Una favola (vera!) di Sardegna: pitzinnos minores, o degli incauti dei fichi d’India! di Luigi Ladu
di Luigi Ladu. A Nuoro da qualche tempo si era dato inizio alla costruzione del santuario della Madonna delle Grazie (ndr il nuovo, edificato negli anni 50). Il santuario sorgeva nel quartiere di Ponte ‘e Ferru (1), un luogo bello, amato, specie dagli anziani che, seduti sul vecchio muraglione in granito, accanto a una fontanella d’acqua sorgiva, trascorrevano momenti di conversazione godendosi la salutare frescura e spettegolando i fatti della comunità. Quel sito piaceva pure ai bambini, che vi si muovevano e destreggiavano in libertà.
Tra questi c’erano Luiseddu e Gratzianeddu, i quali erano diventati ottimi amici e amavano giocare insieme nei pressi della chiesa in costruzione. Di tanto in tanto, tzia Grassiarosa, la madre di Gratzianeddu, concedeva al figlio il permesso di accompagnare Luiseddu a su cunzau (2), e di trascorrervi addirittura la notte, in qualche rara occasione di restarci persino per una settimana. Fu così che il loro rapporto divenne così forte che i due venivano scambiati per fratelli.
Accadde infine che un giorno di tarda estate, Luiseddu e l’amico Gratzianeddu, sebbene avessero entrambi solo sette anni, si recarono da soli nella tenuta di su Grumene. Giocarono tutta la mattina, arrampicandosi sugli alberi alla ricerca di nidi d’uccelli e mostrando ciascuno le proprie abilità. Venuto mezzogiorno sentirono fame e poiché in sa sa domo (3), non vi era niente da mangiare, e l’uva, anche se non ancora matura, li aveva stufati, armati di alcuni coltelli, mossero verso un boschetto macchiato di piante di fichi d’india.
Giunti sul posto, alla maniera di tziu Badore, si costruirono una scopetta di lentischio che usarono per liberare i frutti dalle spine. Dopo averli raccolti, cominciarono a sbucciarli, acquistando maggiore pratica con il passare del tempo e una volta sbucciati… subito in bocca!
Forse molto poté la fame, sta di fatto che quei fichi ancora un poco acerbi parvero loro più gustosi del solito e li divorarono tutti. Sazi ma non appagati i bambini rifletterono se non fosse il caso di coglierne altri.
Gratzianeddu, che normalmente aveva meno occasioni di stare in campagna, e quindi di gustare quelle delizie, disse: “Dai che ricominciamo, io ho ancora tanta fame! E poi, sono veramente buoni!”.
Luiseddu sapeva però che non era bene mangiare troppi fichi d’india perché era un frutto… astringente.
“Gratzianè – disse, infatti, il ragazzino – mamma e anche babbo, mi hanno sempre raccomandato di non mangiarne tanti, perché fanno male e non potremo più andare al gabinetto…”.
“Davvero, Luiseddu? Fanno questo effetto?”.
“Certo, dobbiamo fermarci, e appena rientreremo a Nuoro mangeremo qualcosa a casa… Dai, lasciamo stare e andiamo”.
“Luisè, ciò che dici mi sembra molto interessante…. Se fosse vero, mangiando fichi d’India in abbondanza, si potrebbe chiudere per sempre con il “problema” del gabinetto: pensa soltanto al tempo risparmiato e a quanto tempo in più si avrebbe per giocare, non credi?”.
Luiseddu, perplesso, ma quasi affascinato dal discorso di Gratzianeddu, rifletté per un poco e poi convenne: “Certo, recuperare tutto il tempo che perdiamo per andare di corpo, sarebbe veramente bello!”. Gratzianeddu incalzò:“Dai Luisè, io inizio a raccoglierli: datti da fare anche tu! Vedrai, sarà la nostra fortuna!”.
E così, di buona lena e in gran sintonia, Luiseddu e Gratzianeddu raccolsero, sbucciarono e divorarono fichi d’India in quantità industriale. Ne mangiarono talmente tanti che a un certo punto dovettero fermarsi sfiniti, mentre il ventre pieno sembrava essere stato gonfiato con l’aria compressa.
Passato qualche minuto Gratzianeddu si lamentò: “Ohi, mi duole la pancia! Non riesco a resistere: penso che dovrò abbandonare l’idea di non andare più di corpo!”.
“Pure io, l’abbandono all’istante!” ribatté Luiseddu correndo dietro un cespuglio prima di calarsi i calzoni corti che indossava. Subito Gratzianeddu ne seguì l’esempio ed entrambi si applicarono con pazienza per riuscire nel lorointento ma… senza risultato! “Dai, ancora un piccolo sforzo – lo esortò Luiseddu, – altrimenti saranno guai seri!”. Gli innumerevoli tentativi, tuttavia, non portarono a nulla e i due amici cominciarono a perdere la speranza: la paura cresceva e grossi lacrimoni rigavano le loro guance.
“Basta, non ci riesco: dobbiamo rientrare immediatamente a Nuoro, ci porteranno dal dottore e lui saprà come comportarsi. Ajo, Gratzianè!” ordinò infine Luiseddu. Subito i ragazzini si incamminarono verso la lontana cittadina. Quando ebbero percorso alcuni chilometri di strada, Luiseddu si fermò: “Dai Gratzianè, io forse adesso ci riesco, mi sento spingere in modo terribile, ci provo nuovamente!”.
