Famiglia e infanzia in Europa, Italia e Sardegna di Cristina Urgias
In Europa agli inizi dell’Ottocento, mentre le famiglie aristocratiche e borghesi di ricchi artigiani e agricoltori si avviavano verso la trasformazione dalla tipologia familiare premoderna a quella moderna (in cui si metteva al primo posto la salute e l’educazione dei figli) le famiglie più povere, prostrate da situazioni di disagio (precarietà del lavoro, difficoltà di procurarsi un alloggio, situazioni igieniche malsane ecc.) trovavano numerosi ostacoli nel realizzare il loro ideale di vita borghese.[1]
L’andamento della vita familiare era costantemente sconvolto da eventi imprevisti che avevano delle ripercussioni sia sulla sua reale sopravvivenza sia sui destini individuali dei suoi membri. Tra questi c’era sicuramente la mortalità diffusa a tutte le età e principalmente delle donne che lasciavano i figli orfani in abbandono parziale o totale[2]. Del resto anche per gli uomini le speranze di vita media non andavano oltre i cinquant’anni.
Anche la mortalità infantile toccava delle punte drammatiche.
Le città murate e i centri rurali erano in condizioni igienico-sanitarie alquanto precarie: contaminate da escrementi umani, odori nauseabondi, acque luride, cibi putridi, rumori assordanti. I grandi centri urbani erano neri e fuligginosi per la diffusione delle industrie che bruciavano carbone.[3]
In Italia la situazione non era diversa da quella degli altri paesi europei. Al Nord come al Sud, nelle città come nelle campagne, la condizione di vita degli strati sociali più umili si presenta miserabile, colpita dalle malattie e dalla fame, da uno sfruttamento costante da parte dei datori di lavoro. I nuclei familiari, specie al Centro-Nord, si sgretolavano poiché le donne, costrette a lavorare nei campi o nelle fabbriche o come serve presso famiglie benestanti, debilitate dalle malattie, dalla scarsa alimentazione e dalle ripetute gravidanze, non erano in grado di provvedere ai propri figli che erano precocemente abbandonati.
L’esposizione dei neonati diveniva pratica ricorrente non solo da parte delle madri illegittime, ma veniva adottato anche come mezzo di limitazione del numero dei figli da parte di madri regolari.[4] I neonati depositati nella “ruota” o in particolari siti cittadini venivano “raccolti” nei brefotrofi ed affidati, fino all’età dello svezzamento, a balie che non si sprecavano in cure ed attenzioni. Comunque questi bimbi potevano dirsi più fortunati rispetto a quelli che venivano abbandonati nelle strade, esposti alle intemperie e alla voracità dei topi e dei cani randagi soliti girovagare nei centri abitati indisturbatamente.
Molto triste era la vita dei bimbi presso le famiglie povere. Privi di cure, sporchi, soggetti alla fame, al freddo ed alla promiscuità, il loro degrado cominciava dalla nascita che avveniva in condizioni igienico-sanitarie precarie e continuava negli ambienti in cui vivevano, miseri tuguri divenuti oggetto di numerose drammatiche testimonianze e denunce sociali anche nella letteratura narrativa anglosassone.
Spesso i genitori avviavano i bimbi, fin dall’età di quattro o cinque anni, ad attività lavorative massacranti e sottopagate, per incrementare il misero bilancio famigliare.
Nel Nord Italia i fanciulli erano richiesti soprattutto nelle filande a causa della loro piccola statura e delle manine che riuscivano a lavorare dove un adulto non sarebbe riuscito. Erano costretti a lavorare in ambienti sporchi e male aerati, quasi sempre in piedi per undici ore al giorno.[5]
In Sicilia i bimbi erano venduti dai propri genitori per una somma variabile, ai picconieri delle miniere di zolfo e in alcuni centri della Sardegna dati a contratto ad artigiani[6].
In Piemonte, all’inizio della primavera, si teneva la “Fiera dei bambini” in cui si contrattava il lavoro infantile stagionale come pastorello o pastorella presso una famiglia contadina, in cambio di un misero salario consistente spesso in una scarsa razione giornaliera di cibo per il bimbo[7].
Nel Lazio, nella Basilicata, nella Toscana in Sardegna esistono testimonianze e documenti archivistici di contratti con cui i genitori cedevano i loro bambini a “impresari” che li impiegavano nelle botteghe o nei campi, se non addirittura all’estero per essere utilizzati in lavori debilitanti e pericolosi. Il fenomeno aveva assunto dimensioni tali che nel dicembre del 1873 il governo italiano, sotto la spinta dell’indignazione, promulgò una legge contro la “tratta dei fanciulli”.
Per meglio conoscere la condizione dell’infanzia abbandonata in Sardegna, occorre, partire dallo studio della famiglia, delle sue tipologie,,dei suoi ritmi vitali, dei ruoli svolti dai suoi membri.
Il compito non è molto facile a causa della complessità della società sarda che mostra diverse tipologie familiari a secondo della collocazione geografica e della sua organizzazione produttiva e sociale. Accanto alla famiglia patriarcale ad economia chiusa degli stazzi della Gallura[8] sussiste quella pastorale stanziale o transumante, quella agricola dei centri rurali o quella nucleare dei grossi centri urbani. Alcune caratteristiche e attitudini comuni ci consentono di tracciare il profilo della famiglia in Sardegna.
