Nino Giagu Demartini : gli ultimi anni alla Regione (1974-1980). L’elezione al Senato (1994) di Francesco Obinu
1. L’assessorato al Turismo e le elezioni regionali del 1974.
L’assessorato al Turismo. La Democrazia cristiana sarda indicò il successore di Giagu in Giovanni Del Rio: l’uomo politico nuorese fu eletto dal Consiglio regionale il 10 dicembre e poté presentare la sua giunta già il 22, ottenendo la fiducia dell’assemblea. La rapidità con la quale Del Rio aveva risolto la crisi era dovuta alla decisione di escludere il Psdaz dal nuovo esecutivo; una mossa che aveva permesso al neo presidente di ottenere l’adesione del Psdi, che entrò nella giunta con il Psi, e l’astensione del Pri. Sebbene non fosse favorevole ad un governo regionale senza il Partito sardo d’azione, Giagu accettò di fare parte della giunta come assessore al Turismo, spettacolo e sport, un incarico che avrebbe mantenuto fino al 10 gennaio 1977.
Per quanto il turismo fosse considerato una voce importante per l’economia sarda (il piano di sviluppo quinquennale, a suo tempo, aveva qualificato l’attività turistica come “propulsiva”, cioè in grado di stimolare la crescita economica in modo autonomo e parallelo rispetto all’industria e all’agricoltura), le ristrettezze di bilancio non consentirono allora di dotare l’assessorato competente (che doveva occuparsi anche del mondo dello sport e dello spettacolo) di risorse adeguate alle esigenze del settore. Delle carenze finanziarie finì per soffrire in modo particolare l’Esit, che nell’aprile del 1974 si vide ritirare un “contributo aggiuntivo” di 190 milioni di lire che in un primo momento gli era stato assegnato dalla giunta. Quei soldi – come ricordò in modo polemico il presidente dell’ente, Castellaccio – dovevano essere impiegati, a mo’ di incentivo, per rimborsare una parte delle spese organizzative dei tour operator esteri che si fossero impegnati a promuovere i flussi turistici verso la Sardegna. La decurtazione del finanziamento rese impraticabile il progetto[1].
Nel successivo mese di maggio, però, Giagu riuscì ad ottenere il parere favorevole della giunta per uno stanziamento di 400 milioni di lire a favore degli Enti provinciali per il turismo e delle altre organizzazioni locali dedite alla promozione turistica dei loro territori. L’iniziativa dell’assessore passò poi all’esame del Consiglio regionale e divenne legge il 3 giugno 1974[2].
La campagna anti-divorzista. Intanto la vita politica nazionale aveva focalizzato la sua attenzione sul referendum con il quale si chiedeva agli italiani se volessero abrogare, votando “sì”, oppure mantenere in vigore, votando “no”, la legge Fortuna-Baslini, comunemente conosciuta come “legge sul divorzio”. Il referendum – dopo tre anni di dibattito parlamentare che avevano visto da una parte la Dc e l’Msi schierati per la consultazione popolare e per l’abrogazione della legge, e dall’altra parte i restanti partiti, con in testa il Pci, contrari alla consultazione e favorevoli al mantenimento della legge – si era tenuto il 12 maggio 1974 e si era concluso con la vittoria dei “no” (59,3%).
Nella Dc il referendum era stato voluto con estrema fermezza da Fanfani, mentre altri uomini di spicco del partito avevano avanzato dubbi sull’utilità di un simile impegno. Ad ogni modo, soprattutto per disciplina di partito, tutti si erano disposti a seguire (con minore o maggiore convinzione) il segretario politico e lo stesso aveva fatto il comitato provinciale sassarese, come dimostra l’attività dell’ufficio Spes[3] di Sassari, che allora era diretto da Pasquale Brandis. Con una lettera del 30 aprile 1974 ai segretari di sezione della provincia, il dirigente, richiamandosi ai deliberati approvati il 9 febbraio dalla Direzione nazionale, invitava ogni sezione ad esercitare “il massimo sforzo organizzativo, mobilitando non solo tutti gli iscritti, ma anche i simpatizzanti della Dc, al fine di conseguire un successo finale i cui risultati, com’è noto, sono destinati ad andare oltre il valore di una normale prova elettorale”[4].
Un’altra disposizione della Direzione nazionale affidava agli uffici provinciali della Spes la pubblicazione di un opuscolo propagandistico. L’opuscolo per la provincia di Sassari fu scritto da Francesco Cossiga, il quale si attenne con scrupolo alle linee fondamentali stabilite dalla Direzione centrale del 9 febbraio; una di queste imponeva la rinuncia ad usare “argomenti di natura religiosa”: “Non possiedo l’autorità personale di presentare ad altri gli insegnamenti dottrinali e pratici di Autorità alle quali, d’altra parte, aderisco in spirito di piena libertà […]. E credo anche che l’idea di libertà religiosa […] impedisca ad un cattolico […] di servirsi della forza del numero per dar vigenza civile a precetti di un ordinamento religioso, o che trovano il loro fondamento in una libera scelta religiosa. […] Il mio ‘sì’ all’abrogazione della Legge Fortuna-Baslini, è invece sul piano esterno (l’unico proprio ad un discorso politico) motivato da ragioni di carattere giuridico, socio-economico, culturale, nutrite di rispetto vero della libertà di coscienza di tutti”[5].
Dopo avere illustrato quelli che a suo giudizio erano i difetti di ordine giuridico della Fortuna-Baslini[6], Cossiga svolgeva alcune considerazioni di carattere sociale, economico e culturale. Egli faceva risalire la volontà di introdurre, prima, e di mantenere, poi, la legge divorzista all’interesse dei ceti sociali più agiati, adusi ad un costume morale che definiva “permissivista”: “Non è demagogia affermare che per la filosofia permissivista divorzio (inteso di fatto come accentuazione del carattere individualistico ed edonistico del rapporto matrimoniale e del superamento del valore societario della famiglia); liberalizzazione dell’aborto; resistenze alla lotta alla droga; riesumazione delle tarde teorie lombrosiane sulla criminalità; esaltazione dei supposti valori estetici e di liberazione morale della pornografia; lotta alla presenza dei valori religiosi nella società sono su uno stesso piano”. Cosicché le ragioni che avevano prodotto la legge divorzista non erano in connessione né con l’idea della “trasformazione in senso non capitalista della società, né con la morale cristiana, né con la morale socialista, ma si colloca[vano] nell’ambito di una grave crisi di valori” della società capitalistica occidentale. “Non è a caso – proseguiva Cossiga – che l’iniziativa dell’introduzione del divorzio sia dovuta non a grandi partiti o movimenti di massa, ma a circoli sostanzialmente radicaloidi e libertari, cui una patina di socialismo non basta a togliere la natura profondamente aristocratico-borghese”. Il partito comunista, al contrario, aveva tentato “una sostanziale evasione sul piano della politica generale dai temi propri a questo tipo di divorzio, così profondamente estraneo al sentire delle grandi masse e alla stessa concezione socialista del matrimonio e della famiglia”[7].
La campagna abrogazionista in Sardegna ebbe un’efficacia maggiore che in altre regioni italiane, tanto che i “no” ottennero quattro punti percentuali in meno rispetto alla media nazionale, ma non riuscì ad impedire che anche nell’isola si affermasse la parte antagonista, che anche prima del voto era considerata maggioritaria nel paese[8].
Le elezioni regionali del 1974. Un mese dopo il referendum, il 15 giugno, ebbe termine la tormentata sesta legislatura regionale e nei giorni 16 e 17 i sardi votarono per il rinnovo del Consiglio. Per Giagu si trattava di rimettersi al giudizio degli elettori, che in precedenza lo avevano sempre premiato, avendo sulle spalle la responsabilità di quasi tre anni di governo. Intervistato dalla “Nuova Sardegna” qualche giorno prima del voto[9], Giagu riconobbe che le sue tre giunte non erano riuscite ad attuare il proposito di “aprire un capitolo diverso” sul modo di governare l’isola, sebbene egli si fosse posto all’opera con “volontà ferrea”. Evitando di usare la “spregiudicatezza” alla quale l’intervistatore lo invitava, Giagu non additò alcuno dei suoi compagni di partito, o dei suoi colleghi del Consiglio regionale, come responsabile di quel fallimento; parlò, invece, di un “errore comune” a tutti coloro che con lui avevano condiviso la responsabilità del governo regionale, un errore che consisteva nell’incapacità di fare seguire i fatti alle parole, l’azione ai proclami, quasi che di fronte alla concreta possibilità di operare in modo radicalmente nuovo fosse, infine, mancato il coraggio di farlo; fosse, infine, mancata la volontà di trasferire, sul piano concreto della realtà economica e sociale della Sardegna, le tesi politiche elaborate nelle stanze del potere.
La Democrazia cristiana sarda non uscì bene dalle elezioni del giugno 1974, soprattutto in considerazione del grande aumento dei voti comunisti e socialisti. Rispetto al 1969 il Pci passò dal 19,7 al 26,8 per cento dei voti espressi, e il Psi raccolse, da solo, l’11,7% dei consensi, mentre cinque anni prima, presentandosi insieme al Psdi, aveva ottenuto l’11,8%. La Dc, che nel 1969 aveva avuto la fiducia del 44, 6% dei votanti, nel 1974 arretrò fino al 38,3%: secondo il segretario Bona l’esito elettorale era stato determinato da diversi fattori, con in testa il “travaglio della trascorsa legislatura”. Anche Fanfani volle individuare le cause della sconfitta nel “tormentato ultimo quinquennio dell’amministrazione regionale”, che secondo lui aveva finito per vanificare i “generosi sforzi dei candidati, dirigenti e iscritti”. Il segretario nazionale non fece cenno, invece, alla crisi di credibilità che l’intero partito stava vivendo e che anche l’esito referendario aveva ribadito, come tenne a precisare Carlo Fracanzani. L’esponente nazionale di “Forze nuove” affermò che non si doveva commettere l’errore di valutare la sconfitta della Dc in Sardegna come un fatto soltanto locale: il partito aveva perso perché aveva condotto la lotta politica “con strumenti superati”, mentre i comunisti dimostravano di sapere “organizzare la società che cambia” attraverso “tutte le forme organizzative coadiuvanti per le quali nel nostro campo siamo arretrati di oltre dieci anni”[10].
Nel naufragio generale del partito, Giagu fu uno dei pochi a potere vantare motivi di soddisfazione. Egli, pur ottenendo circa novemila voti in meno rispetto al 1969, risultò ancora una volta il candidato più votato nel collegio di Sassari (e il secondo nell’isola, superato soltanto dal capolista di Cagliari, Felice Contu) con 28.100 preferenze; i suoi più diretti antagonisti, Dettori e Soddu, avevano ottenuto circa diecimila voti in meno (rispettivamente 18.422 e 18.108). Inoltre, il candidato più votato alle spalle di Giagu fu Piero Are (18.559 preferenze), anch’egli esponente della “Sinistra di base” sassarese. Stando ai risultati del voto, dunque, sembra che l’elettorato democristiano non attribuisse particolari responsabilità all’ex presidente della Regione in ordine al deteriorarsi del costume politico nella Dc, né in ordine al determinarsi della lunga fase di ingovernabilità che, anche a causa della litigiosità democristiana, la Sardegna aveva dovuto attraversare.
Sul piano degli equilibri interni alla Dc sarda, invece, la debacle elettorale non poteva rimanere senza conseguenze per il gruppo dirigente uscente (del quale faceva parte anche Giagu), e infatti Vittorio Bona e Giuseppe Meloni, segretario e vicesegretario regionale, dovettero rassegnare le dimissioni. Il 28 giugno il comitato regionale decise che il partito, fino al rinnovo delle cariche attraverso un congresso straordinario (che fu successivamente fissato per il mese di dicembre), sarebbe stato guidato da un “direttorio” composto dai rappresentanti di tutte le correnti: Efisio Corrias e Giuseppe Meloni per “Impegno autonomistico” (il “gruppone” cagliaritano), Giagu e Francesco Asara per i basisti, Francesco Deriu e Antonio Tedesco per i fanfaniani, Garzia e Mario Puddu per i dorotei di “Sardegna domani”, Angelo Rojch e Severino Floris per “Forze nuove”, Soddu e Serra per i morotei e Domenico Mannironi per “Impegno democratico”, la corrente dei colombei o colombiani. Il dibattito in seno al comitato mise in luce una generale convergenza sul tema del recupero della credibilità del partito presso gli elettori: “Non c’è dubbio che attraversiamo un momento difficile – disse Giagu nel suo intervento – non c’è dubbio che tutto attorno a noi è rilevabile un’ansia di rinnovamento e che in direzione del rinnovamento ci dobbiamo muovere. Ma mi chiedo cosa vuol dire rinnovare gli uomini, sostituirli con altri che hanno le stesse responsabilità e sono stati partecipi delle stesse situazioni, nel bene e nel male che possiamo aver commesso. […] Se si ritiene di cambiare le cose con una pura e semplice sostituzione di uomini si fa un buco nell’acqua. In realtà (riguarda noi come rigurda tutti i democristiani) quel che è necessario è cambiare il partito, renderlo strumento all’altezza dei tempi”, capace di adeguarsi “alle esigenze popolari, seguirle e guidarle”[11].
L’8 luglio Rojch fu incaricato delle funzioni di segretario politico. Nel frattempo Giovanni Del Rio, rieletto presidente, aveva dato corso alle consultazioni con le altre forze politiche e si apprestava a varare la sua quarta giunta. La compagine di governo, costituita da Dc, Psi e Psdi, ottenne la fiducia del Consiglio il 1° agosto 1974; Giagu fu confermato all’assessorato per il Turismo, spettacolo e sport.
