“Controfigure” di Jadwiga Maurer Quando non c’era memoria ma solo trauma di Anna Foa
“Controfigure” è una raccolta di racconti di Jadwiga Maurer – a cura di Laura Quercioli Mincer (Firenze, Giuntina, 2011, pagine 213, euro 14) – una scrittrice polacca che vive negli Stati Uniti e scrive in polacco, ignota ai lettori italiani perché di lei era stato finora tradotto solo un racconto.
Jadwiga nasce in Polonia, a Kielce, nel 1932, in una famiglia di intellettuali ebrei al tempo stesso molto vicini al mondo della cultura ebraica e molto identificati con la patria polacca. La sua famiglia riesce a sfuggire alla sorte che le è riservata attraverso l’uso di “documenti ariani” e, come suggerisce la curatrice del libro, anche grazie “a una rimozione quasi totale del proprio passato, all’assunzione di biografie e fedi religiose posticce”.
Dopo aver passato un anno a Kasimierz, il quartiere ebraico di Cracovia già sgombrato dei suoi ebrei, nel 1944 la famiglia Maurer cerca di trovare rifugio in Ungheria, con l’aiuto dell’organizzazione clandestina Zegota. Bloccati dagli eventi in Slovacchia, riescono a nascondervisi, e Jadwiga riesce anche a frequentare la scuola in un convento di monache francescane.
Di lì, alla fine della guerra, i Maurer si trasferiscono a Monaco di Baviera. La scelta, anche se potrebbe sembrare strana, aveva una sua logica: la Polonia era assai ostile agli ebrei, tanto che nella stessa città natale di Jadwiga, Kielce, ci fu nel 1946 un sanguinoso pogrom a opera dei polacchi. Invece Monaco, nella Germania occupata dagli americani, era un luogo dove nell’immediato dopoguerra i pochi ebrei che vi si stabilirono potevano usufruire degli aiuti dell’Unrra (l’organizzazione umanitaria internazionale che si occupava degli aiuti ai profughi) e condurre una vita con una parvenza di normalità, in attesa di emigrare in Palestina o negli Stati Uniti.
I racconti sono ambientati nel convento slovacco, a Monaco, e negli Stati Uniti, dove l’autrice finisce per trasferirsi e dove insegnerà letteratura polacca in varie università. L’ambientazione, pur così legata alla sua autobiografia, non ne fa tuttavia dei testi autobiografici, ci tiene a sottolineare l’autrice. Certo, l’io narrante, nella forma prima della bambina poi della giovane studentessa, è talmente forte e caratterizzato da dare l’idea di un percorso autobiografico. Il personaggio è complesso, ironico e autoironico, profondo e distaccato, intimamente segnato dall’esperienza passata, dal nascondimento e dalla Shoah, anche se tutto ciò è espresso in un linguaggio asciutto e antiretorico, mai lamentoso.
Molte storie, molti personaggi suscitano la nostra attenzione, destano la nostra curiosità. Bellissimi i racconti sulla vita della protagonista a Monaco. In La doppia vita, la sua giornata è divisa fra la frequentazione del gruppo di giovani della mensa, ebrei per lo più polacchi, reduci dai campi, con il numero tatuato sull’avambraccio, e quella dei tedeschi suoi compagni d’università.
Destinato in quel contesto al fallimento è il tentativo di mescolare i mondi, sollecitato da un professore che vuole dedicarsi al dialogo con gli ebrei, e spera che la giovane studentessa ebrea possa farsene tramite: due studenti tedeschi, con cui la protagonista passa lunghe ore a discutere di letteratura e di filosofia, saranno invitati a un ballo dei profughi. Ma nulla ne verrà fuori, ovviamente. La sensazione è quella di una sorta di vita sospesa, sia per la protagonista che per i profughi: “Il tempo riposava, si era acquattato chissà dove, era irraggiungibile. Sembrava che si fosse esaurito insieme alla guerra e alla catastrofe, e che non fosse più responsabile per il suo scorrere. Si era inceppato, punto e basta. Cominciai a pensare che il tempo avrei dovuto spingerlo io”. La sua sensazione è che i sopravvissuti abbiano oltrepassato una soglia, che la morte non possa più coglierli.
L’identificazione con la Polonia è un tema dominante del percorso della protagonista, un amore per la patria polacca di cui si sentiva parte fin da bambina e di cui continua a sentirsi parte anche negli Stati Uniti. La Polonia dei pogrom del 1945 è ormai diventata quella dell’antisemitismo dello Stato comunista. E quando un professore antisemita giunge all’università inviato dalla Repubblica Popolare Polacca, la protagonista si domanda chi sia, quale sia la sua origine, dal momento che è anche lui passato da un convento. Era, probabilmente, un altro orfano ebreo, che la sorte aveva avviato a un percorso diverso dal loro.
Molto belli anche i racconti ambientati nel convento slovacco in cui la protagonista bambina è accolta e in cui si immedesima nel mondo in cui si trova tanto da proporsi di diventare santa. Prega, legge libri di devozione, fino a capire che non vi riuscirà. La fine della guerra la proietterà nuovamente nel suo mondo.
Nelle pagine di questi racconti sfilano personaggi diversi, tutti un po’ sospesi, in quel dopoguerra in cui il destino di quanti tornano dal campo è ancora segnato non dalla memoria, che ancora non c’è che a sprazzi, ma dal trauma. E in cui gli altri stessi, i non ebrei, si muovono nel migliore dei casi un po’ a vuoto tra la buona volontà e l’incapacità di esprimerla. Un angolo visuale, quello del “dopo”, non troppo utilizzato nella letteratura sulla Shoah, ma che si rivela qui utile anche alla comprensione del “prima”. Quel prima che resta sullo sfondo, nel rumore, che la protagonista ode quotidianamente dal suo convento in Slovacchia, dei treni piombati che nel 1944 portavano gli ebrei ungheresi ad Auschwitz.