La poetessa sardo-genovese di Perfugas Emy Pigureddu a cura di Giovanni Soro e Angelino Tedde

Invitato da Giovanni Soro a presentare insieme le poesie di Emy Pigureddu , nel corso di cinque incontri di studio sul secondo novecento e sulla poesia della poetessa, Pelle di Luna del 1995 e Di vento e granito del 2012, abbiamo steso concordemente questo testo, che poi, è stato letto da Giovanni, essendo io impossibilitato da motivi di salute, alla presentazione avvenuta a Perfugas il 27 luglio, alla presenza di una  quarantina di partecipanti. Ringraziamo Michele Pinna  dell’Istituto Camillo Bellieni che ci ha fornito  Pelle di Luna , mentre la poetessa, a corto di copie, e con perfetta parsimonia genovese ci ha fornito una sola copia Di vento e granito. (A.T.)

Pubblichiamo volentieri il testo della relazione letta e rielaborata da Giovanni Soro

È  con grande piacere ma con tanto timore che ho accettato l’invito a presentare l’opera, di nuvole e granito, della perfughese Emy Pigureddu, poetessa premiata tante volte in concorsi nazionali.

Con me , stasera, avrebbe dovuto partecipare e presentare il Prof. Angelino Tedde , che, all’ultimo momento, ha avuto problemi di famiglia e di salute.

Se ne scusa profondamente.

Tuttavia, tutto ciò che dirò è il risultato di sere di incontri tra noi due, durante i quali, abbiamo analizzato e discusso la poesia della Pigureddu.

Abbiamo cercato di interpretare e cogliere le immagini e il pensiero,  i messaggi e i sentimenti, le gioie e  le sofferenze della sua vita, del suo essere donna, del suo essere figlia, del suo essere moglie e madre.Ma, secondo noi sarebbe utile, per una maggiore comprensione, visitare il panorama letterario in cui si inserisce quest’opera poetica.

Il secondo Novecento italiano, in ambito letterario, vede premiati Il poeta Salvatore Quasimodo nel 1959, Eugenio Montale nel 1975 e Dario Fo nel 1997.

Non dimentichiamo poi i letterati che hanno vinto il premio Nobel nel primo Novecento. Giosuè Carducci nel 1906, Grazia Deledda nel 1926 e Luigi Pirandello nel 1934.

Possiamo ben dire che il Carducci ci richiama al neoclassicismo, Grazia Deledda ad un certo verismo regionale, Luigi Pirandello alla dissociazione dell’animo umano, mentre Salvatore Quasimodo ci richiama all’ermetismo con Eugenio Montale, Dario Fo alle contraddizioni che convivono nella storia e nell’animo umano.

Dopo i fasti del neoclassicismo andiamo a vivere una serie di ismi (verismo, ermetismo, decadentismo ecc) che sarebbe fuori luogo menzionare nella presentazione di questo testo letterario della nostra poetessa.

Diciamo subito che il Novecento è stato ricco di poesia e di movimenti letterari e artistici in generale, legati certamente a quanto avveniva nell’’intera Europa e che gli eventi che si sono succeduti hanno inciso non poco sull’animo sensibile dei poeti e dei letterati in genere.

Stanchi del positivismo e dello scientismo che ha creato terribili tragedie e lutti, la poesia ha cercato di rifugiarsi nell’io e particolarmente nell’inconscio, ha cercato libertà non nel passato letterario, ma in un avvenire nebuloso e poetico,  quasi in un soggettivismo, ermetico e nascosto.

La  parola e le immagini, ricercate con impegno particolare e profondo, hanno frantumato e sommerso i versi e la rima,  per dare libero sfogo ad un verso musicale, spezzato e singhiozzante,  per inseguire  immagini in forma talmente veloce che, a tratti,  non è facile interpretare.

Il poeta si è chiuso in un laboratorio o ,come meglio si dice oggi,  in un’ officina per affinare le sue idee, le sue immagini, le sue illuminazioni.

Da Ungaretti a Quasimodo,  a Montale, i poeti che si sono susseguiti hanno cercato di suggere la migliore linfa; da Pirandello, dal Verga, dalla Deledda, hanno tratto il dramma del vivere e delle sue contraddizioni.

In questo continuo andare a tratti ci si perde, l’esistere è quasi un mare periglioso su cui è pure necessario navigare, da ciò gli smarrimenti a contatto con la natura, il dramma dell’umana convivenza, spesso imprevedibile anche con le persone più care, il tentativo di cercare un approdo con le proprie radici storico-culturali e genetico-parentali, con la nostra stessa vita che sfugge e non riusciamo più a riconoscerla.

Similmente chi ha accettato fortuitamente di navigare con noi per un breve o lungo  viaggio, diventa un estraneo un’estranea quando a tratti va alla deriva .

Non è agevole vivere, eppure come l’edera prende linfa dall’albero che ha catturato, alla stessa maniera anche noi cerchiamo una simbiosi con la natura ,secondo le più raffinate intuizioni greche e dannunziane.

Da tutto il ribollire incandescente del Novecento ogni poeta o poetessa coglie la realtà e la elabora sulla base della propria sensibilità , forgiandola nella sua officina delle parole, delle immagini, dei suoni, dei brevi o lunghi silenzi.