2. Il congresso regionale democristiano del 1974.
L’ultima giunta presieduta da Del Rio fu la più longeva degli ultimi cinque anni, tanto che concluse la sua esperienza soltanto nel maggio del 1976. Questa condizione favorevole permise alle correnti della Dc sarda di concentrarsi maggiormente sul superamento dei dissidi, che rischiavano di essere ancora più dannosi nel momento in cui il partito, uscito male dal confronto elettorale, aveva più che mai necessità di compattare le forze.
Il nuovo congresso regionale del partito, previsto per il mese di dicembre del 1974, rappresentava così un’opportunità che la Dc sarda, stavolta, non poteva permettersi di sciupare. Questa esigenza fu sottolineata dal presidente del Consiglio regionale, Felice Contu, in un’intervista rilasciata pochi giorni prima dell’apertura dei lavori: “Non il congresso è storico, ma giunge in un momento storico, cioè nel momento in cui […] abbiamo dovuto constatare […] spostamenti di elettori vicini alla Democrazia cristiana. Questi spostamenti e le loro cause non possono non preoccuparci. […] C’è perciò da augurarsi che il congresso non voglia essere soltanto sterile contrapposizione di accuse e di contraccuse, ma debba invece costituire un congresso di idee e di proposte in grado di superare le incertezze e le inquietudini diffuse”.
Qualche giorno prima si erano espressi anche altri esponenti del partito. Ariuccio Carta, allora sottosegretario alla Marina mercantile, aveva auspicato un dibattito congressuale “di natura squisitamente politica” che promuovesse un confronto aperto in grado di fare luce sulle cause dell’infausto esito elettorale. Egli aveva poi parlato della necessità che la Dc ristabilisse il dialogo con “le componenti vive della società”, in primo luogo con il mondo del lavoro e con quello della scuola, e che aprisse un canale di comunicazione con il Pci. Il tema del “collegamento” del partito con la società era stato ripreso da Pietro Soddu, ora presidente del gruppo consiliare: “La verità – aveva detto l’esponente moroteo – è che il partito, il collegamento lo stabilisce permanentemente con l’elaborazione di una politica e con delle proposte organiche rispetto allo sviluppo, ai consumi sociali, ai servizi. […] Forse questa esigenza di mutamento va accompagnata con una riforma sostanziale del sistema del tesseramento […] oggi in vigore, che finisce per concentrare in pacchetti di tessere le maggioranze e le minoranze”. La “riforma” di cui parlava Soddu doveva tradursi nei termini di un “sistema di adesioni più aperto”, che favorisse la formazione di una classe dirigente “svincolata dalla sclerotizzazione delle correnti”.
Intervenendo a sua volta nel dibattito precongressuale, Giagu si disse d’accordo sulla tesi secondo la quale la Dc aveva perduto aderenza nei confronti della società. Ma come recuperare quel “contatto diretto”? Superando, rispondeva, il momento di smarrimento ideologico che la Dc stava attraversando: “Il punto cruciale del partito […] è precisare una sua ideologia […] che dia un significato al contatto con il corpo sociale. Occorre che il partito compia delle scelte che siano fondamentali. Alla conclusione del periodo dossettiano, nel 1952, si ritenne che l’azione politica […] dovesse essere deideologicizzata. […] Oggi questa posizione dimostra interamente tutti i suoi limiti. Il congresso dovrà esaminare ed approfondire temi di importanza fondamentale per il futuro del partito, in primo luogo il problema dell’interclassismo”. Giagu era certo che il recupero della via dossettiana avrebbe dato soluzione anche al problema degli attriti fra le correnti: “Non che il problema del superamento delle correnti possa avvenire con un atto notarile di scioglimento. Avviene nella misura in cui si trova una piattaforma ideologica che costringa a far passare in secondo piano scelte particolari, contrasti personali e così via. E qui ritorna il discorso sull’interclassismo, sulla composizione degli interessi, sul tipo di società che vogliamo costruire, sul giudizio che diamo alle manifestazioni del dissenso cattolico”[12].
Queste parole lasciano intendere che per Giagu, nonostante la lunga strada percorsa dalla Dc, la lezione di Dossetti restava insuperata; e ora egli la riproponeva come antidoto ai veleni dei contrapposti interessi che, nel tempo, si erano insinuati e affermati nel partito. Forse però, a quel punto, nessun antidoto poteva più costituire un rimedio efficace[13].
Sull’esigenza interclassista Giagu incontrava il pensiero di Rojch: “Il congresso si propone di ricostruire, su basi rinnovate – disse in una lettera ai quadri del partito –, il tessuto originario e popolare della Dc e porre fine alle anacronistiche quanto inopportune lotte tra correnti, spesso prive di respiro politico, riconducendo il dibattito interno ad un confronto basato sulle idee e i programmi. […] La Dc, per recuperare la sua natura originaria, deve ricollegarsi ai ceti popolari e produttivi, operando scelte precise verso il mondo del lavoro, rifiutando e condannando decisamente il parassitismo, l’irresponsabilità, la demagogia. La Dc deve riprendere il ruolo originario interclassista, dinamico e popolare, aperto alle novità ed alle esigenze vive della società […]. Al congresso, perciò, parteciperanno, per la prima volta, oltre i delegati precedentemente eletti, anche larghe rappresentanze di tutte le categorie sociali”, con diritto di parola e di voto “sia sulle scelte che sulle linee programmatiche”[14].
Il IV congresso della Dc sarda, presente Fanfani, si aprì nel pomeriggio del 13 dicembre in un’atmosfera assai diversa da quella del settembre 1973[15]. Dopo alcuni interventi di saluto – tra i quali fu molto apprezzato quello del leader del Partito cristiano democratico del Cile, Leighton[16] –, prese la parola Angelo Rojch, che parlò a lungo sullo stato del partito. Il segretario mise in evidenza il ben noto problema della conflittualità interna, che aveva portato la Dc sarda a presentarsi all’ultimo appuntamento elettorale divisa e priva persino di “una generica indicazione delle linee di azione che avrebbe voluto imprimere al nuovo Consiglio regionale”. Tutto questo, secondo Rojch, aveva confermato nell’elettorato la sensazione che nella Dc non vi fosse la volontà di porre fine ad una politica di governo “incerta e carente”, travagliata da ricorrenti crisi e dalla “paralisi amministrativa”: di conseguenza, molti elettori avevano deciso di “punire” il partito cattolico. Come recuperare la fiducia dei cittadini? Rojch propose che la Dc si avvicinasse di più al mondo operaio, che desse un sostegno aperto alle lotte per la difesa dei posti di lavoro e per la conquista di condizioni di vita più umane, costruendo anche un rapporto più stretto con le organizzazioni sindacali di matrice cattolico-democratica, pur “nel rispetto assoluto della loro autonomia”: e portava ad esempio il rapporto che il Pci aveva saputo instaurare con la Cgil, guadagnandosi una notevole “forza contrattuale” nei confronti del mondo imprenditoriale. Ma, a parte le incertezze e le difficoltà della Dc – si chiedeva poi il segretario regionale – il centrosinistra aveva la forza politica per sviluppare “una linea di avanzamento democratico?”. Sì, proseguiva, a patto che esso sapesse aprirsi “al confronto con la realtà viva, con le organizzazioni sindacali, con le opposizioni”, e in particolare con il Pci: se anche non esistevano al momento le condizioni per un’alleanza di governo, concludeva Rojch, con i comunisti si poteva comunque instaurare un “confronto dialettico realmente costruttivo”.
Si era trattato di un intervento chiaramente “di sinistra”, che riprendeva i temi del discorso precongressuale di Carta e che Pietro Soddu portò alle conseguenze finali. Secondo Soddu il Pci aveva una dimensione politica ed elettorale in grado di influenzare profondamente la vita del paese, come aveva dimostrato l’esito del referendum; d’altra parte, il paese era profondamente cambiato e aveva rimosso quasi del tutto la “barriera della paura psicologica” verso la partecipazione o l’appoggio comunista alle coalizioni di governo. Dunque la Dc doveva imporsi di rivedere i suoi rapporti con il Partito comunista, non essendo più attuale né utile la gestione “difensiva” del potere: “Il Pci – proseguiva il consigliere moroteo – non può essere più considerato una malattia della società italiana da combattere, un corpo estraneo da espellere. Il Pci è fisiologicamente parte della società italiana, concorre al suo sviluppo, svolge funzioni importanti all’interno del suo complesso organismo […]. Quella che il Pci chiama svolta democratica, da conseguire attraverso un compromesso storico, non può essere oggi perseguita, nelle attuali condizioni, senza pericoli per la democrazia e per la stabilità e saldezza delle istituzioni. Ma non si può dire neppure no e basta. Occorre scegliere una linea di movimento e di confronto aperto: suscitare tutte le possibilità e le condizioni per un processo di verifica e confronto delle posizioni in materie importanti, un processo che sarà tanto più dialettico e fruttuoso quanto più terremo presente l’esigenza di non rinunziare a nulla di ciò che di fondamentale e caratterizzante esiste nel patrimonio della Democrazia cristiana”[17].
Il discorso di Soddu, che riecheggiava i motivi salienti della cosiddetta “terza via” di Moro[18], aveva lasciato il segno, tanto è vero che Fanfani, chiudendo il congresso, volle sottolineare: “[Il Pci] si presenta tuttora – e lo debbo ripetere […] a chiarimento di confuse idee che qualcuno dimostra di avere in materia – […] in netta contrapposizione ideale e pratica al nostro partito”. Il segretario della Democrazia cristiana, che era dichiaratamente contrario all’ipotesi berlingueriana del “compromesso storico”, a Cagliari aveva dovuto prendere atto di un segnale dissonante rispetto al verbo che egli voleva diffondere nel partito. Dissonante ma non limitato al laboratorio politico sardo, visto che si trattava di un segnale che era risuonato più di una volta dentro la Dc e, con forza crescente, all’interno della Direzione nazionale, dove Moro (con la sua corrente) si stava preparando ad un nuovo sorpasso a sinistra nei confronti di Fanfani[19].
Quanto alla delicata questione degli equilibri interni alla Dc isolana, il congresso rappresentò un passo in avanti, perché il nuovo comitato regionale fu eletto senza tensioni. Ebbero otto rappresentanti ciascuna le correnti di “Forze nuove” (Angelo Rojch, Severino Floris, Giovanni Lilliu, Antonio Loddo, Giuseppe Mura, Salvatore Murgia, Vincenzo Panio e Giovanni Sassu), di “Impegno autonomistico” (Efisio Corrias, Giorgio Deiana, Leopoldo Durante, Marco Manigas, Giuseppe Meloni, Pasquale Onida, Pierluigi Orrù e Beniamino Camba) e quella dorotea (Raffaele Garzia, Tonino Arru, Pierluigi Boi, Luigi Bolacchi, Ferdinando Pinna, Mario Puddu, Adriano Secci e Giovanni Battista Zurru); sei furono gli eletti della “Sinistra di base” (Nino Giagu, Francesco Asara, Sebastiano Cabitza, Lorenzo Idda, Giovanni Maria Lai e Benito Saba), cinque quelli dei morotei (Pietro Soddu, Pinuccio Serra, Nuccio Guaita, Lillino Fonnesu e Antonio Peralta) e quattro quelli dei fanfaniani (Nino Carrus, Titino Burrai, Fausto Cugudda e Giuseppe Scanu), mentre l’ultimo posto disponibile fu appannaggio dei colombei (Giuseppe Zoppi).
La composizione del nuovo comitato ricalcava nella sostanza quella della “direzione unitaria” provvisoria eletta in giugno. Anzi, per rendere possibile l’adeguata rappresentanza di tutte le correnti, il numero dei componenti del comitato era stato aumentato da 32 a 40: la Democrazia cristiana sarda lanciava, in questo modo, un segnale di ritrovata compattezza e unità. Il suggello all’intera operazione fu posto poche settimane dopo, il 7 gennaio 1975, quando, senza alcun contrasto, il comitato elesse la nuova Direzione regionale del partito: Angelo Rojch (che fino a quel momento aveva ricoperto il ruolo di facente funzioni) fu investito della carica ufficiale di segretario politico, mentre, nel pieno rispetto degli equilibri sanciti dal congresso, i forzanovisti (con Lilliu, Mura, Murgia e Panio), i dorotei (con Garzia, Puddu, Bolacchi e Arru) e il “gruppone” (con Corrias, Meloni, Onida e Camba) ebbero quattro rappresentanti, i basisti occuparono tre posti (con Giagu, Asara e Lai), i fanfaniani (con Cugudda e Scanu) e i morotei (con Serra e Fonnesu) ne occuparono due e un posto fu garantito anche all’unico esponente dei colombei presente nel comitato (Zoppi).
L’intesa raggiunta fra le correnti si dimostrò valida e durevole, tanto che in occasione del congresso regionale del marzo 1976, che doveva designare i delegati sardi al congresso nazionale della Dc, Rojch poté parlare di un partito che, compatto, aspirava a “riaffermare la linea autonomistica emersa nel congresso sardo del ‘74” e a rivendicare, rispetto a Piazza del Gesù, un’autonomia organizzativa, finanziaria e politca che si spingeva fino alla proposta di fare eleggere i consiglieri nazionali della Democrazia cristiana sarda “direttamente dal congresso sardo”. Anche il largo consenso espresso a favore della linea politica di Benigno Zaccagnini, candidato alla segreteria nazionale in concorrenza con Arnaldo Forlani e che raccolse più del 62% dei voti, testimoniò della ritrovata coesione nella Dc sarda. Per Zaccagnini avevano votato “Forze nuove”, i morotei, il “gruppone”, i basisti e una parte dei fanfaniani[20].
