Oltre la congiuntura economica la crisi dell’uomo europeo di Michele Dau
Mentre l’Europa sembra avere preso le decisioni tecniche necessarie per la stabilità finanziaria, e per la garanzia dei debiti sovrani, un contributo a una riflessione di prospettiva sembra necessaria. Quegli strumenti dei quali concitatamente si è parlato per mesi – in un susseguirsi di vertici a due o a tre, intervallati da summit tanto ampi quanto purtroppo inconcludenti – si vanno finalmente configurando, anche se ci vorrà ancora del tempo per vederli in funzione e per registrarne gli effetti positivi.
La crisi finanziaria, economica e sociale – in molti casi sottovalutata, se non anche negata – ha però origini più lontane di quanto non si creda. Le ragioni non sono solo nella asimmetria di una Europa monetaria alla quale non corrispondeva ancora un’Europa politica. Ma sono ancor di più nell’indebolimento, culturale e morale, delle forze politiche e delle idee che hanno costruito il sogno dell’Europa comune. Più di una voce si è levata in queste ultime settimane sulla paralisi della democrazia. Per le modifiche oggi necessarie ai Trattati, e per una loro più spedita efficacia, si dibatte su come evitare di coinvolgere direttamente i cittadini nei diversi Paesi. I tecnici degli ordinamenti finanziari prendono ovunque terreno togliendo spazi a una rappresentanza politica e sociale già da tempo in difficoltà.
L’Europa che noi oggi viviamo, con i vantaggi di apertura e di relazioni che spesso dimentichiamo, è stata costruita dalle grandi forze politiche che per decenni si sono alternate alla guida nei maggiori Paesi. Da un lato quelle forze cristiano-democratiche, cristiano-sociali e popolari, dall’altro le forze socialdemocratiche che avevano abbandonato le ideologie totalitarie e abbracciato visioni più solidariste, che coniugavano libertà e giustizia sociale. L’ispirazione e le iniziative di queste espressioni politiche hanno realizzato, non solo la ricostruzione dopo la guerra, ma una eccezionale crescita economica del vecchio continente e uno straordinario modello sociale di civiltà che non ha uguali nel mondo. Sviluppo economico e coesione sociale hanno rappresentato il binomio del successo, con indici di produttività e di capacità competitiva tali da collocare i primi quattro Paesi europei ai vertici della graduatoria mondiale per oltre mezzo secolo.
Non è certo irrilevante richiamare questi profili di espansione economica perché una vera giustizia sociale assai difficilmente si realizza in condizioni di povertà o di bassa crescita, quando le politiche redistributive devono togliere a qualcuno per dare a qualcun altro, accrescendo così la divisione e il conflitto fra i gruppi sociali. Solo la crescita può portare benessere diffuso e una maggiore equità sociale. Questa equazione è stata felicemente soddisfatta per alcuni decenni in continuità. All’interno di questi processi di evoluzione milioni di persone si sono velocemente emancipati e liberati da antiche limitazioni e restrizioni. A partire dagli ultimi anni della fine del secondo millennio, e lungo tutto il primo decennio del nuovo secolo, la crescita ha però rallentato ovunque. Dove più dove meno, i tassi di sviluppo medi sono stati largamente inferiori a quelli dei periodi precedenti.