La metafora, l’allegoria sono strumenti stilistici che ben si adattano come l’incudine e il martello nell’officina del fabbro, come i suoni così diversi man mano che il ferro arroventato si raffredda e le interruzioni dei colpi si accentuano o si distanziano.

Così avviene che l’artista risale alla sorgente poetica cui hanno dato inizio in lingua neoromanza i poeti provenzali: io voglio che i miei versi che ho forgiato nella mia officina siano i migliori.

Sono passati mille anni, ma l’arte della poesia richiede sempre, accanto all’ispirazione improvvisa, una lavorazione, perché l’emozione del poeta corra sui versi e susciti, a sua volta,  altre emozioni, sensazioni, immagini, musiche, ricordi visivi e onirici, affetti, passioni infuocate, delusioni cocenti e dolori profondi, come farfalla che vola leggera e sublime, mossa dal tepore della primavera o dall’autunno, per rientrare nel bozzolo e chiudersi al freddo gelo dell’inverno.

Il ciclo del tempo con le sue stagioni, il ciclo della vita colto nel sorriso di un figlio o nel volto radioso di una figlia che va sposa o del coniuge che si ravviva e si accende ai ricordi di un passato ormai spento oppure i fugaci errori dell’andare controvento leggeri come foglie che il vento  disperde.

Seguono le opere i giorni di un’ infanzia che fu quasi un mito, i girasoli nei campi di grano, le donne al fuso, l’annosità di un padre che a forza di lottare ha impressi nel volto e nel corpo scaglie di granito battute dal mare infuriato: umano e natura in perfetta simbiosi si uniscono e si confondono senza riuscire a distinguere l’elemento naturale senza vita apparente e l’umano.

Colpita nei suoi  verdi anni dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta la nostra poetessa ha elaborato, nell’officina del suo animo poetico, parole e  immagini, suoni e  visioni, impulso e passione, affetto e amore e emozioni e,  soltanto nel 1995,  in Pelle di Luna, e nel 2012 , in “Di Nuvole e Granito, ha trovato le vie più larghe per solcare, con l’editoria, l’alto mare aperto dei lettori.

Certamente i premi vinti in vari concorsi, il sodalizio con altri poeti di ogni parte d’Italia, il movimento dei neo-umanisti e tanta lettura di altri poeti e poetesse le hanno permesso di affinare la sua arte che decisamente emerge nella silloge delle 40 poesie suddivise in quattro sezioni: acqua- autunno, aria-primavera,  fuoco- estate, terra-inverno.

Risaltano le prime dieci liriche, in particolare “ Tu dove sei?” dove l’animo della poetessa avverte la solitudine per l’assenza del suo amato che il vivere quotidiano non spinge a cogliere la rosa che sboccia. La lirica si presta ad essere cantata quasi mormorando come certe romanze di De André e si conclude con invito

“ E tu  che ci sei

 nel silenzio del cuore

ritorna nel tempo del cisto fiorito

quando la mano una ciocca discosta 

ed un sorriso la notte fermava.

A quest’assenza-presenza, in solitudine, ben si accorda l’addio amaro alla

Figlia che vai, purché sia lontano

a comporre ritagli,

frammenti di cielo

dentro il tuo mondo a cartoni animati.

Qui la visione della figlia in crisi di contestazione ben si coniuga con il ricordo dell’infanzia di lei assorbita e quasi rapita dai cartoni animati che ora non ci sono più perché la bimba divenuta donna cerca le sue strade, nuova Eva, nei sentieri ispidi del vivere autonoma e staccata dal governo del caldo ambiente familiare. Ben si addice a questa lirica un andamento sincopato con la prima strofa più lunga, con i due versi più brevi, quasi a passo di danza corto e la chiusura identica al primo verso.

Alla madre non resta che tenere in caldo dentro la mano i ricordi passati per farne memoria.

La prima sezione si chiude con questa lirica, ma non dobbiamo dimenticare le altre.

La seconda sezione,  aria – primavera , ci fa contemplare liriche che hanno il loro punto di riferimento tra cielo e mare, quello di Sardegna dove il mito dell’isola e l’isola del mito vigoreggia nel vento, nel volo del gabbiano Jonathan, nel tentativo di simbiosi tra l’io e le sue radici profonde.

Colpisce l’immagine dinamica di Maria che vive pur nella sua limitatezza esistenziale; che lascia approdare nella sua isola solitaria l’animo e il cuore della poetessa. L’isola a questo punto non è più isola, ma è punto d’incontro di complicità di una donna –madre con una bimba che si muove nel suo mondo solitario “fatto di fantasmi di parole” respirate a fatica.”

Dal ritmo singhiozzante dei versi traspare in “T’ho cercata” il piccolo dramma familiare che sovente tra due sorelle o fratelli può accadere.

Una parola detta e non detta, un interesse mio o tuo, un augurio non inviato, un regalo dimenticato sono mille i motivi quando il sangue unisce due esseri umani, perché si finisca per rompere la pace.