3. La legge per lo sport e la riflessione sui problemi del mondo giovanile e dell’informazione.
Il 5 maggio 1976 Del Rio si dimise dalla presidenza della Regione per candidarsi alla Camera dei deputati[21]. Le correnti della Dc sarda si trovarono d’accordo sulla necessità di evitare una nuova paralisi delle attività regionali e decisero di affidare a Soddu l’incarico di guidare una giunta di transizione, evitando l’apertura della crisi politica. Soddu, che fu eletto presidente l’8 maggio e ottenne la fiducia del Consiglio regionale il 13, si limitò a confermare gli assessori uscenti, tenendo per sé l’interim dell’assessorato al Bilancio, programmazione e rinascita, che era rimasto vacante dopo la scomparsa di Paolo Dettori nel giugno dell’anno precedente. L’intera operazione era stata concordata con gli altri partiti, che avevano stabilito nella circostanza una “intesa autonomistica” alla quale non era stato chiamato ad aderire il solo Msi.
Pur consapevole del carattere temporaneo del suo esecutivo, Soddu non rinunciò a rivendicare al governo regionale (in coerenza con la linea “autonomista” approvata dalla Dc sarda nel congresso di marzo) il diritto ad avere un ruolo determinante nelle politiche statali verso l’isola, perché i sardi, disse, dovevano partecipare alla vita nazionale “non da destinatari inerti delle decisioni centrali”, ma da protagonisti compartecipi: dovere irrinunciabile della Regione era dunque quello di ridare vigore a quella “politica contestativa” che aveva fatto della Sardegna “un punto di riferimento per le altre regioni meridionali”. Il 20 giugno Rojch commentò con soddisfazione il risultato sardo delle elezioni politiche (che avevano fatto registrare una certa ripresa della Dc), vedendo in esso il premio alla linea che il suo partito aveva scelto nel dicembre del 1974: “In Sardegna – disse – l’avanzata pare più consistente. Protagonisti del successo sono stati i giovani, i lavoratori, i ceti medi produttivi, le donne e il mondo agricolo”; l’esito elettorale, concludeva il segretario, “impegna la Dc a proseguire sulla via del rinnovamento consacrato dall’ultimo congresso nazionale”[22].
Prima che le pressioni del Partito comunista, che fin dal mese di settembre aveva dichiarato di considerare esaurito il compito della giunta Soddu, portassero l’11 gennaio 1977 all’apertura della crisi di governo, Nino Giagu riuscì a presentare all’esame della competente Commissione consiliare il testo unificato di tre proposte di legge che prevedevano “provvidenze a favore dello sport in Sardegna”. La Commissione approvò il documento, che successivamente ebbe il via libera anche dalla Commissione finanze, ma che, a causa delle sopraggiunte dimissioni della prima giunta Soddu, non poté essere sottoposto all’esame del Consiglio regionale.
Pochi giorni prima delle dimissioni di Soddu, in seguito alla legge che riformava la Giunta e gli Assessorati[23], Giagu era stato nominato titolare della Pubblica istruzione, beni culturali, informazione, spettacolo e sport. Inoltre, nell’ambito della nuova organizzazione per “dipartimenti” della Giunta, Giagu fu chiamato a fare parte, insieme agli assessori alla Sanità, al Lavoro e ai Trasporti, del Terzo dipartimento, che si occupava di tematiche sociali.
Intanto i tempi per l’approvazione della legge sullo sport erano destinati ad allungarsi. Dopo avere dedicato alcune settimane al dibattito sulle dichiarazioni programmatiche della seconda giunta Soddu (un quadripartito Dc-Psi-Psdi-Pri che aveva ottenuto la fiducia il 21 gennaio), nel periodo compreso tra la fine di febbraio e la fine di marzo il Consiglio regionale, impegnato anche nell’esame della difficile situazione del polo industriale di Ottana, non poté sottrarsi alla discussione sui gravi fatti di Roma e di Bologna, città nelle quali la contestazione universitaria di quello scorcio degli anni Settanta e la reazione dello Stato avevano assunto le forme più aspre[24]. Il 24 febbraio, sollecitato dal consigliere del Pci Maria Rosa Cardia, l’assessore alla Pubblica istruzione fu chiamato ad esporre il punto di vista della giunta su quel drammatico momento: “Occorre stare molto attenti a quanto sta accadendo – esordì Giagu – e non lasciarsi confortare dal raffronto che è facile fare tra ciò che è stato nel Sessantotto rispetto al movimento odierno. In realtà la pianta della contestazione sta uscendo ed i germogli spuntano appena dall’humus carico di energie non ancora controllate. La situazione potrebbe aggravarsi; decine di migliaia di disoccupati intellettuali in Sardegna, mentre la macchina del titolo accademico continua imperterrita a stampare diplomi. Di fronte alla presa di coscienza del Sessantotto, con tutti i suoi valori di conquista per una società giusta, civile, democratica […], questo 1977 affida alle sue forze studentesche un dato esistenziale più semplice che è quello dell’occupazione e della sopravvivenza. Quanto sta avvenendo deve trovare i dirigenti politici pronti a giudizi sereni. In una visione politica che è cristiana e che quindi è per noi assimilabile a chi si muove per dare sempre maggiore crescita alla persona umana, quanto sta avvenendo negli atenei italiani deve avere una risposta positiva, aliena […] da amore proprio di partito , da revanscismi, da rivalse, da egoismi generali e particolari”[25].
L’intervento di Giagu, che riecheggiava alcune tematiche care al cristianesimo sociale, non rimase un puro esercizio oratorio. Un mese più tardi infatti, il 24 marzo, l’assemblea regionale – ponendo un nesso tra la “disoccupazione intellettuale”, la protesta universitaria e la strumentalizzazione del problema giovanile da parte di elementi antidemocratici ed eversivi –, votò un documento con il quale impegnava la giunta a sollecitare il governo perché prendesse “con urgenza i provvedimenti necessari ad una politica verso la gioventù, attraverso una riforma profonda delle strutture educative e formative, e in primo luogo della scuola secondaria superiore, dell’università e della formazione professionale, e attraverso una disciplina del mercato del lavoro, soprattutto per quanto concerne il preavviamento giovanile al lavoro”. Il Consiglio regionale chiedeva anche l’impegno della giunta, nel limite delle sue competenze, per avviare a soluzione i problemi del mondo giovanile in ambito regionale. Prendendo la parola, Giagu affermò tra l’altro che il pericolo che la gioventù si incamminasse verso “l’eversione” poteva essere scongiurato soltanto se tutte le forze politiche, anche la “parte politica maggioritaria”, avessero riconosciuto e corretto i propri errori[26].
Finalmente il 16 giugno poté riprendere l’iter della legge sullo sport. A causa, però, del prolungarsi degli interventi di alcuni consiglieri e dell’elevato numero degli iscritti a parlare, il presidente del Consiglio regionale, Andrea Raggio, fu costretto a rinviare ad altra data la replica conclusiva di Giagu e, dunque, la votazione sul documento. Il giorno seguente la giunta approvò invece un altro disegno di legge firmato da Giagu, che stanziava otto miliardi di lire per il diritto allo studio e introduceva alcune modifiche al testo della “legge 26”[27] (una legge che era stata presentata dall’assessore Dettori nel 1971, durante la prima giunta Giagu): in particolare, i benefici previsti per i giovani meritevoli e privi di mezzi venivano estesi anche ai lavoratori intenzionati a riprendere gli studi.
La legge sullo sport tornò all’attenzione dell’aula consiliare soltanto il 12 luglio. Nella sua replica Giagu (che nel corso della notte aveva subito un inspiegabile atto vandalico)[28], sostenne che lo sport non doveva essere inteso semplicemente come forma di spettacolo e di divertimento, come momento unicamente ricreativo: come dimostravano i risultati di un’indagine regionale, la pratica sportiva favoriva il miglioramento della qualità della vita, perché aiutava gli individui a combattere lo stress psico-fisico determinato dalle condizioni di lavoro, dal pendolarismo e dai ritmi incalzanti della società urbana. Secondo Giagu, dunque, allo sport doveva essere riconosciuta una “funzione di servizio sociale” e la Regione era chiamata ad un intervento concreto per il finanziamento, la razionalizzazione e il coordinamento dell’attività dei diversi enti preposti alla creazione di nuovi impianti e centri sportivi. Il giorno dopo il Consiglio approvò la legge con voto unanime; essa tuttavia, per motivi di bilancio, divenne operativa solo con il successivo esercizio finanziario[29].
Da ultimo è il caso di fare un breve cenno alla posizione espressa da Giagu sui temi dell’informazione, nell’ambito di un dibattito sviluppatosi in Consiglio regionale nel mese di aprile del 1978. Egli disse di ritenere necessaria un’opera di chiarificazione sugli aspetti “monopolizzanti” della proprietà delle testate giornalistiche isolane, nel momento in cui queste apparivano soggette a forme più o meno esplicite e condizionanti di “pressione economica”. Pur non dicendolo in modo esplicito, l’assessore si riferiva al monopolio che l’industriale Nino Rovelli (il padrone della Sir) aveva costituito acquistando, tra il 1967 e il 1968, la proprietà dei due quotidiani sardi. Giagu sostenne che la Regione non poteva eludere il dovere di agire “con decisione” sotto il profilo legislativo e di chiedere uguale decisione anche al mondo dell’informazione, sia per favorire lo sviluppo di pubblicazioni e trasmissioni radiotelevisive che dessero spazio alle realtà culturali e sociali più deboli che, altrimenti, rischiavano di rimanere senza voce, sia per sostenere finanziariamente iniziative come quella del giornale “Tuttoquotidiano”, che “a ragione o a torto, ha rappresentato un momento dissenziente sotto un profilo, dissacrante sotto un altro, rispetto alle scelte culturali ed economiche operate nell’isola negli scorsi anni”[30].
4. L’alleanza tra Giagu e Soddu. La fine dell’egemonia democristiana in Sardegna.
La fine dell’“intesa autonomistica”. Il 1978 non fu un anno lieto per la Democrazia cristiana. Il 16 marzo le “Brigate rosse” avevano rapito Aldo Moro e il 9 maggio, dopo una lunga prigionia, lo avevano assassinato; il giorno dopo anche il Consiglio regionale sardo commemorò la figura dello statista. La Dc sarda si trovò peraltro a dovere fronteggiare anche l’insorgere dell’ennesima crisi del governo regionale, innescata questa volta dal Partito comunista.
Il dibattito intorno al tema del “compromesso storico” era sempre molto vivo. Enrico Berlinguer spiegava che l’essenza del “compromesso storico” consisteva nella “corresponsabilità storica” che tutte le forze sociali e politiche (lavoratori, borghesia produttiva, mondo giovanile e mondo femminile; comunisti, socialisti, cattolici e laici) dovevano assumere rispetto al progresso del paese. La realizzazione del “compromesso storico”, secondo il segretario comunista, non richiedeva necessariamente la partecipazione alla maggioranza di governo di tutte le forze politiche: la partecipazione al governo poteva essere anche indiretta, a patto che non fossero smarrite “quella comune responsabilità di fronte al paese, quel senso di unità e di solidarietà nazionale, quello sforzo di comprensione reciproca, e […] l’impegno comune di rinnovare il Paese”. Il “compromesso storico”, cioè, era una strategia che cessava “di essere di parte nel momento in cui si prefigge[va] l’obiettivo di una trasformazione storica del sistema politico italiano e della società italiana”. Esso, inoltre, nasceva dalla convinzione che senza un’intesa parlamentare tra la Dc e il Pci nessun governo avrebbe avuto la stabilità necessaria per fare fronte con successo ai gravi problemi economici e sociali che affliggevano l’Italia in quegli anni (tra il 1973 e il 1978 si registrarono un costante aumento della disoccupazione, tassi inflattivi fino al 17% e il crollo degli investimenti e del prodotto interno lordo): “Il compromesso storico – ha scritto Gavino Angius – non era dunque il fine della politica di Berlinguer”, ma il mezzo per risolvere la gravissima crisi italiana e “non garantiva, di per sé, l’ingresso del Pci al governo. Anzi, a essere precisi, l’obiettivo della partecipazione con propri uomini all’interno dell’esecutivo non veniva volutamente ricompreso”[31].
Rispetto alla posizione della segreteria nazionale, il Partito comunista sardo, spalleggiato dal Psi (forza di governo nella giunta Soddu), sembrava orientato diversamente e faceva pressioni sempre maggiori per entrare nell’esecutivo regionale insieme a tutti i partiti che nel maggio del 1976 avevano dato vita all’“intesa autonomistica”. La giunta però, almeno per il momento, non riteneva praticabile l’allargamento della coalizione di governo, sicché in settembre i comunisti e i socialisti decisero di non appoggiare più oltre l’“intesa”, che poteva considerarsi finita. Soddu non se la sentì di proseguire il suo lavoro a capo di una giunta già notevolmente indebolita dalla fronda socialista e il 5 ottobre 1978 presentò le dimissioni. Rieletto una prima volta il 16, si dimise ancora il 25, dopo una settimana trascorsa in vani tentativi di garantire alla giunta una solida base di sostegno. L’8 novembre, tuttavia, con i soli voti della Dc e con quello del consigliere liberale (tutti gli altri partiti si astennero, ad eccezione del Msi che votò per il proprio candidato, Anedda), Soddu accettò ancora una volta il mandato presidenziale, pur sapendo di non potere più contare sul Partito socialista: il 5 dicembre (mentre la giunta, formata da dieci assessori democristiani, un socialdemocratico e un liberale, si presentava in Consiglio per le dichiarazioni di programma) il capogruppo socialista, Raffaele Farigu, confermò l’indisponibilità del suo partito a fare parte di un governo regionale che si “rifiutava di corresponsabilizzare” il Partito comunista. La terza giunta Soddu ottenne la fiducia il 7 dicembre 1978, con appena sei voti di margine (38 contro 32): per il Pci e per il Psi essa costituiva una soluzione “debole e arretrata”[32].