Corse di nuovo dietro un altro cespuglio di lentischio, calzoni giù, gambe piegate e la…. consueta pausa. Stimolatoda Luiseddu, Gratzianeddu lo imitò. Però, in barba alla spasmodica attesa, l’evento non si verificò neppure nell’occasione mentre invece aumentavano i dolori al basso ventre.
“Basta – piangeva Luiseddu sollevandosi i pantaloni, – io mi sento morire, dobbiamo tornare a Nuoro”.
“Hai ragione: mi sento morire pure io!” concordò il compagno di sventura.
Rapidi e piangenti ripresero il cammino verso casa. Vi giunsero sfiniti e disperati e quasi non ebbero la forza di salutarsi quando ciascuno si diresse alla sua abitazione. “Mamma, sto morendo, mi fa molto male la pancia, non resisto!” pianse Luiseddu non appena scorse tzia Francisca. La donna, allarmata, afferrò il figlio e gli chiese: “Fizu mè, ite t‟àt sutzessu?(4)”.
“Ho mangiato tanti fichi d‟india e non riesco più ad andare di corpo: chiamate dottor Marcello, altrimenti muoio!”.
“Quante volte ti ho detto che quei frutti sono astringenti e che si devono mangiare con moderazione, soprattutto se sono freschi?”. Così dicendo tzia Francisca si avvicinò ad una vasca collocata nel cortiletto di casa, prese un pezzo di sapone preparato artigianalmente con il lardo di maiale e la soda, lo tagliò in forma di suppostine e disse: “Dai Luisè, abbassati i pantaloni che cercheremo di fare qualcosa!”.
La paura, più che il dolore impedì a Luiseddu di replicare ma la donna lo fece poggiare sulla vasca e cominciò ad infilargli i frammenti di sapone nel sederino. In quello stesso istante si sentirono delle urla terribili provenienti dalla casa vicina. Lia, una delle sorelle di Luiseddu, corse fuori e poi tornò di corsa verso tzia Francisca: “Mamma, benide, beste Gratzianeddu disperau! (5)”. Ad un tempo, non cessavano i lamenti di Luiseddu la cui agitazione e il cui nervosimo crescevano.
Venuta a sapere che i due bambini erano stati insieme in su cunzau, e dato che tzia Grassiarosa, la mamma di Gratzianeddu, era fuori città per commissioni, tzia Francisca si sentì in dovere di intervenire anche con quest’ultimo. “Lia, portami subito Gratzianeddu qui!” ordinò alla figlia. Quando infine il bambino, mani sul basso ventre e schiena piegata, si presentò davanti a lei, gli intimò: “Falati sos pantalones e poneti incurbiau comente a Luiseddu (6)”.
Sebbene impaurito il piccolo obbedì: si calò i calzoni e permise a tzia Francisca di ripetere su di lui la stessa operazione con le… suppostine. Passarono diversi minuti ma non accadde nulla. Però il sapone cominciava la sua azione e i dolori si facevano intollerabili. Assordata dalle urla e dalle strilla inumane, tzia Francisca si decise ad usare tutte le pastiglie su entrambi i piccoli.
Quando anche lei stava cominciando a perdere ogni speranza e stava decidendo di chiamare il medico, un rumore idraulico nel ventre di Luiseddu anticipò l’arrivo di diverse serie esplosive di feci che imbrattarono di escrementi le gambe del fanciullo, il pavimento, finanche la vecchia vasca.
Pochi minuti e il “miracolo” si ripeté anche con Gratzianeddu:“Laudau siete Zesu Gristu (7)” esclamò tzia Francisca alzando gli occhi al cielo. Quindi impugnò il tubo di gomma che normalmente collegava al rubinetto della vasca per pulire e rinfrescare il cortile, e con la pressione al massimo indirizzò il getto d’acqua nella direzione dei due malcapitati. E mentre l’acqua lavava, Luiseddu e Gratzianeddu continuarono ad eruttare feci ed escrementi vari…. Infine, dopo innumerevoli altri tuoni e fulmini, tzia Francisca diede ai bambini un asciugamano e li invitò ad asciugarsi, mentre lei terminava di sciaquare il cortile.
Poco più tardi, silenziosi, dolenti e umiliati, Luiseddu e Gratzianeddu corsero a nascondersi in un angolo tra i gradini che portavano al piano superiore della casa. Quando tzia Francisca li raggiunse per rimproverarli, capita la loro angoscia, la donna si limitò ad ammonirli:“Oggi avete constatato di persona cosa significa esagerare e cosasignifica disobbedire. Avete avuto una grande lezione: ricordatevela!”.
Così fu e così termina la favola (vera!) degli… incauti dei fichi d’India!
1) Ponte di ferro – punto di collegamento tra via La Marmora e Corso Garibaldi (ex via Majore)
2) Orto o giardino coltivato.
3) La casa di campagna.
4) Figlio mio, che ti è accaduto?
5) Mamma, venite subito che c’è Gratzianeddu disperato!
6) Calati i pantaloni e mettiti come Luiseddu!
7) Sia lodato Gesù Cristo!
Nota: tratta da “Pitzinnos minores” di Luigi Ladu. Adattamento in forma di favola per Rosebud di Rina Brundu.
Fotografia nell’articolo di Luigi Ladu: Nuoro vecchia.