Reverendo Maurice Bellière, 18 luglio 1897:  Opere complete, 598.

[139] Cfr S. Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali, n. 104, Roma 1984, 110.

[140] Ivi, n. 297, cit., 211.

[141] Cfr Lettera a S. Ignazio, 23 gennaio 1541.

[142] De Vita P. Ignatii et Societatis Iesu initiis, c. 8, 96, Bilbao-Santander 2021, 147.

[143] S. Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali, 54, Roma 1984, 80.

[144] Cfr ivi, 230ss.

[145] XXIII Congregazione Generale della Compagnia di Gesù, Decreto 46, 1: Institutum Societatis Iesu, 2, Firenze 1893, 511.

[146] «In Lui solo… la speranza», Milano 1983, 180-181.

[147] Lettera al Preposito Generale della Compagnia di Gesù, Paray-le-Monial, 5 ottobre 1986.

[148] Conferenze ai Preti della Missione, 132 (13 agosto 1655), “La povertà”: San Vincenzo de’ Paoli, Opere, vol. 10, Roma 2008, 208.

[149] Conferenze alle Figlie della Carità, 89 (9 dicembre 1657), “Mortificazione, corrispondenza, pasti, uscite” ( Regole comuni, artt. 24-27): Op. cit., vol. 9, 807.

[150] S. Daniele Comboni, Scritti, 3324: Daniele Comboni, Gli scritti, Bologna 1991, 998.

[151] Cfr Omelia nella Messa per la canonizzazione, 18 maggio 2003: L’Osservatore Romano, 19-20 maggio 2003, p. 6.

[152] Lett. enc. Dives in misericordia (30 novembre 1980), 13: AAS 72 (1980), 1219.

[153] Catechesi, 20 giugno 1979: L’Osservatore Romano, 22 giugno 1979, p. 1.

[154] Missionari Comboniani del Cuore di Gesù, Regola di Vita, Costituzioni e Direttorio Generale, Roma 1988, 3.

[155] Religiose del Sacro Cuore di Gesù (Società del Sacro Cuore), Costituzioni del 1982, 7.

[156] Lett. enc. Miserentissimus Redemptor (8 maggio 1928): AAS 20 (1928), 174.

[157] Quando si esercita la fede, riferita a Cristo, l’anima accede non solo ad alcuni ricordi, ma alla realtà della sua vita divina  (cfr S. Tommaso d’Aquino,  Summa Theologiæ, II-II, q. 1, a. 2, ad  2; q. 4, a. 1).

[158] Pio XI, Lett. enc. Miserentissimus Redemptor (8 maggio 1928): AAS 20 (1928), 174.

[159] Omelia nella Messa Crismale, 28 marzo 2024: L’Osservatore Romano, 28 marzo 2024, p. 2.

[160] S. Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali, 203, Roma 1984, 160.

[161] Omelia nella Messa Crismale, 28 marzo 2024: L’Osservatore Romano, 28 marzo 2024, p. 2.

[162] S. Margherita Maria Alacoque, Autobiografia, n. 55, Roma 1983, 134.

[163] Ead., Lettera 133, 10: Scritti autobiografici, Roma 1984, 182-183.

[164] Ead., Autobiografia, n. 92, Op. cit., 180.

[165] Lett. enc. Annum Sacrum (25 maggio 1899): ASS 31 (1898-99), 649.

[166] Giuliano, Ep. XLIX ad Arsacium Pontificem Galatiae, Mainz 1828, 90-91.

[167] Ibid.

[168] Dicastero per la Dottrina della Fede, Dich. Dignitas infinita (2 aprile 2024), 19: L’Osservatore Romano, 8 aprile 2024.

[169] Cfr Benedetto XVI, Lettera al Preposito Generale della Compagnia di Gesù in occasione del 50° anniversario dell’Enciclica Haurietis Aquas (15 maggio 2006): AAS 98 (2006), 461.

[170] In Num. homil. 12, 1: PG 12, 657.

[171] Epist. 29, 24: PL 16, 1060.

[172] Adv. Arium 1, 8: PL 8, 1044.

[173] Tract. in Joannem 32, 4: PL 35, 1643.

[174] In Ev. S. Joannis, cap. VII, lectio 5.

[175] Pio XII, Lett. enc. Haurietis Aquas (15 maggio 1956), II: AAS 48 (1956), 321.

[176] S. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Redemptoris Mater (25 marzo 1987), 38: AAS 79 (1987), 411.

[177] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium, 62.

[178] Ivi, 60.

[179] Sermones super Cant., XX, 4: PL 183, 869.

[180] Introduzione alla vita devota, p. III, c. XXXV: Opere complete di Francesco di Sales, vol. 3: Filotea. Introduzione alla vita devota, Roma 2009, 220-221.

[181] Sermone per la XVII Domenica dopo Pentecoste.

[182] Gesù, la sua Passione, Ritiro fatto a Nazaret, 5-15 novembre 1987: C. de Foucauld, La vita nascosta. Ritiri in Terra Santa (1897-1900), Roma 1974, 72.

[183] Dal 19 marzo 1902 tutte le sue lettere sono intestate con le parole Jesus Caritas separate da un cuore sormontato dalla croce.

[184] Lettera a Don Huvelin, 15 luglio 1904: Opere spirituali, Roma 1983, 633.