Convincere i repubblicani a votare a favore della giunta e ottenere l’astensione dei due consiglieri di Democrazia nazionale si erano dimostrate mosse determinanti per superare il voto contrario di Pci, Psi e Msi; ma Soddu aveva dovuto comporre, prima di tutto, l’inizio di una pericolosa contrapposizione dentro il suo stesso partito, nata nel momento in cui il presidente della Regione aveva deciso di assegnare l’assessorato all’Ambiente all’ex basista Piero Are, il quale di recente era passato con i morotei. Nino Giagu non aveva gradito la defezione né, tantomeno, la promozione di Are a quell’importante assessorato e aveva minacciato le dimissioni sue e dei suoi uomini dal gruppo consiliare. Il dissidio era stato superato soltanto la notte prima del voto in aula, con lo spostamento di Are all’assessorato ai Trasporti (l’“Ambiente” passò al cagliaritano Eusebio Baghino).
La vicenda era stata seguita con preoccupazione anche da Roma, soprattutto perché nella primavera del 1979 erano in calendario non solo le elezioni per il rinnovo del Consiglio regionale sardo, ma anche quelle per il Parlamento nazionale e per il Parlamento europeo. La Dc doveva mostrare la massima coesione e una forte unità d’intenti in tutte le sue articolazioni per riconquistare la fiducia di quella parte dell’elettorato che negli ultimi tempi aveva dato chiari segnali di disaffezione verso lo “Scudo crociato”. Così, se Antonio Gava, responsable del partito per gli Enti locali, era intervenuto personalmente per favorire il superamento della querelle nata intorno alla designazione assessoriale di Piero Are, Cossiga fece sentire la sua voce in occasione della preparazione delle candidature per le elezioni regionali, invitando la Dc sarda a seguire l’esempio di compattezza del partito nazionale, che era tutto stretto attorno a Zaccagnini, e rivolgendosi ai suoi due antichi amici, Giagu e Soddu, perché sapessero ritrovare l’unità dei tempi dei “giovani turchi”. A quel punto i presupposti per il riavvicinamento dei due uomini che avevano dominato la scena politica regionale nel corso degli anni Settanta (essi avevano presieduto sei delle dieci giunte di quel decennio), c’erano già; tuttavia, un motivo in più si sarebbe aggiunto in agosto, quando il presidente della Repubblica, Sandro Pertini, incaricò Cossiga di formare il governo[33].
In Sardegna l’approssimarsi della scadenza elettorale aveva riacceso il dibattito sull’autonomia regionale. Intervenendo nella “tribuna elettorale” promossa dal quotidiano di Sassari, Giagu pose l’accento sulla necessità di superare gli aspetti semplicemente “commemorativi” (l’anno prima era stato celebrato il trentennale dello statuto speciale), per lasciare spazio ad una riflessione sui valori e sui limiti dell’esperienza autonomistica: “Spesso ci chiediamo – disse tra l’altro – se la Regione, oggi, sia davvero al servizio del cittadino: se sia stata in grado di soddisfare quelle aspirazioni per le quali era nata, come rimedio ad uno Stato accentratore e verticistico e come condizione per un rapporto diretto e immediato fra cittadino e potere pubblico. […] Il bilancio di questi trent’anni di autonomia dimostra che queste legittime aspirazioni non sono state, se non in parte, realizzate. […] Esistono di fatto tali e tanti condizionamenti da parte del governo centrale che l’azione della Regione risulta spesso improduttiva […]. Tuttavia il maggior limite dell’istituto regionale lo si avverte proprio nel rapporto fra cittadino e potere pubblico. La Regione è divenuta, in questi anni, lo specchio di quel governo statale che ci aveva spinto trent’anni fa a chiedere i necessari rimedi. […] Una qualunque pratica, che non richieda particolari condizioni per la sua istruzione, compie il suo iter in quattro mesi, con evidente dispendio di tempo, di energie e di attese. […] Il punto fondamentale sul quale la ‘rifondazione’ della Regione deve poggiare è e rimane la chiarezza politica, sia nelle scelte da fare sia nei rapporti fra i partiti”. Giagu denunciava l’inutilità degli “atteggiamenti compromissori”, capaci soltanto di produrre un’attività amministrativa “macchinosa” e leggi “difficili persino da applicare”, che finivano per penalizzare i cittadini, e concludeva: “Se non è più il tempo di ritornare ad una contrapposizione frontale, spesso paralizzante, fra chi governa e chi sta all’opposizione […] bisogna tuttavia che l’azione politica garantisca chiarezza dei ruoli, onestà nei rapporti, rispetto fra i partiti. Solo in tal modo si può incidere nella vita regionale, affrontando i grandi temi economici e sociali che ne condizionano lo sviluppo”[34].
Pochi giorni dopo le elezioni regionali ribadirono la fiducia degli elettori democristiani verso Giagu, il quale, con più di 31 mila preferenze, fu il candidato più votato del suo partito. L’atmosfera di concordia caldeggiata da Cossiga, nella quale gli ex “giovani turchi” avevano affrontato l’impegno elettorale, giovò anche al capolista del collegio di Sassari, Soddu, che raccolse quasi 30 mila voti. I due sassaresi sopravanzarono di parecchie migliaia di voti il capolista nuorese, Rojch, che ebbe circa 22 mila preferenze e quello di Cagliari, Mario Floris, che contò poco più di 21 mila voti.
Le elezioni del 1979 dissero anche un’altra cosa importante, e cioè che il Partito comunista – che aveva ottenuto il 26% dei voti e 22 seggi in Consiglio regionale e aveva confermato il formidabile risultato del 1974 (mentre la Democrazia cristiana non riusciva a tornare sui livelli degli anni Sessanta, quando raccoglieva in media il 45% dei voti e portava in Consiglio fino a 37 rappresentanti) –, si poneva in maniera definitiva come l’interlocutore politico principale della Dc sarda, pur nella sua qualità di partito di opposizione. Tanto più che il capolista del Pci nel collegio di Cagliari, Raggio, fu il candidato più votato dell’isola (nello stesso collegio, subito alle spalle di Raggio, si impose un altro candidato del Pci, Lello Sechi, che finì per essere il quarto fra gli eletti nell’isola).
Quanto fosse forte l’influenza del Pci sugli equilibri politici regionali fu ulteriormente dimostrato dalle vicende che accompagnarono la formazione della nuova giunta. Il 27 luglio Pietro Soddu fu designato alla presidenza ma, conoscendo l’indisponibilità del Pci ad avallare una giunta che ricalcasse la formula politica delle precedenti (vale a dire un tripartito con la Dc e due partiti dell’area socialista o laica), ed essendo nota la sua propensione per una concreta collaborazione con il partito di Andrea Raggio, il moroteo si chiamò fuori. La Dc indicò al suo posto Mario Puddu, il quale per tre volte (tra il 10 agosto e il 20 settembre) provò a proporre una giunta monocolore di assessori “tecnici”, ma senza successo: il governo tutto democristiano non piaceva nemmeno ai partiti socialisti, che, quando non espressero voto contrario, si astennero, lasciando Puddu in balìa dell’opposizione comunista e sardista, oltreché di quella missina e radicale.
Alla fine le logoranti trattative riuscirono ad ottenere la neutralità del Pci sul nome del socialdemocratico Alessandro Ghinami, il quale fu eletto presidente della Regione il 25 settembre con i voti della Dc, del Psi, del Psdi e del Pri. Gli stessi partiti, con l’aggiunta del Pli, il 3 ottobre accordarono la fiducia ad una giunta, un bicolore formato da assessori della Dc e del Psi, nella quale Giagu mantenne l’incarico che aveva ricoperto nelle due ultime giunte Soddu.
Per la prima volta, dopo trent’anni di storia autonomistica e ventiquattro giunte di governo, il presidente della Regione non era un democristiano: questo fatto costituì l’inizio di un corso nuovo nella storia politica della Sardegna, durante il quale la Dc non riuscì più a recuperare la posizione di assoluta preminenza che aveva sempre occupato dal 1949.
Nel nome dei “giovani turchi”. Mentre le forze politiche lavoravano per dare un governo alla regione, la Dc sarda preparava il congresso del gennaio 1980. L’assise regionale, che doveva eleggere i delegati sardi al congresso nazionale di febbraio, avrebbe ufficializzato il riavvicinamento di Giagu e Soddu, i quali già il 26 ottobre 1979, in vista del precongresso provinciale di Sassari, avevano presentato una lista che univa basisti e morotei e che era capeggiata da Cossiga (con questo espediente fu aggirato lo scomodo problema di dovere scegliere il capolista tra Giagu e Soddu).
Parlando con la stampa, Giagu si richiamò esplicitamente all’esperienza della “rivoluzione bianca” e affermò che l’operazione della lista comune rientrava “nello stile dei giovani turchi”, perché privilegiava “i valori importanti e concreti”. In precedenza aveva spiegato: “C’è stata una confluenza di opinioni che ha portato alla lista unica; si è constatata la necessità di essere uniti per tanti motivi. La grave situazione economica e politica della Sardegna già da sola suggeriva questa soluzione […]. E poi, soprattutto, c’è il fatto della presidenza del Consiglio a Francesco Cossiga. […] Dobbiamo forse combattere fra di noi per indebolire un presidente sardo del Consiglio? L’unità è stata Cossiga e chi non ha raccolto il nostro discorso ha sbagliato. O non ha capito”. Con queste parole Giagu volle non solo rispondere al perché dell’alleanza con Soddu, ma anche alle critiche di coloro che avevano scelto di differenziarsi rispetto all’intesa fra i basisti e i morotei: in particolare Mario Segni, secondo il quale la coalizione fra Soddu e Giagu “addormentava” il partito, spegnendo sotto il peso di una maggioranza schiacciante le voci dissenzienti e la dialettica democratica.
L’aspetto principale su cui Segni aveva manifestato il suo dissenso era quello dell’“apertura” al Partito comunista. Su questo punto, Giagu invitò a prendere atto del fatto che le “distanze fra i partiti” non erano più paragonabili a quelle esistenti nel 1948: “Non voglio il Pci al governo ma voglio studiare anche insieme a questo partito se esista la possibilità di azioni politiche comuni. Occorre raggiungere vasti assensi, senza però esprimere giudizi superficiali sul Pci o sul Psi”. Del resto, la tesi della collaborazione con il Partito comunista, sostenuta a tutti i livelli dalla segreteria Zaccagnini, costituiva un elemento importante dell’intesa con Pietro Soddu, il quale pure non riteneva possibile un’alleanza di governo tra Dc e Pci, ma pensava, nondimeno, che la formula della “solidarietà nazionale” potesse essere estesa all’ambito regionale.
Anche Soddu parlò della ritrovata unità con Giagu: “Prima c’è stata una convergenza sulla linea di Moro, che poi è diventata di Zaccagnini, sulla quale si sono ritrovati anche Francesco Cossiga e Giuseppe Pisanu. […] Poi si consideri che rientra nella tradizione della Dc sassarese fare quadrato intorno al leader più autorevole. Lo abbiamo fatto con Segni e ora, a maggior ragione, visto che c’è anche una convergenza di scelte, lo facciamo con Cossiga”; tuttavia, “questo accordo ci sarebbe stato anche se Cossiga non fosse diventato presidente del Consiglio”, perché – sostenne – “le nostre due correnti non esistono più. Anche l’elettorato e la base democristiana hanno chiaramente dimostrato di volere questo”[35].
La lista Giagu-Soddu, com’era nelle attese, vinse con ampio margine il precongresso della Dc sassarese, ottenendo il consenso del 64,5% dei delegati della provincia (la lista di Mario Segni, denominata “Dc 80”, si fermò al 15,5%). Le liste ispirate alla linea di Zaccagnini ebbero la meglio anche nelle province di Nuoro e di Cagliari, seppure in modo meno netto che a Sassari (a Nuoro la lista Rojch ebbe il 51,2% dei voti contro il 32% della lista dei forzanovisti, capeggiati da Ariuccio Carta; a Cagliari le due liste collegate degli “amici” di Zaccagnini, con a capo Pinuccio Serra e Felice Contu, e degli “amici” di Cossiga, con a capo Carlo Molè, ottennero, rispettivamente, il 21,3% e il 19,4% dei voti, contro il 20% dei dorotei di Garzia). Ad Oristano, invece, si registrò la chiara affermazione della lista dorotea di Abis, che vinse il precongresso con il 63,5% dei voti (gli “amici” di Zaccagnini non andarono oltre il 27%).
Prima della celebrazione del congresso regionale, che si tenne a Cagliari il 19 gennaio 1980, l’alleanza delle liste che si riconoscevano nell’area Zaccagnini perse i cossighiani di Molè, che preferirono passare sulla sponda dorotea; ciononostante, la coalizione promossa da Cossiga e Pisanu riuscì a conservare la maggioranza dei voti (42,8%) anche nell’assise regionale[36].