La pace però induce alla ricerca di una nuova alleanza matura attraverso i legami delle radici comuni, dei giochi, dei ricordi, delle comunicazioni:

Ho ritrovato un fiore ancora vivo

una frase col punto esclamativo, 

un abbraccio, sorella mia,

che lega ancora insieme

 sangue e cuore…

La musica dei versi rispecchia quasi una microchanson of family tra guerra e pace.

Giungiamo alla stagione del fuoco-ardente dell’estate dove l’ermetismo delle liriche si accentua quasi a celare le più intime lotte e le spirituali trasgressioni, ma contemporaneamente si confonde  con gli obliati tentativi della farfalla che esce dal bozzolo e va alla ricerca di nuove vie ed equilibri anche volando controvento.

Tra queste liriche citiamo “L’ombra del tamerice

 dove

gli occhi sono laghi profondi

 di neve disciolta

 se morbide labbra

 ancora digiune di more mature

gustano intanto uno spicchio di cielo.

 Il tutto si trasforma dannunzianamente in “

tu stringi la mano e sei già corteccia,

acqua con me e fiume,

libelllula o solo ricordo

qui sotto l’ombra di tamerice!

Nella quarta sezione sembra che a contatto con la terra-inverno le passioni, le morie, le aspirazioni, tutta l’anima si plachi in un equilibrio rinascente.

Tra queste dieci liriche segnaliamo la forte sensibilità de “I vecchi al mare” dove

un vestito mille righe 

cammina lento

 lungo la battigia

e

sono tutti uguali

capelli di neve, 

in tasca una conchiglia

come fanno i bambini

accarezzano echi di mare

col cuore troppo solo…

Si sente chiaramente una certa empatia quasimodiana dell’uomo che

sta solo sul cuor della terra

trafitto da un raggio di sole:

ed è subito sera.

La lirica che compendia la somma degli amori per la sua terra, per il suo cielo e il suo mare, la sua vegetazione, il vento il granito la forza si ritrova in quel piccolo capolavoro che è la poesia “Padre” :

nei pensieri che ancora tieni in mano

non s’arrende la rabbia 

che cerca voli e mondi da domare e 

(…)

il vento t’incurva e ti raggela

e non basta il fuoco del camino

a germogliare il seme di un sorriso.

 (…)

la tua linfa mi scorre nelle vene 

e facile non è, lasciare al tempo

l’ingrato compito di farti

una carezza che consola

quando l’ultimo granello

è scivolato ed il silenzio,

intero mi confonde.

Non è facile leggere e presentare la complessità di una poetessa che ha vissuto a pieno la sua stagione e continua ancora a gestirla. Non siamo  critici letterari, siamo cultori appassionati di poesia e abbiamo cercato con la nostra sensibilità di darvi un’immagine, nemmeno un ritratto dinamico, di una nostra compaesana anglonese che vivendo tra l’isola e la penisola ci pare abbia colto le più suggestive risonanze della poesia contemporanea.

 Emy Pigureddu è nata a Perfugas, emigrata fin da fanciulla (4 anni) a Genova, è rientrata in Sardegna alle soglie dei 40 anni. Nella stessa Genova ha frequentato elementari medie e il ginnasio-liceo, giungendo all’idoneità alla seconda liceo classico. Poi ha seguito studi professionali idonei al lavoro di assicuratrice che tuttora porta avanti. Ha coltivato la poesia fin da ragazza partecipando a vari concorsi e incontri e a sodalizi letterari un pò in tutta Italia. Ha fatto parte dell’accademia dei neo-umanisti e ovviamente ha risentito delle temperie culturali dei numerosi poeti e poetesse del secondo novecento italiano. Nella galassia dell’abbondante poesia novecentesca italiana gli storici della letturatura, fra qualche secolo, potranno meglio collocare le singole personalità poetiche dell’ultimo scorcio del secolo appena scomparso. La poetessa è nata a Perfugas (Sassari) nel 1956. Il nome della poetessa è presente in svariati link su google con brevi recensioni e annunci di presentazione delle sue liriche ed è presente su face book.

Da  “Di nuvole e granito”  Editrice  Print Me  s.r.l Taranto

 

Insidiosa ansia

 

Inquieta la notte
che non cede le armi,
nelle vene pulsa
insidiosa l’ansia
e la mente ancora desta,
maciulla soluzioni.

La sigaretta lenta,
brucia in cenere finissima
teneri grovigli
senza luna
in cielo.

 

Da Pelle di luna ,Lorziana Editrice, Sassari 1992

Fiore di sabbia

Vivido mare
respira dentro te
come fiore di sabbia,
senza radici, strumento e memoria.
Inferriate antiche di tempo
segnano un breve sentiero
che non puoi ancora lasciare
se dagli occhi traspira
parvenza d’amore.
Non provo coscienza presente
per l’appassire già certo
e il fiore di sabbia
protende senza stupore
il suo fuxia
violento di sole.
Domani, con gli occhi
velati di tempo
lascerò sulla riva
un corpo fiorito,
nato dal taglio
di quel fiore reciso.

Orosei  , 1991.

 

Emy Pigureddu             http://www.facebook.com/emy.pigureddu?ref=ts

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