Per tutto l’Ottocento e fino alla prima metà del Novecento anche in Sardegna ampi strati della popolazione vivevano ai margini della vita sociale in condizioni di estrema miseria che colpivano soprattutto gli esponenti più deboli quali appunto i bambini in tenera età che subito dopo lo svezzamento, erano lasciati in completa balia dell’ambiente circostante senza alcuna difesa o prevenzione, essendo convinzione diffusa che fosse meglio abituare i bimbi ai rigori del tempo e a sopportare il digiuno affinché diventassero forti e atti ai lavori più duri.[9] I bambini finivano per vivere nella strada in una situazione igienico-sanitaria promiscua e precaria. Si trattava però di una scelta quasi obbligata in quanto le madri, che dovevano badare alla cura dei figli, erano costrette ad allontanarsi dalla misere abitazioni per svolgere le operazioni quotidiane necessarie per la vita familiare, quali attingere l’acqua nelle fonti, lavare i panni presso i torrenti o lavatoi pubblici, procurarsi la legna per il fuoco, l’erba e le ghiande per gli animali, provvedere al pane e cosi via. Il padre, per svolgere la sua attività o si assentava per lunghi periodi o usciva all’alba e rientrava la sera, dopo una lunga e faticosa giornata di lavoro, e non aveva il tempo né la voglia di dedicarsi ai figli[10].
Le abitazioni in cui vivevano le famiglie erano generalmente composte da un’unica camera che conteneva il letto o i letti per l’intera famiglia, la cucina, il pozzo nero posto in prossimità della porta di casa spesso costruito con tubi d’argilla che comunicavano direttamente con le fognature.[11]
La luce ed il ricambio dell’aria erano “garantiti” dall’unica apertura, costruita dalla portafinestra.
Nei centri abitati si conviveva con animali di ogni tipo che costituivano una fonte di sostentamento per le famiglie, ma che contribuivano ad aumentare la sporcizia, alimentata dalla penuria di acqua e dalle disastrose condizioni delle strade in terra battuta con fossi e pozzanghere colme di acqua putrida e cumuli di immondizia sparsi ovunque. Aggiungendo a questa situazione la scarsa igiene personale e l’alimentazione insufficiente e incompleta, si può ben comprendere come potessero esistere le malattie infettive e broncopolmonari e quelle endemiche come la malaria, la tubercolosi e il tracoma[12].
L’avvenire di questi fanciulli che crescevano nelle ristrettezze senza guida morale e senza istruzione, era quasi sempre segnato. Essi incorrevano spesso nei rigori della legge ed è facile supporre che una volta divenuti adulti, finissero per incrementare le file del banditismo sardo[13], aumentando la piaga sociale che rendeva la Sardegna di quei tempi la Regione più “criminalizzata” d’Italia[14].
Emarginazione, sfruttamento, violenze fisiche e morali, carenza d’affetto, costituivano la condizione “normale” dei fanciulli poveri nell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento in Sardegna.
[1] L. TRISCIUZZI, La scoperta dell’infanzia, Le Monnier, Firenze s.d. (ma 1976).
[2] Ivi, pp.200-250.
[3] Ivi, p. 832.
[4] F. CAMBI, S. ULIVIERI, Storia dell’infanzia nell’Italia liberale, La Nuova Italia, Firenze 1988, p. 27.
[5] F. CAMBI, S. ULIVIERI, Storia dell’infanzia,, cit. .
[6] S. MERLI, Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale. Il caso italiano 1880-1900, Firenze 1972.
[7] M. RAVELLI, L’anello forte. La donna. Storie di vita contadina, Torino 1985.
[8] G. MORITTU, Asili infantili in Gallura nel primo Novecento. L’Asilo infantile “La Consolata” di Luras, (1917-1968), Tesi di Laurea, Università degli Studi di Sassari, Facoltà di Magistero, a.a. 1998-’99 rell. A. Tedde-G. Manca.
[9] M.C. SOTGIA, Il problema degli esposti nella provincia di Sassari dall’Unità alla Grande Guerra, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Sassari, Facoltà di Scienze Politiche, a.a. 1993-’94.
[10] F. COLETTI, La mortalità nei primi anni d’età e la vita sociale in Sardegna, F.lli Bocca, Torino 1908, pp. 75-78.
[11] A. TEDDE, L’attività sociale delle Dame di Carità nel Primo Novecento a Sassari. La Casa della Divina Provvidenza, 1910-1967, Edizioni Il Torchietto, Ozieri 1994, p. 45.
[12] A. TEDDE, Cattolici per l’infanzia in Sardegna tra Otto e Novecento, Edizioni Il Torchietto, Ozieri 1997, p. 22.
[13] Cfr. F. SANNA RANDACCIO, L’infanzia cenciosa e l’istruzione popolare, Muscas di Valdès, Cagliari 1896.
[14] A. TEDDE, Iniziative assistenzialii e educative per l’infanzia tra Otto e Novecento in L. CAIMI (a cura di), Infanzia, educazione e società ,cit.; A. PIGLIARU, Il banditismo in Sardegna, Ed. Giuffrè, Varese 1975.