I vincitori del congresso regionale confermarono la volontà di aprire un confronto con il Pci sulle “cose da fare”; un confronto concreto, insomma, dal quale doveva scaturire anzitutto un programma di interventi per risolvere la perdurante crisi economica sarda. Essi confermarono, inoltre, la volontà di continuare la collaborazione con il Psi, ma al di fuori del vecchio centrosinistra. Dall’altra parte, i dorotei e Mario Segni ribadirono la loro contrarietà a qualunque tipo di apertura verso il Pci, che consideravano ancora troppo acquiescente verso il Partito comunista sovietico e verso la politica imperialista di Mosca[37].
Il XIV Congresso nazionale democristiano (Roma, 15-20 febbraio 1980) diede ragione proprio agli anti-aperturisti. Dorotei, fanfaniani, forzanovisti, colombiani, rumoriani e lista Segni (che nel frattempo aveva cambiato il suo nome in quello di “Proposta”) diedero vita ad un blocco che riunì il 58% del partito contro la linea propugnata da Zaccagnini (il quale, preso atto della situazione, decise di non ricandidarsi alla segreteria) e vanamente appoggiata da Andreotti[38].
L’esito del congresso nazionale apparentemente sembrò non provocare traumi nella Democrazia cristiana sarda. Rojch, uno degli esponenti di punta del gruppo di Zaccagnini, rivendicando ancora una volta l’autonomia di giudizio e di scelta rispetto a Piazza del Gesù, affermò che il partito non avrebbe modificato le decisioni ufficializzate in gennaio a Cagliari. Il 19 luglio, poi, la Dc sarda scelse il suo nuovo segretario politico, il doroteo Mario Puddu, che fu eletto “per acclamazione”. Il partito, insomma, mentre andava profilandosi la caduta della giunta Ghinami, mostrava di volere conservare in ogni modo la compattezza interna, anche se l’unità degli intenti, in realtà, nascondeva più di un’incrinatura: una spia del disaccordo latente veniva proprio dai continui cambi alla guida della segreteria politica, che ormai da tempo non riusciva a trovare stabilità[39]. In siffatte condizioni nemmeno gli sforzi più generosi potevano fermare il declino dello “Scudo crociato” in Sardegna.
La crisi della Dc sarda. Ghinami aveva rassegnato le dimissioni già il 27 marzo 1980, ma era stato prontamente rieletto il 10 aprile con il preciso accordo (al quale si era opposta soltanto la destra consiliare) che la sua seconda giunta (formata dagli stessi assessori uscenti ed entrata in carica il 24), sarebbe stata sostituita da una giunta di “unità autonomistica”, comprendente il Pci, subito dopo le elezioni comunali e provinciali di giugno.
Rispettando le consegne, Ghinami presentò le dimissioni il 16 settembre 1980 e la Dc designò alla presidenza della Regione Pietro Soddu, l’uomo forse più adatto per guidare la giunta di “unità autonomistica” che si voleva varare. L’elezione di Soddu (7 ottobre), tuttavia, non avvenne attraverso un consenso ampio ed esplicito, poiché egli ottenne soltanto i voti del suo partito, mentre tutti gli altri consiglieri (ad eccezione dei missini e dei radicali, che votarono contro) si astennero. A questo si deve aggiungere che all’interno della Dc sarda (come si è detto) non tutti erano d’accordo sulla partecipazione dei comunisti al governo regionale: la maggior parte dei dorotei, insieme a Segni, ai fanfaniani e ai forzanovisti, consideravano la giunta di unità autonomistica un “compromesso storico mascherato”. Così, quando il 26 ottobre arrivò per telefono da Roma l’“invito” di Piccoli a non procedere nelle trattative per l’inclusione del Pci nella giunta, i comunisti sardi avanzarono l’ipotesi che il veto della Dc nazionale fosse stato sollecitato da alcuni settori della Dc isolana.
I vertici democristiani regionali furono raggiunti dalla decisione di Piccoli mentre erano riuniti nella sede del comitato provinciale di Oristano, dove morotei, basisti e una parte dei dorotei stavano cercando di venire a capo della contrarietà delle altre correnti al progetto della giunta unitaria. Non tutti i presenti si mostrarono scontenti del veto, ma i commenti prevalenti esprimevano indignazione per l’umiliazione che era stata inflitta (per la seconda volta) all’autonomia della Dc sarda: “è un’offesa a tutto il partito”, commentò emblematicamente Giagu (che aveva dovuto subire il veto romano nel 1970). Il giorno dopo il segretario Puddu, imitato dai componenti degli organi direttivi, si dimise in segno di protesta.
Il 28 i comunisti sardi, appoggiati dal Partito sardo d’azione (che accusò Piccoli di “imperiosa violenza” contro l’autonomia sarda), proposero di costituire la giunta autonomistica anche senza la Democrazia cristiana, mentre il Psdi decideva di autoescludersi dalla giunta unitaria e il Psi restava in attesa delle decisioni democristiane (i due partiti sardi non avevano ricevuto il benestare delle segreterie nazionali). Soddu, travolto dall’improvvisa complicazione del quadro politico, al termine di una lunga riunione di partito dichiarò di non volere determinare lacerazioni con Roma: “Abbiamo messo al centro del confronto politico non la questione delle alleanze (in questo sta l’equivoco della segreteria) ma come concorrere al rafforzamento del consenso attorno alle istituzioni dello Stato attraverso quello della Regione e dell’autonomia”. Dopo avere sottolineato che il progetto della giunta autonomistica non voleva risolvere la questione della partecipazione comunista al governo, ma realizzare “la massima convergenza delle masse popolari” per la soluzione della questione sarda, il presidente affermò che il lavoro fatto non sarebbe andato perso. Poi annunciò le dimissioni (che furono formalizzate il giorno dopo dal presidente del Consiglio regionale, Corona), deciso però, con la maggioranza del partito, a non demordere.
Con le sue dichiarazioni Soddu aveva cercato anche di ammorbidire, per così dire, la posizione della Chiesa sarda, che era in massima parte contraria alla giunta con i comunisti[40], per potere tentare, con maggiore serenità, di convincere Piazza del Gesù a ritirare il veto. Tra il 5 e il 6 novembre Soddu e Puddu ebbero due incontri con Piccoli, con il vicesegretario Vittorino Colombo e con Gianni Prandini, responsabile del partito per gli enti locali. Dopo avere ribadito che la decisione finale sarebbe stata presa dall’imminente Consiglio nazionale, i vertici democristiani si dissero disposti ad accettare la presenza nella giunta sarda di “assessori tecnici di area comunista”, ma i “tecnici” non dovevano essere anche consiglieri regionali del Pci. Questa soluzione di compromesso non fu però accolta positivamente da Soddu e Puddu, i quali sapevano bene che il Pci sardo l’avrebbe respinta: facili profeti, il nuovo segretario regionale del Pci, Gavino Angius, comunicò subito l’indisponibilità del suo partito ad entrare nel governo regionale “dalla porta di servizio”.
Il 10 novembre, dopo essere rimasto a lungo in silenzio[41], anche Giagu si espresse sulle ultime vicende. Parlando con la stampa anche a nome degli altri democristiani sardi che si riconoscevano nell’area Zaccagnini, Giagu affermò: “I limiti oggettivi che condizionano l’autonomia regionale e i ripensamenti critici sull’azione da noi compiuta anche in base a personali esperienze, ci hanno convinto ancora di più della necessità di pervenire alla costituzione di una giunta di unità autonomista”. Quindi, dopo avere ricordato che l’ultimo congresso del partito aveva messo in luce la caduta della “pregiudiziale ideologica” verso il Pci, aggiunse che in Sardegna non esistevano neppure le condizioni per introdurre “una pregiudiziale di natura politica”, come dimostravano i risultati “scaturiti dal confronto tra le forze democratiche e autonomistiche”. Mentre “Forze nuove” premeva per il ritorno al quadripartito classico allargato ai sardisti, a dare conforto alle parole di Giagu interveniva il segretario regionale del Pri, Nino Ruiu, il quale con un comunicato stampa respingeva l’appello di chi sperava nel ritorno al modello di governo con i partiti socialisti e laici, esprimendo la volontà di tenere ferma “la solidarietà raggiunta fra le forze politiche autonomiste” e “la linea dell’unità”, e dissenso nei confronti di “ogni tentativo che valga a riesumare formule inadeguate come quella del centrosinistra”[42].
Poi arrivò il pronunciamento del Consiglio nazionale democristiano: la Dc sarda, “in situazioni straordinarie”, era autorizzata a valutare l’opportunità di formare una giunta che includesse anche il Pci. La cauta apertura ebbe l’effetto di fare rientrare le dimissioni degli organi regionali del partito e, al contempo, di infondere nuova fiducia negli “amici” sardi di Zaccagnini nella possibilità di varare la giunta autonomista. Il “mandato esplorativo” di Mario Puddu (che era stato eletto presidente il 12 novembre) non ebbe però esiti incoraggianti, perché il pesante intervento della segreteria nazionale della Dc aveva lasciato tracce profonde nel mondo politico sardo, tanto che attorno alla posizione ormai intransigente del Pci si erano collocati anche il Psdaz e il Psi. I socialisti, anzi, con deliberazione unanime del comitato regionale, il 17 novembre chiesero senza mezzi termini la formazione di una giunta laica e di sinistra[43].
Puddu, così, si vide costretto a rinunciare all’incarico. I contatti tra i partiti che avevano dato vita all’intesa autonomista, però, non vennero meno del tutto e ai primi di dicembre la coalizione parve ritrovare una certa concordia intorno al nome del successore di Puddu, il socialista Franco Rais, che fu eletto presidente il giorno 4. La Democrazia cristiana manifestò allora la volontà di prendere parte alla giunta autonomista con assessori “tecnici”, ponendo però la condizione che, nel momento di assegnare gli assessorati, si tenesse nel debito conto il suo peso di partito di maggioranza relativa. Questa richiesta finì per irrigidire nuovamente e definitivamente il Pci: il 10 dicembre il comitato regionale comunista emise un comunicato stampa nel quale definiva “pretese assurde” le richieste della Dc, e chiamava le forze laiche e di sinistra all’unità per superare la “centralità democristiana”. Il Pci sardo aveva così mosso il passo decisivo, forte anche del pieno assenso che ora riceveva dal partito nazionale: “In Sardegna – disse Adalberto Minucci, esponente della segreteria di Botteghe Oscure, chiudendo i lavori del comitato regionale –, prima ancora che in altre aree del paese, si apre la prospettiva di un governo unitario che segni l’inizio di un superamento del vecchio sistema di potere, sia che la Dc prenda parte, sia che decida di autoescludersi dalla giunta regionale. Non vi sono perciò condizioni tra la proposta politica nazionale avanzata nei giorni scorsi dalla Direzione del nostro partito, e l’iniziativa portata avanti in queste settimane dai comunisti sardi per dare una nuova soluzione alla crisi del governo regionale”.
La Direzione della Dc sarda, riunitasi con urgenza il giorno 11 per decidere come rispondere alla mossa comunista, non trovò una posizione univoca al suo interno e decise di fissare una nuova seduta per il 15. Quel giorno si registrò l’isolamento degli amici di Zaccagnini e degli andreottiani, che ancora sostenevano la necessità di mantenere aperto un canale di trattativa con i comunisti; tutti gli altri gruppi, compresa la parte più moderata dei dorotei che nel corso dell’ultimo mese si era adoperata in un vano tentativo di mediazione, si espressero per l’interruzione di ogni dialogo. Franco Rais, che fino a quel momento aveva prorogato le sue decisioni sulla formazione della giunta in attesa di recuperare la Dc (che aveva appoggiato la sua elezione), decise allora di dimettersi perché sul presidente della Regione non dovevano esserci “ombre ”[44].
Rais, insomma, voleva essere rieletto senza i voti democristiani: cosa che avvenne puntualmente il 20 dicembre, quando il candidato socialista ottenne il consenso dei 40 consiglieri comunisti, socialdemocratici, sardisti, radicali e, naturalmente, socialisti, e superò il candidato della Dc, Piero Are, che ottenne soltanto 30 voti (cioè nemmeno tutti quelli del suo partito, che contava 32 consiglieri); il Pri aveva deciso in precedenza di astenersi. Il 24 dicembre 1980 nasceva la prima giunta Rais, caratterizzata dalla storica esclusione della Democrazia cristiana e dal battesimo di governo del Partito comunista (facevano parte dell’esecutivo anche gli altri partiti che avevano sostenuto il presidente socialista, con l’eccezione dei radicali).
Quella vigilia di Natale del 1980 segnò la fine dell’egemonia politica della Dc in Sardegna. Il partito che dal 25 luglio 1949 aveva sempre fatto parte delle giunte regionali, guidandole tutte meno una (quella di Ghinami), sarebbe rimasto escluso dal governo della regione fino al luglio del 1982, quando vi tornò temporaneamente in una giunta con Psi, Psdi e Pri presieduta da Angelo Rojch. In quella circostanza Rojch invitò Giagu e Soddu ad assumere una responsabilità assessoriale, ma entrambi rifiutarono, sia perché (come si è detto a proposito della tormentata vicenda della segreteria regionale) il partito non permetteva intese stabili fra le correnti, sia perché i due non condividevano il punto di vista del presidente su alcune importanti tematiche riguardanti lo sviluppo economico dell’isola. Giagu, inoltre, stava ancora scontando i postumi di un grave incidente stradale occorsogli in gennaio.