[185] Lettera a Dom Martin, 25 gennaio 1903: C. de Foucauld, «Cette chère dernière place». Lettres à mes frères de la Trappe, Paris 2012, 311.

[186] Citato in René Voillaume, Les fraternités du Père de Foucauld, Paris, 1946, 173.

[187] Meditazioni dei santi Vangeli sui passi relativi a quindici virtù, Nazaret 1897-1898, Carità 77 ( Mt 20,28): C. de Foucauld, Meditazioni sui passi dei vangeli relativi a Dio solo, fede, speranza, carità (1897-1898), Roma 1973, 325.

[188] Ivi, Carità 90 ( Mt 27,30): Op. cit., 338.

[189] H. Huvelin, Quelques directeurs d’âmes au XVII siècle, Paris 1911, 97.

[190] Cfr Conferenze alle Figlie della Carità, 85 (11 novembre 1657), “Servizio ai malati, cura della propria salute” ( Regole comuni, artt. 12-16): San Vincenzo de’ Paoli, Opere, vol. 9, Roma 2008, 757.

[191] Costituzioni e Statuti della Congregazione della Missione, Roma 1984, 110.

[192] Lettera al Preposito Generale della Compagnia di Gesù (Paray-le-Monial, 5 ottobre 1986): L’Osservatore Romano, 6 ottobre 1986, p. 7.

[193] San Giovanni Paolo II, Esort. ap. postsin. Reconciliatio et Paenitentia (2 dicembre 1984), 16: AAS 77 (1985), 215.

[194] Cfr Id., Lett. enc. Sollicitudo rei socialis (30 dicembre 1987), 36: AAS 80 (1988), 561-562.

[195] Id., Lett. enc. Centesimus annus (1 maggio 1991), 41: AAS 83 (1991), 844-845.

[196] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1888.

[197] Cfr Catechesi, 8 giugno 1994, 2: L’Osservatore Romano, 9 giugno 1994, p. 5.

[198] Discorso ai partecipanti al colloquio internazionale “Réparer l’irréparable”, nel 350° delle apparizioni di Gesù a Paray-le-Monial, 4 maggio 2024: L’Osservatore Romano, 4 maggio 2024, p. 12.

[199] Ibid.

[200] Omelia nella Messa mattutina nella Domus Sanctae Marthae, 6 marzo 2018: L’Osservatore Romano, 5-6 marzo 2018, p. 8.

[201] Discorso ai partecipanti al Colloquio internazionale “Réparer l´irréparable”, nel 350° anniversario delle apparizioni di Gesù a Paray-le-Monial, 4 maggio 2024: L’Osservatore Romano, 4 maggio 2024, p. 12.

[202] Omelia nella Messa Crismale, 28 marzo 2024: L’Osservatore Romano, 28 marzo 2024, p. 2.

[203] Ibid.

[204] Ibid.

[205] Lett. enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), 80: AAS 107 (2015), 879.

[206] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1085.

[207] Ivi, n. 268.

[208] Autobiografia, n. 53, Roma 1983, 131.

[209] S. Teresa di Gesù Bambino, Ms A, 84r°: Opere complete, Roma 1997, 209-210.

[210] Ivi: Op. cit., 210.

[211] Ibid.

[212] Ead., Ms A, 83v°: Op. cit., 209; cfr Lettera 226 a padre Adolfo Roulland, 9 maggio 1897: Op. cit., 572.

[213] Ead., Offerta di me stessa come Vittima d’Olocausto all’Amore Misericordioso del Buon Dio, 2r°-2v°: Op. cit., 943.

[214] Ead., Ms B, 3v°: Op. cit., 223.

[215] Ead., Lettera 186, a Leonia, 11 aprile 1896: Op. cit., 521.

[216] Ead. Lettera 258, al Reverendo Maurice Bellière, 18 luglio 1897, 2r°: Op. cit., 598.

[217] Cfr Pio XI, Lett. enc. Miserentissimus Redemptor (8 maggio 1928): AAS 20 (1928), 169.

[218] Ibid.

[219] S. Giovanni Paolo II, Catechesi, 20 giugno 1979: L’Osservatore Romano, 22 giugno 1979, p. 1.

[220] Omelia nella Messa mattutina nella Domus Sanctae Marthae, 27 giugno 2014: L’Osservatore Romano, 28 giugno 2014, p. 8.

[221] Messaggio nel centenario della consacrazione del genere umano al Cuore divino di Gesù, Varsavia, 11 giugno 1999, Solennità del Sacro Cuore di Gesù: L’Osservatore Romano, 12 giugno 1999, p. 5.

[222] Ibid.

[223] Lettera all’Arcivescovo di Lione in occasione del pellegrinaggio a Paray-le-Monial, per il centenario della consacrazione del genere umano al Cuore divino di Gesù, 4 giugno 1999: L’Osservatore Romano, 12 giugno 1999, p. 4.

[224] Conferenze ai Preti della Missione, 135 (22 agosto 1655), “Ripetizione dell’Orazione”: San Vincenzo de’ Paoli, Opere, vol. 10, Roma 2008, 237-238.

[225] Lett. Diserti interpretes (25 maggio 1965), 4: Enchiridion della Vita Consacrata, Bologna-Milano 2001, n. 3809.

[226] Vita Nova, XIX, 5-6 .

[227] Ms A, 45v°: Opere complete, Roma 1997, 146.

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