Le cause del grave rallentamento della crescita non si devono cercare solo nella concorrenza di altri Paesi emergenti, fino a ieri ai margini. C’è anche questo, ma contano di più i fenomeni endogeni della nostra dimensione europea. La fine della crescita continua, infatti, si è intrecciata, in un fenomeno di causa ed effetto insieme, con il progressivo allentamento della coesione sociale e l’affermarsi di modelli di vita fondati non su valori collettivi ma solo sulla soggettività e la libertà individuale. È così progressivamente dilagato quello che i filosofi chiamano “individualismo metodologico”, ovvero il principio dell’affermazione personale ad ogni costo, del desiderio incontrollato, della pulsione soggettiva come elemento forte di identità. Tutto ciò non si basava tanto sull’idea liberale che ha sempre indicato il limite della libertà personale nella non invasione della sfera della libertà dell’altro. Ma si fondava piuttosto su ideologie tanto più superficiali quanto insidiose perché capaci di dare apparente, momentanea, soddisfazione a bisogni spesso indotti. Su questa affermazione ideologica individualista si è innestata, come ideologia di massa, quella liberista e mercatista nelle vita economica, e quella dell’estremismo individualista nella vita sociale. La modernizzazione è stata così perseguita non tanto nell’organizzazione sociale, nell’ambiente sociale, dove in molti casi siamo ancora in arretrato anche grave, ma sempre di più solo nel cambiamento forzato dell’uomo, nella rottura di ogni possibile legame sociale, di ogni necessaria responsabilità personale e comunitaria. Con il risultato paradossale e inquietante di ritrovarsi una presunta antropologia innovativa, un uomo nuovo individualizzato, in un ambiente sociale spesso frantumato e arretrato.
Non è perciò esagerato parlare di vera e propria crisi dell’uomo europeo: una crisi visibile, pure con linee diverse, tanto nelle generazioni più anziane e terrorizzate dal perdere solo qualcosa che hanno ottenuto, quanto nelle generazioni più giovani largamente tenute ai margini della vita collettiva reale.
Queste nuove espressioni soggettivizzate hanno prodotto una domanda politica a loro omogenea e una conseguente nuova offerta a base di emozioni populiste, di ubriacature secessioniste, di nuove spinte anche razziste e xenofobe. Politiche basate sulla esasperata semplificazione amministrativa e istituzionale, sull’idea dell’uomo solo al comando e dell’opposizione ad ogni forma di complessità sociale. In questo scenario hanno perso terreno non solo le Nazioni ma anche le città e le comunità locali, con l’esaltazione acritica delle nuove forme di comunicazione e di relazionalità tecnologica di facebook e di twitter. Un uomo politico è così moderno non quando con fatica discute con i suoi elettori o quando costruisce risposte a problemi complicati, ma quando “cinguetta” in diretta le sue emozioni, le sue reazioni epidermiche, a qualche centinaio o migliaio di internauti di mestiere.
Non si sta certo dicendo che queste opportunità offerte dalla tecnologia debbano essere trascurate, quanto piuttosto che non sia il caso di idolatrarle come forme superiori di comunicazione e di relazione. Tutto ciò che l’uomo riesce a creare con la sua intelligenza può essere finalizzato alla crescita della persona e al bene comune.
Come si può uscire da questa situazione? Anzitutto è indispensabile prenderne una certa coscienza, senza infingimenti, senza scorciatoie, specie per quanti si richiamano ancora a quelle correnti di pensiero straordinarie che hanno fatto grande questo continente e hanno irradiato luci positive in tutto il mondo. I sacrifici che oggi vengono richiesti quasi ovunque, se distribuiti con equità accettabile, ancorché sempre penosi, non segneranno certo un arretramento delle nostre acquisizioni sociali, ma solo il necessario recupero di margini di efficienza necessari.
Non si tratta certo di tornare indietro, o solo di rispolverare principi e dogmi antichi, di guardare con nostalgia un passato che non torna. Piuttosto, per tutti quanti hanno responsabilità, e per coloro che hanno sincera buona volontà, si tratta di ripulire la vigna da tanta erba secca, inutile, se non dannosa. Non si tratta di esprimere cose astruse, ma di dire cose vere che sollecitano il contributo concreto di ognuno nella sua tensione alle relazioni positive con gli altri. Costruire nuove città, dunque, e costruire società.
Abbiamo conoscenze straordinarie e radici spirituali vitali: la ripresa europea potrà avvenire solo con un moderno umanesimo solidale.
http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/text.html#2
(©L’Osservatore Romano 12-13 dicembre 2011)