La giunta Rojch restò in carica per quasi due anni; poi, dal giugno del 1984 fino al giugno del 1989, durante il quinquennio delle tre giunte di sinistra del sardista Mario Melis, la Dc dovette stare ancora all’opposizione. Nel settembre del 1989 Mario Floris formò l’ultimo quadripartito classico della storia politica sarda: la giunta sopravvisse fino all’ottobre del 1992, ma nel dicembre del 1991 Floris dovette lasciare la presidenza al socialista Antonello Cabras. Tra il novembre del 1992 e il giugno del 1994, infine, la Dc aderì, ma soltanto con assessori “tecnici”, al cosiddetto “governissimo” voluto da Cabras e dal Partito democratico della sinistra (Pds), la nuova forza politica che aveva raccolto la parte più cospicua del disciolto Pci.
Il disegno di legge per la tutela dell’identità sarda. La crisi politica che pose fine alla seconda giunta Ghinami aveva tarpato le ali ad un importante disegno di legge, con il quale l’assessore Giagu intendeva tutelare l’insieme delle espressioni culturali che caratterizzano la civiltà della Sardegna.
Nella relazione introduttiva al d. d. l., che era stato presentato nel mese di ottobre, si legge: “Ponendosi come finalità il rafforzamento delle radici storiche del popolo sardo e partendo dal presupposto certo che la lingua e la cultura sarde siano elemento fondamentale per lo sviluppo civile, sociale ed economico della società isolana, il disegno di legge rivendica il diritto assoluto ed irrinunciabile alla vita ed alla libertà”. L’assunto trovava la sua legittimazione nel principio comunemente accettato secondo il quale le “strutture” economiche e culturali non sono “monofunzionali”, ma si condizionano reciprocamente. Ecco quindi che la specificità culturale della Sardegna, la sua “identità”, in una parola, doveva essere valorizzata perché servisse da sostegno allo sviluppo economico e civile dell’isola. L’identità è “l’insieme dei modi con cui attraverso vicende millenarie un popolo regionale si rapporta alla sua stessa storia, e dunque rappresenta – col suo carico di esperienze, di leggi non scritte, di memorie comunitarie – tanto le radici attraverso le quali il popolo sardo sta nella sua terra, quanto il patrimonio di civiltà interiore dal quale più utilmente può attingere per guidare, in forma più autonoma, il proprio sviluppo”, dando nel contempo il proprio contributo creativo alla “costruzione della società nazionale e non solo nazionale”.
Nel corso dei decenni post-bellici, però, l’identità sarda aveva perso gradualmente la sua nitidezza, soprattutto in conseguenza dei fenomeni dell’“italianizzazione” e della marginalizzazione della lingua locale, a loro volta messi in essere sia dal naturale processo di integrazione della società sarda con la società nazionale e dall’accoglimento di stili di vita che sono propri della civiltà industriale, sia dalla importazione, attraverso la scolarizzazione sempre più estesa e la diffusione sempre più massiccia dei mezzi di informazione, di modelli culturali quasi del tutto estranei ai sardi. Così, la Regione doveva ridare vita alla lingua sarda, senza che questa operazione significasse un “ripiegamento nostalgico sul passato”, né l’anticamera dell’accoglimento di tentazioni “separatiste”. Essa doveva essere, invece, una nuova espressione della “più vasta azione perseguita in forme diverse e più esplicitamente ‘politiche’ nel trentennio autonomistico, per rivendicare nei confronti dello Stato non tanto nuovi e più incisivi poteri della Regione sarda nel governo della realtà isolana, quanto un nuovo modo di porsi dello Stato nei confronti […] dei contenuti di esperienza e di novità che ogni regione può offrire allo sviluppo della civiltà nazionale”[45].
Il disegno di legge individuava, sotto i titoli secondo (“Strutture e spazi operativi”) e terzo (“Interventi nella scuola sarda”), gli organi deputati al recupero dell’identità regionale. Tali organi erano la “Consulta regionale della lingua e della cultura dei sardi” (da costituirsi presso l’assessorato promotore), che doveva avere potere propositivo “su tutte le questioni riguardanti l’indirizzo generale delle attività utili per il conseguimento degli obiettivi” previsti dalla legge, e gli “Organismi comprensoriali”, che dovevano coordinare i piani di attività culturale promossi dagli enti locali. Il progetto coinvolgeva anche il sistema scolastico sardo: le scuole di ogni ordine e grado (ciascuna sulla base del livello di istruzione impartito) erano chiamate a collaborare per mettere a punto piani di studio che integrassero i programmi d’insegnamento ministeriali con elementi di storia, letteratura, geografia, ecologia, arte e musica popolare della Sardegna, “educazione civica autonomistica” e “diritto costituzionale regionale”, “nel rispetto del dettato costituzionale”. Inoltre, allo scopo di valorizzare il patrimonio culturale isolano, era prevista l’istituzione presso le due università sarde di altrettanti “Dipartimenti di civiltà della Sardegna”: essi dovevano dedicare particolare attenzione all’insegnamento della lingua sarda, svolgere appropriata ricerca scientifica e organizzare convegni di studio a carattere nazionale e internazionale.
L’impianto ideologico e culturale della proposta di legge affondava le sue radici nell’humus dell’intenso e proficuo dibattito sull’autonomia e sulla “specificità” della Sardegna che nel corso del trentennio autonomistico aveva appassionato il mondo politico e intellettuale isolano. Lo dimostrano, intanto, le ricorrenti citazioni del pensiero di Michelangelo Pira, soprattutto quelle sul “bilinguismo imperfetto” (cioè il risultato della sovrapposizione sul sardo della lingua italiana, che la gran parte della popolazione isolana viveva come lingua di “inappartenenza” e, perciò, usava ad un livello inadeguato di “competenza critica” ), che doveva essere risolto (secondo il legislatore) portando il sardo su un piano di “parità istituzionale” con l’italiano, vale a dire utilizzando la lingua regionale accanto a quella nazionale nella comunicazione orale come in quella scritta, nelle circostanze quotidiane come in quelle ufficiali.
Lo dimostrano, poi, i richiami impliciti ad altre tesi. A cominciare da quella che stabilisce una stretta interdipendenza tra cultura, politica autonomistica e progresso sociale, e che deve essere fatta risalire al pensiero di Antonio Pigliaru e di Gonario Pinna. I due studiosi avevano chiesto, già in occasione del decennale dello statuto speciale, un forte impegno del governo regionale per la promozione della cultura sarda: essa doveva essere “sprovincializzata”, cioè liberata dalla condizione di chiusura e di subalternità nella quale era stata costretta dai modelli culturali dominanti, per divenire funzionale al rilancio dell’autonomia. Altrimenti, essendo un fatto profondamente culturale e non semplicemente amministrativo, l’autonomia non avrebbe mai potuto produrre lo sviluppo complessivo della società isolana[46].
Inoltre, nella vocazione “pluralista” del progetto – resa esplicita dalla volontà di chiamare attorno alla Regione (che promuove e coordina) le comunità locali, le diverse organizzazioni territoriali, la scuola – si riconosce il concetto, espresso vent’anni prima da Paolo Dettori, secondo il quale l’attività autonomistica non può andare disgiunta dalla partecipazione consapevole dei cittadini: “In questo sta d’altronde il significato più profondo dell’autonomia: della riacquistata consapevolezza che i sardi sono una comunità che, vinti la disgregazione e l’isolamento, non si ignora e ritrova i suoi valori (e concorrono a dare conferma all’affermazione che si è fatta i rinnovati studi sulla storia, la lingua, le tradizioni), e conosce un mondo più vasto che progredisce, ed a quel progresso vuole partecipare, con il suo impegno prima che con la necessaria solidarietà degli altri, per affermare un suo diritto e rispondere nel contempo al dovere di essere parte delle esperienze che nel mondo odierno si compiono”[47].
Infine, tutto il costrutto introduttivo, per la definizione del concetto di “identità” e per l’anelito che esprime verso una società sarda pienamente consapevole di sé e protesa alla “costruzione della società nazionale e non solo nazionale”, è debitore delle lunghe e profonde elaborazioni intellettuali di Giovanni Lilliu[48].
5. Gli anni Ottanta e Novanta: il controllo del partito e l’elezione al Senato.
1980-1987. Sebbene le vicende della politica regionale lo costringessero a non prendere più parte ai governi che si susseguirono dal dicembre del 1980 in poi, Giagu, che dopo la sua ultima esperienza da assessore era stato nominato capogruppo consiliare della Dc e cominciava a pensare alla candidatura parlamentare, continuò a svolgere un ruolo di primo piano in Sardegna, anche perché la sua forza politico-elettorale rimaneva intatta. Lo dimostrò il XVII Congresso della Dc sassarese, che si tenne il 31 maggio 1981 e che egli, a capo della “Sinistra di base”, vinse con ampio margine conquistando il 51% dei voti, mentre il 21% andò ai morotei, il 12% alla “Proposta” di Mario Segni, il 6% ai dorotei e il 5% ai fanfaniani.
La netta affermazione congressuale significava anche la vittoria della linea politica che Giagu propugnava e che accanto alla formula “nessuna pregiudiziale verso i comunisti” presentava quella, condizionata anche dagli ultimi sviluppi della politica regionale, dell’equidistanza della Dc rispetto a tutti gli altri partiti. Intervenendo ai lavori del congresso, dopo avere ricordato il riconoscimento dato dalla Dc allo sforzo compiuto dai comunisti italiani per dimostrare “la loro legittimità a far parte dell’area democratica” e del mondo occidentale, disse: “Giunti a questo punto, di fronte al problema comunista ci sono tre vie: quella di rigettare all’indietro, agli anni andati, il rapporto con i comunisti; quella di bloccarlo allo stato odierno […] oppure andare avanti fiduciosi che il processo in atto porti asciogliere le incognite che tuttora esistono e che non sono di poco conto. Noi siamo per quest’ultima ipotesi, convinti che la normalizzazione della vita politica italiana passi per questa ‘porta stretta’ e densa di incognite”. Poi, anche qui in sintonia con la posizione degli amici di Zaccagnini, ribadì il suo parere favorevole alla partecipazione della Dc ad una giunta unitaria autonomistica: “Abbiamo sempre sostenuto che un nuovo tipo di rapporto con i comunisti non deve attuarsi a detrimento dei rapporti con altri partiti democratici […]. In questa linea e con queste premesse ci siamo pronunciati a favore della giunta di unità autonomistica, in quanto inserita in un contesto politico, economico e sociale che ci è parso valido per una presenza dei comunisti nel governo regionale, così come in altri casi è apparsa e può apparire rispondente alla situazione la presenza unitaria negli enti locali e in organismi democratici di vario tipo”[49].
Questa era anche la linea del partito. Il 25 ottobre il V Congresso regionale votò in modo quasi unanime un documento che chiedeva le dimissioni della terza giunta di sinistra guidata da Rais e la sua sostituzione con una giunta di unità autonomistica. Intorno al documento si ritrovò il 95% dei delegati, che comprendeva dorotei, bodratiani, basisti, morotei, andreottiani, fanfaniani e forzanovisti; soltanto “Proposta” (5%) non votò a favore. Sappiamo però che fra i partiti sardi non si realizzò mai una piena convergenza sulla giunta autonomistica, che così restò un’incompiuta.
Il congresso di maggio aveva dato alla “Sinistra di base” la maggioranza assoluta nella Dc sassarese, ma Giagu volle che il rinnovo delle cariche avvenisse sulla base dell’accordo con le diverse correnti e in particolare con il gruppo moroteo di Soddu, che rappresentava la seconda forza del partito. Il 18 settembre il basista Vittorio Sanna, uomo dello staff di Cossiga, poté essere eletto segretario senza nessuna opposizione. I rapporti fra i due “cavalli di razza” (per dirla con la definizione che Andreotti aveva usato per Fanfani e Moro) della Dc sarda si svolsero all’insegna della collaborazione almeno fino al 1983. Il 17 marzo di quell’anno, appoggiato da Giagu, Soddu fu eletto capogruppo consiliare al posto dell’uscente Gonario Gianoglio, mentre in giugno i due si accordarono perché il moroteo fosse il capolista della Dc sassarese alle elezioni parlamentari del 26 e 27, e il basista gli subentrasse a capo dei consiglieri democristiani. Giagu, dunque, per allora non si candidava e restava in Sardegna; anzi, come precisavano con un po’ di malizia gli ambienti della Dc sassarese, a Giagu restava la Sardegna[50].
Il 24 e 25 giugno 1984 si tennero le elezioni per il rinnovo del Consiglio regionale e Giagu, che della nuova assemblea sarebbe stato il vicepresidente per quattro mesi (agosto-novembre 1984), si presentò alla testa della lista democristiana in provincia di Sassari. La Dc sassarese (come del resto l’intero partito) non stava attraversando un buon momento: in occasione delle elezioni nazionali dell’anno precedente aveva subìto un tracollo di voti tanto nel capoluogo quanto nel resto della provincia. La tornata elettorale regionale confermò il trend negativo (la Dc perse, rispetto al 1979, il 5% dei voti e cinque seggi consiliari): il candidato più votato a Sassari fu il segretario provinciale del Pci, Billia Pes; alle sue spalle emerse Pietro Montresori, ex sindaco della città e uomo di primo piano della “Sinistra di base”, mentre Giagu, per la prima volta dopo molti anni, fu soltanto il terzo degli eletti. Il parziale insuccesso cittadino non compromise la posizione di primato dell’ex presidente della Regione, perché nel collegio provinciale egli raccolse 28.788 voti e fu ancora il candidato più votato della Sardegna (Mario Floris, il secondo, ottenne 25.382 preferenze). Tuttavia, il fatto che a Sassari gli fosse stato preferito Montresori indicava che le dinamiche del bacino elettorale stavano mutando: probabilmente Montresori aveva potuto fare leva anche sul suo apprezzato mandato da sindaco, ma d’altra parte il ricambio generazionale stava portando al voto gruppi di persone sempre meno legati alle figure che da più tempo erano alla guida del partito.
