Come la teologa bavarese von Kirschbaum valorizzò la donna di Cristiana Dobner
Charlotte sapeva pensare
E l’autodidatta smise di essere musa per diventare persona
Dalla donna musa alla donna che pensa da sé e produce da sé in autonomia, il cammino storico è stato lungo e lento. Charlotte von Kirschbaum si colloca, storicamente, su questo percorso con peculiarità proprie e ambiguità che rendono interessante la sua discutibile figura di pensatrice e di donna.
Di stirpe aristocratica e militaresca – il padre è generale – Charlotte, nata nel 1899 in Baviera, frequenta un liceo femminile che, se le offre una cultura elevata per gli standard del tempo, tuttavia già la inquadra in una mentalità che escludeva per la donna l’accesso all’università. Dopo la morte prematura del padre, Charlotte frequenta un corso per infermiere presso la Croce Rossa e la sua strada personale nella vita sembra così delinearsi: però l’incontro con il teologo e parroco Georg Merz, grande amico di Karl Barth, apre un nuovo scenario. Lo studio della teologia entra negli interessi della giovane donna, che vi si applica con passione e curiositas, mentre nasce l’amore fra lei e Karl Barth, sposato e padre di cinque figli.
Strali moralistici sono piovuti in abbondanza su questa relazione, che conosce molte sfaccettature intellettuali, ma provoca anche molto dolore nella moglie e nei figli di Karl Barth per la sua ambiguità quotidiana, perché Charlotte, in veste di segretaria e collaboratrice ma in realtà come amante, fin dal 1929 risiede nella stessa casa della famiglia Barth e ne condivide la vita. Dolore e tensione non potevano mancare, in una lettera Barth scrisse: “Con il reciproco “comprender-si” è incominciata per noi la sventura (o meglio: si è mostrata in esso). Ora, a nostra salvezza in ciò deve anche mostrarsi che noi ci comprendiamo davvero”. Il ruolo di Charlotte è variegato: segretaria, consulente teologica e collaboratrice, “badilante intellettuale” nella creazione del famoso Zettelkasten, l’imponente schedario, indispensabile per la ricerca e la composizione delle opere barthiane; ma è ben difficile discernere quanto si deve a lei nelle pagine della poderosa Dogmatik. L’autore la definì “in ogni senso indispensabile e fedele collaboratrice” e afferma che “all’origine e allo sviluppo dell’opera ella prese parte in maniera tanto smisurata”.
Solo dopo l’esilio svizzero, durante il nazismo e la conclusione della seconda guerra mondiale, Charlotte esce dallo sfondo e si stacca dal suo ruolo di donna musa a servizio di un intellettuale, per acquisire una dimensione personale, propria e femminile. Guarda caso, proprio riflettendo, teologicamente e biblicamente, sulla donna. Non che le fossero temi estranei fino ad allora, ma l’ottica con cui li affrontò divenne diversa. Le quattro relazioni e un articolo, oggi raccolti sotto il titolo La donna vera (Cantalupa, Effatà, 2011, pagine 176, euro 11,50), rappresentano quindi il pensiero, finalmente autonomo, di una teologa non accademica ma formatasi attraverso un rigoroso studio personale e la frequentazione del teologo Barth.
Il punto di partenza della riflessione di Charlotte è la Bibbia, ma nell’ottica di una teologa e non di un’esegeta, accettando stimoli scientifici e confessionali diversi, poggiando lo sguardo su Simone de Beauvoir, Gertrud von Le Fort e Martin Buber.
La sua dottrina sulla donna parte dall’interpretazione dell’immagine di Dio come relazione io-tu, mentre la relazione fra uomo e donna viene intesa analogamente come relazione fra persona umana e Dio. L’incontro con Cristo, però, motiva l’idea della subordinazione della donna “ovvero quella di un ordine in cui la persona umana (uomo e donna) è sottomessa a Dio”, come si sottolinea chiaramente nell’attenta prefazione. Charlotte von Kirschbaum passa da un ordine sociale strutturato gerarchicamente a uno simbolico, mantenendo la classica suddivisione dei ruoli maschili e femminili.
Tematiche che allora ancora non si discutevano corrono sotto la sua penna: il servizio di predicazione della donna, la riflessione su questioni etico-sociali legate alla professionalità della donna. Nell’interpretazione dei passi biblici si scorge in filigrana l’esperienza stessa dell’autrice che la porta a una sua teologia dei generi. Si intersecano così teologia e biografia femminile, in un frangente storico in cui la donna stava per uscire allo scoperto, ma ancora non era apparsa del tutto sulla scena teologica e intellettuale.
Mareike e Michael Hartmann, nella loro presentazione, ritengono l’opera della von Kirschbaum “un testo estremamente ambizioso, teologicamente fondato, seppure con qualche debolezza nelle esegesi bibliche, e, almeno nella sua impostazione, anche emancipato”.
Un desiderio di valorizzazione innerva tutti i cinque pezzi raccolti ma offre anche il fianco a tante debolezze di pensiero e di raffronto con la realtà. L’opera, se letta all’interno di quei prodromi che si stavano manifestando, offre una testimonianza di apertura, di tentativo di scrollarsi di dosso una veste troppo stretta e fa conoscere una donna che, negli ultimi undici anni della sua vita, afflitta dall’Alzheimer, visse in uno stato confusionale, prima di lasciare la storia nel 1975.