Per il momento la solida posizione di Giagu, che era anche decano dell’assemblea regionale, non subì contraccolpi: anzi, sebbene egli non lo desiderasse, in novembre i consiglieri del partito quasi all’unanimità (il solo Piero Tamponi, di “Proposta”, espresse voto contrario) lo confermarono capogruppo. Il 4 giugno 1985, poi, egli fu indicato dal Consiglio regionale (insieme al presidente dell’assemblea, il comunista Emanuele Sanna, e al presidente della Regione, il sardista Mario Melis) come Grande elettore della Sardegna per l’elezione del presidente della Repubblica: così, il giorno 24, Giagu poté contribuire all’insediamento nella massima carica dello Stato del suo amico d’infanzia, Francesco Cossiga[51].
Con il passare del tempo, inevitabilmente, i fermenti dell’ambiente esterno furono avvertiti sempre più chiaramente anche dentro la Dc sassarese. Le tormentate vicende che accompagnarono il XVIII Congresso provinciale rendono bene l’idea dello scontro per il controllo del partito. Il 27 aprile 1986 la “Sinistra di base” ripeté la schiacciante vittoria del 1981, ottenendo il 51,7% dei voti congressuali e confermando Antonio Satta nella carica di segretario provinciale (“Nuova autonomia” ebbe il 13,6% dei voti, cioè quasi otto punti percentuali in meno rispetto a cinque anni prima, “Area Zac”, il gruppo di Giuseppe Pisanu, ottenne il 13,1%, “Proposta” l’11,2% e i dorotei il 10,5%). La corrente di Giagu aveva vinto anche senza l’apporto di 5.700 voti che erano stati espressi da quattro sezioni democristiane di Alghero: infatti il pretore della cittadina li aveva “congelati” in seguito ad un esposto presentato da Martino Lorettu, il leader algherese di “Nuova autonomia”. Lorettu sosteneva che quei voti provenivano da un gruppo di persone che erano state iscritte in modo irregolare. È difficile stabilire gli esatti contorni della controversia, tuttavia tre fatti giocarono a favore di Giagu: innanzitutto, il 13 maggio la Commissione centrale per le garanzie statutarie della Democrazia cristiana giudicò non accoglibile il ricorso avanzato da Lorettu contro gli esiti del congresso; in secondo luogo, dati i rapporti di forza in atto (la “Sinistra di base”, oltretutto, aveva dalla sua anche l’alleanza con Pisanu) non sembra che la corrente di Giagu avesse bisogno di mettere in atto manovre irregolari per raccogliere ulteriori voti; infine, anche il ricorso proposto da Lorettu davanti alla sezione civile del Tribunale di Sassari non ebbe successo.
Giagu dunque, nonostante l’irrequietezza del bacino elettorale sassarese e nonostante la crescente aggressività dei competitori interni, restava al timone del partito. Anzi, l’ultimo congresso aveva messo in luce l’affermazione personale del figlio Giovanni, il quale, da pochi mesi nella politica attiva e consigliere comunale appena nominato, era entrato nel nuovo comitato provinciale come primo eletto, ottenendo più voti di due figure di primo piano della “Sinistra di base” e della vita politica sassarese, come Vittorio Sanna e Lorenzo Idda, i quali erano rispettivamente il presidente della Provincia e il presidente della Camera di commercio. Giovanni Giagu proseguì poi con successo la sua carriera politica e qualche anno dopo, nel 1989, fu eletto consigliere per la X legislatura regionale[52].
Con queste favorevoli premesse Nino Giagu affrontò finalmente le elezioni parlamentari. Nel maggio del 1987 si dimise da capogruppo consiliare e il 15 giugno, candidatosi al Senato nel collegio di Tempio, fu eletto con il 42,5% dei suffragi (gli altri eletti sardi della Dc furono Ariuccio Carta, nel collegio di Nuoro con il 37,7% dei voti, Lucio Abis, nel collegio di Oristano con il 35,7% e Montresori, nel collegio di Sassari con il 32,5%). Durante il suo primo mandato Giagu fece parte della commissione Istruzione.
1987-1994. Dopo Soddu, dunque, anche Giagu giunse a Roma. La loro influenza sulla vita del partito in Sardegna non venne meno per questo; è vero, però, che la presenza non più assidua delle personalità più importanti della Dc sassarese (a quelle “storiche” di Giagu e Soddu si possono sommare quelle più recenti di Segni e Montresori) contribuì a spostare gli equilibri del comitato regionale dalla parte della Dc cagliaritana. Così, mentre si avvicinavano le elezioni regionali del giugno 1989[53], la designazione di Mario Floris come candidato della Dc alla presidenza della Regione fu la naturale conseguenza del diverso assetto stabilitosi tra i comitati provinciali del partito.
Il gruppo cagliaritano nel comitato regionale, appoggiato dai rappresentanti nuoresi (che così, forse, speravano di riconquistare almeno una parte del peso che avevano perso nel 1984, dopo la caduta della giunta Rojch), provò anche a limitare la forza della “Sinistra di base”, riuscendo ad ottenere la bocciatura della lista dei candidati sassaresi al Consiglio regionale: la lista, infatti, era stata compilata personalmente da Giagu e si presentava essenzialmente come una lista di corrente, tanto che essa non fu appoggiata da Soddu e da Segni. Nonostante il duplice ostacolo rappresentato dalla contrarietà del comitato regionale e dalla “ribellione” di una parte del suo stesso comitato provinciale, Giagu seppe difendere le sue scelte, e nella giunta Floris trovarono posto due esponenti della Dc sassarese, uno dei quali, il neo assessore agli Enti locali Antonio Satta, era fra i più stretti collaboratori del senatore; il secondo era il moroteo Giovanni Dettori, che occupò l’assessorato alla Pubblica istruzione.
Se la scelta di un assessore moroteo aveva consentito a Giagu di ricomporre la tensione con Soddu, la decisione di preferire Satta gli aveva procurato il malcontento degli altri luogotenenti basisti, Montresori e Salvatore Amadu. Proprio quest’ultimo, ritenendosi defraudato della designazione assessoriale, decise di abbandonare Giagu e di dare vita al gruppo dei “neo basisti”, al quale si aggregò presto anche Montresori. Il primo obiettivo del nuovo gruppo era la conquista del posto che era stato di Satta, cioè la segreteria provinciale della Dc; a questo scopo i neo basisti cercarono e trovarono facilmente l’alleanza degli altri “scontenti”, cioè Pisanu, Segni e il doroteo Antonio Oggiano, ma non quella di Soddu, il quale, anzi, scelse di costituire con Giagu quello che la stampa sassarese battezzò subito l’“asse”. In un primo momento l’asse Giagu-Soddu sembrò accettare la nomina a segretario di Matteo Luridiana, un uomo di Segni, ma successivamente la osteggiò al punto che il neo eletto, dopo poche settimane, decise di dimettersi. D’altra parte l’“asse” non riuscì a fare eleggere il proprio candidato, Martino Demuro, sicché risultò inevitabile l’intervento della Direzione nazionale del partito, che il 9 marzo 1990 decise di affidare la Dc sassarese ad un commissario. Questi fu scelto nella persona di Francesco Mazzola, vicepresidente dei senatori democristiani e ben accetto a Giagu, poiché era un esponente della “Sinistra di base”.
La situazione del partito tornò alla normalità soltanto il 25 aprile 1991, quando, al termine del XIX Congresso provinciale (la cui celebrazione era stata più volte rinviata a causa dei troppi attriti fra le correnti), l’assise dei delegati elesse segretario il candidato sostenuto dalla “Sinistra di base” e da “Nuova autonomia”, Peppino Bazzoni, il quale con il 54% dei consensi ebbe la meglio su Vittorio Sanna, che faceva capo alla coalizione dei neo basisti, dei dorotei e dei gruppi di Segni e Pisanu. La corrente di Giagu, pur perdendo la maggioranza assoluta (raccolse il 44% dei voti), rimaneva la più forte, poiché contava 19 seggi nel nuovo comitato provinciale e, insieme ai quattro rappresentanti morotei, controllava più della metà dell’assemblea. I 17 seggi restanti erano ripartiti così: sei al gruppo di Montresori, altri sei al gruppo di Segni e Oggiano (che si erano presentati con un’unica lista) e cinque al gruppo di Pisanu. L’intesa fra Giagu e Soddu fu perfezionata il mese seguente con l’elezione del moroteo Demuro alla carica di vice segretario.
Un anno dopo, il 5 e 6 aprile 1992, si tennero le nuove elezioni per il Parlamento. Giagu si ripresentò per il Senato nel collegio di Tempio e fu eletto con il 36,1% dei suffragi. Gli altri tre senatori democristiani eletti nell’isola, Salvatore Ladu a Nuoro, Lucio Abis a Oristano e Pietro Montresori a Sassari ottennero rispettivamente il 35,4%, il 34, 3% e il 30,1% dei voti[54]. Il 30 giugno il presidente del Consiglio dei ministri, Giuliano Amato, nominò Giagu sottosegretario al Tesoro.
Quell’incarico ministeriale e l’altro, di sottosegretario alla Difesa, ricoperto nel successivo governo Ciampi, dovevano rimanere come l’apice della carriera politica di Nino Giagu De Martini, anche perché le vicende della vita italiana stavano per mettere fine ad un’intera stagione politica, all’interno della quale si era sviluppata anche la trentennale attività dell’ex “giovane turco”. Con le elezioni del 1992, infatti, era cominciato l’ultimo atto di quella che è stata chiamata la “prima repubblica”. L’inchiesta condotta dal pool dei magistrati di “mani pulite”, che coinvolgeva in modo sempre più profondo i partiti, soprattutto quelli di governo, stava portando alla luce uno scenario di corruzione diffusa che non risparmiava nemmeno la Sardegna e, più in particolare, Sassari: fece scalpore, in città, la vicenda delle tangenti legate alla vendita di alcuni terreni della Sbs, la Società bonifiche sarde, che coinvolse alcuni esponenti di primo piano del Psi, del Psdi, del Psdaz e della Dc.
Negli ambienti intellettuali e sulla stampa si parlava quasi quotidianamente di “crisi della politica” o, più propriamente, di “crisi dei partiti” (cioè di una componente ben precisa del sistema politico). I cittadini si sentivano rappresentati sempre meno dalle forze politiche, anche a causa di ciò che Antonello Soro (all’epoca capogruppo della Dc nel Consiglio regionale) ha definito “l’omologazione dei partiti”[55], e un numero crescente di militanti non rinnovava la tessera di iscrizione[56]. Accanto alla generale crisi del sistema vi era poi quella specifica del partito più importante, la Democrazia cristiana, che non riusciva a “rinnovarsi dall’interno” per assecondare – secondo l’analisi di Bartolomeo Sorge – il “forte bisogno di rinnovamento della politica” che saliva “incontenibile dalla base”. Esisteva il rischio, perciò, che la Dc si trasformasse in una forza politica conservatrice, lontana dall’“intuizione sturziana” e dal modello di partito che la sinistra democristiana, da Moro fino a De Mita, aveva cercato di edificare in alternativa allo statico organismo doroteo: il modello di un partito, cioè, che fosse “lo strumento del cattolicesimo democratico, il modo esigente di tradurre in politica i valori evangelici al servizio soprattutto delle classi popolari meno abbienti”. Di fronte a quel rischio, che avrebbe privato il paese di una moderna forza politica d’ispirazione cristiana (proprio nel momento in cui l’Italia stava cercando di superare lo stallo quarantennale della “democrazia bloccata”), Sorge arrivava a teorizzare un’iniziativa rifondatrice che partisse dal mondo cattolico esterno alla Dc: “Quasi una nuova costituente di cultura politica, che porti a riscoprire, in forma rinnovata e moderna, la validità della intuizione sturziana circa una presenza politica d’ispirazione cristiana popolare, laica, aconfessionale, coraggiosamente progressista”[57].
A contribuire al crollo dell’edificio ormai fatiscente della “prima repubblica”, accanto all’azione giudiziaria presero forma alcune importanti iniziative ad opera degli ambienti politici rimasti estranei al decadimento morale delle istituzioni: le “esternazioni” (le famose “picconate”) del presidente della Repubblica, Cossiga, suonarono come precisi atti d’accusa nei confronti di un sistema che appariva ormai completamente ingabbiato nella logica del potere e dell’interesse particolare, mentre le spinte per la rigenerazione della politica come strumento al servizio dell’interesse pubblico trovarono forma organizzata nei movimenti del “Patto per il referendum” e dei “Popolari per le riforme”, animati da Mario Segni, e della “Rete” di Leoluca Orlando.
Nino Giagu seguì quei tumultuosi eventi come ineluttabili. La Dc sassarese, profondamente segnata dalla “tangentopoli” sarda[58], dall’azzeramento degli iscritti e dalle defezioni di diversi uomini di primo piano, si era già portata in massima parte sulle posizioni riformatrici di Mario Segni, e quando il 18 gennaio 1994 Mino Martinazzoli, l’ultimo segretario dello “Scudo crociato”, sciolse la Democrazia cristiana e fondò il Ppi[59], l’ormai settantenne senatore, pur aderendo al nuovo soggetto politico, del quale divenne consigliere nazionale, decise senza clamori di lasciare la politica attiva. Il 20 febbraio Segni stilò la lista dei “popolari” sassaresi per le elezioni di marzo (in gennaio si era dimesso il governo Ciampi, l’ultimo “pentapartito”): il nome di Nino Giagu non era tra quelli dei candidati, né, decaduto il suo secondo mandato senatoriale, egli prese più parte ad alcuna competizione elettorale, anche se per diversi anni ancora sarebbe rimasto una fondamentale figura di riferimento nell’ambiente politico e sociale sassarese[60].
[1] Secondo Castellaccio, la somma sottratta all’Esit era stata poi impiegata dall’assessorato per il finanziamento della società sportiva “Cagliari Calcio”, senza che la giunta, dichiarò in un’intervista, avesse “battuto ciglio”. Si veda La Regione sotto accusa per la politica turistica, in “La Nuova Sardegna”, 9 aprile 1974.
[2] Legge regionale 3 giugno 1974, n. 10 (Appendice II, n. 14).
[3] L’Ufficio Studi, propaganda e stampa della Democrazia cristiana aveva la sua sede centrale a Roma e faceva capo alla segreteria nazionale del partito.
[4] Il 9 febbraio 1974, in seguito alla Relazione del segretario politico, la Direzione nazionale della Dc aveva approvato all’unanimità il seguente ordine del giorno: “In merito al previsto referendum abrogativo la Direzione, ricordato l’atteggiamento costantemente tenuto dalla Dc circa il diritto del popolo a pronunziarsi sulle leggi mediante referendum, l’azione politico-parlamentare svolta a tutela della famiglia e della indissolubilità del matrimonio, la disponibilità manifestata per attenuare almeno le più dannose conseguenze della legge Fortuna; constatata l’impossibilità di evitare il referendum senza venir meno alla suddetta coerente azione; ricordando agli elettori la posizione della Dc sull’importante argomento, invita gli iscritti a prepararsi, con approfondita conoscenza e maturo esame del problema del divorzio e delle sue implicazioni familiari e sociali, a sostenere la proposta abrogazione della legge Fortuna; impegna il Partito – in posizione autonoma e respingendo ogni tentativo di portare fuori dell’area democratica l’equilibrio politico del Paese – ad adempiere al dovere di chiarire i termini del problema sottoposto al referendum, mantenendo – nella persuasione che non giovi trasformare la campagna in una disputa esasperata che la snaturi e la strumentalizzi a fini estranei – la partecipazione al dialogo con i cittadini entro i limiti di un sereno confronto civile – con l’auspicio che altrettanto facciano gli altri partiti – per evitare turbamento alla serena convivenza del popolo italiano e per non intaccare la validità della collaborazione tra le forze democratiche”. D’altra parte, un allegato dal titolo La posizione politica, propagandistica e organizzativa della Dc in ordine all’attuazione del referendum precisava che la Dc doveva condurre la campagna per il referendum “come una campagna elettorale”, cioè con un impegno diretto: “Questo anche in conseguenza del fatto che il Pci ha già preannunziato una vera e propria mobilitazione generale di tutto il suo apparato, indicendo persino una sottoscrizione, per le spese della campagna, che dovrà raggiungere un miliardo e mezzo di lire e organizzando corsi accelerati per attivisti”. Perciò la Direzione democristiana sollecitava i segretari provinciali a predisporre corsi di formazione con un alto numero di partecipanti, i quali dovevano “essere scelti tra persone di buon livello culturale, sensibili ai temi che saranno trattati, in grado di sostenere dialetticamente le tesi fondamentali”. Poi precisava: “Il compito di coloro che parteciperanno ai corsi è fondamentalmente quello di tenere riunioni, partecipare a tavole rotonde, incontrarsi con gruppi di persone in case private, penetrare in ambienti operai e contadini: adottare insomma tutte quelle iniziative ritenute utili a persuadere il maggior numero di cittadini, in ogni ceto sociale”. Copie dei documenti qui richiamati sono conservate presso l’Archivio della Margherita di Sassari, nella cartella “Referendum divorzio 12-5-74”.
[5] F. Cossiga, Le ragioni del mio sì, Spes Propaganda, Sassari, [1974], pp. 4-5. Il già ricordato La posizione politica, propagandistica e organizzativa della Dc avvertiva che “la difesa della indissolubilità del matrimonio non va affidata ad argomenti di carattere religioso o dottrinale […]. Occorre invece impostare l’opera di persuasione sui danni che la società riceve dal divorzio, a causa della disgregazione del nucleo familiare […]: è in discussione il matrimonio civile, non quello religioso. Qualsiasi deviazione di questa linea farebbe oltretutto il gioco degli avversari”. Nella Relazione del 9 febbraio lo stesso Fanfani aveva auspicato che tutti i partiti evitassero di strumentalizzare il referendum, mantenendo separate le argomentazioni inerenti la sfera religiosa da quelle di natura politica, al fine di non compromettere la “pace civile” del paese con il turbamento della “pace religiosa”.
[6] Essi erano individuati nell’automaticità con la quale la legge faceva conseguire la recessione del vincolo matrimoniale ai cinque anni di separazione legale, e nella riduzione del ruolo del giudice “a mero organo di accertamento sostanzialmente amministrativo” senza “reale potere di valutazione”.
[7] F. Cossiga, Le ragioni, cit., pp. 8-10. Anche lo sviluppo di questo tema partiva da una specifica raccomandazione del documento di propaganda del 9 febbraio: “Occorre puntare, tra l’altro, su un argomento obiettivamente sostenibile e capace di molta presa su determinate categorie, e cioè che il divorzio è un’istituzione borghese, egoistica, a vantaggio soprattutto dei ceti economicamente privilegiati, mentre solo in minima parte interessa la grande massa dei ceti operai e contadini”.
[8] Lo stesso Cossiga nel suo opuscolo parlava di “gran parte dell’opinione pubblica mobilitata per il ‘no’” e di “cattolici che si sono pronunziati per il ‘no’”.
[9] L’intervista è riprodotta integralmente in Appendice III.
[10] Si veda I risultati delle elezioni per il rinnovo dell’assemblea regionale. I commenti regionali ai risultati elettorali. I commenti nazionali ai risultati elettorali, in “Agi Sardegna”, a. XXIV, nn. 52-53, giugno-luglio 1974.
[11] Comitato regionale della Dc: accolte le dimissioni di Bona e nominato un direttorio. Intervento di Nino Giagu De Martini, in “Agi Sardegna”, a. XXIV, nn. 54-55, luglio 1974.
[12] La tribuna precongressuale fu ospitata da “La Nuova Sardegna”: Ristabilire il dialogo, 7 dicembre 1974; “C’è una esigenza di cambiamento”, 8 dicembre 1974; Il partito deve prendere coscienza della realtà, 11 dicembre 1974; “Il partito deve compiere delle scelte fondamentali”, 12 dicembre 1974; “Dobbiamo superare le inquietudini e le incertezze che sono in noi”, 13 dicembre 1974.
[13] “Il punto è che il partito non apparteneva ai suoi leader. Apparteneva ai suoi azionisti politici: le correnti, i signori delle tessere, e poi le organizzazioni di categoria, le associazioni cattoliche. Era una proprietà diffusa e parcellizzata, che non consentiva a nessuno di comandare ma offriva a tutti la possibilità di partecipare al comando e di condizionarlo. In questo complesso e minuzioso assemblaggio c’erano semi e frutti di una lunga stagione politica, che un giorno avremmo chiamato prima repubblica”. M. Follini, La Dc, il Mulino, Bologna, 2000, p. 123.
[14] Congresso straordinario della Dc sarda: lettera del segretario Rojch ai quadri di base del partito, in “Agi Sardegna”, a. XXIV, n. 91, dicembre 1974.
[15] “Vestito in blu, in perfetta forma, con il cappello leggermente inclinato sull’occhio destro, il segretario politico della Democrazia cristiana, senatore Amintore Fanfani, ha fatto il suo ingresso alle sedici di venerdì 13 dicembre nella sala del Palazzo dei Congressi della Fiera di Cagliari, gremita da oltre mille e cinquecento persone, tra delegati e spettatori. Sul palco, ornato da composizioni floreali e sovrastato alle spalle da un grande manifesto dove si leggeva Una D. C. rinnovata per guidare un grande movimento popolare e democratico al servizio dell’autonomia e della Sardegna che cambia e avanza, Fanfani si è seduto a pochi metri dalla tribuna destinata agli oratori ed ha rivolto sorrisi e strette di mano a tutti i notabili democristiani che si avvicendavano per salutarlo”. S. Reina, Dopo l’autocritica l’accordo unitario, in “La Nuova Sardegna”, 18 dicembre 1974.
[16] Bernardo Leighton Guzman era una delle voci dell’opposizione democratica alla dittatura del generale Pinochet. L’anno seguente sfuggì ad un tentativo di omicidio tramato dalla Dina, la famigerata polizia segreta cilena.
[17] I testi integrali degli interventi congressuali, oltre che sulle agenzie di stampa, si possono leggere anche in Autonomia, programmazione e meridionalismo. Fatti, documenti e esperienze della Sardegna (1974-1979), a cura del Centro studi autonomistici “Paolo Dettori”, Edizioni Gallizzi, Sassari, 1979, pp. 131-135.
[18] Seguendo l’interpretazione di Giuseppe Chiarante, due erano le esigenze che animarono quella particolare strategia politica: “La prima esigenza nasceva dalla presa di coscienza che non era più possibile governare il paese senza tenere conto della presenza e del ruolo dei comunisti nella società italiana. Non era praticabile, cioè, il puro e semplice accantonamento della questione comunista, come ancora ci si era illusi di fare attraverso il centro-sinistra. Occorreva perciò affrontare tale questione ed assicurare, in un modo o nell’altro, una partecipazione anche del Pci alla cosiddetta ‘area delle decisioni’, vale a dire alla maggioranza di governo. L’altra esigenza era di far sì che tale partecipazione avvenisse però in forme tali da non entrare in contrasto con la cosiddetta centralità democristiana. Non doveva dunque essere messo in discussione, alle radici, il tipo di Stato, di assetto del potere, di organizzazione economica e sociale che la Dc aveva costruito. La politica del ‘confronto’ col Pci e della ‘solidarietà democratica’ nel governo del paese, nelle forme in cui fu portata avanti da Moro dal giugno 1976 fino alla sua tragica morte, rappresentò il tentativo di combinare, concretamente, queste due esigenze”. G. Chiarante, La Democrazia cristiana, cit., pp. 132-133.
[19] L’operazione fu portata a termine con successo in occasione del Consiglio nazionale del luglio 1975, quando Fanfani fu sconfitto da una larga maggioranza formatasi intorno alla linea morotea e alla figura di Benigno Zaccagnini, che fu eletto nuovo segretario. Moro, allora capo del governo, poté così impostare quella politica della “solidarietà nazionale” che, in un momento particolarmente delicato per il paese, avrebbe condotto il Pci sulla posizione parlamentare della “non sfiducia” verso il governo Andreotti (30 luglio 1976) e, poi, all’“accordo programmatico” del 10 luglio 1977. In occasione di quel patto Dc e Pci (d’intesa con tutti gli altri partiti, ad eccezione del Msi) inserirono nel programma di governo alcuni obiettivi cari ai comunisti (come l’“equo canone” sugli affitti e una legge per l’occupazione giovanile); il Pci, a sua volta, si impegnò a non contrastare la politica deflattiva che il governo stava perseguendo anche con la riduzione degli scatti di contingenza sulle retribuzioni (la stessa Cgil accettò di svolgere il ruolo collaborativo che la “solidarietà nazionale” richiedeva).
[20] Il congresso regionale della Democrazia cristiana, in “Agi Sardegna”, a. XXVI, n. 21, marzo 1976. Il congresso nazionale democristiano si tenne a Roma il 24 marzo e si concluse con la vittoria di Zaccagnini. La lotta per la “regionalizzazione” del partito ebbe un importante successo alcuni anni dopo, il 5 maggio del 1982, quando il congresso nazionale della Dc accolse le istanze sarde ed impegnò il Consiglio nazionale: “1°) a delegare ai comitati regionali le competenze organizzative della Direzione centrale e le decisioni di politica regionale; 2°) ad attribuire ai comitati regionali una somma dei contributi spettanti alla Direzione centrale in base al numero dei deputati […]; 3°) e per le Regioni a statuto speciale ad elaborare, attraverso un congresso regionale straordinario, uno statuto speciale che sia in sintonia con la specialità istituzionale”. Si veda il testo del O. d. g. del congresso della Dc sulla regionalizzazione del partito, in “Agi Sardegna”, a. XXXII, nn. 38-39, maggio 1982.
[21] Le elezioni per il rinnovo del Parlamento si tennero in giugno; Del Rio fu eletto insieme a Cossiga e Mario Segni.
[22] Rojch: una generale ripresa ed avanzata della Dc, in “Agi Sardegna”, a. XXVI, nn. 52-53, giugno-luglio 1976. La determinazione con la quale era stata rilanciata la “politica contestativa” poté essere misurata appieno alcuni giorni dopo, il 19 maggio, quando il segretario regionale Rojch inviò un telegramma dai toni duri alla Direzione nazionale del partito, minacciando la scissione se non fosse stata rispettata l’autonomia della Dc sarda nella scelta dei candidati per le elezioni politiche di giugno. Piazza del Gesù, infatti, aveva bocciato le due candidature avanzate dalla commissione elettorale della Dc sassarese (che aveva scelto l’avvocato Antonio Pinna Vistoso e il sindacalista Damiano Giordo) e aveva imposto quelle dei senatori uscenti Francesco Deriu e Pietro Pala; allo stesso modo, la Direzione nazionale della Dc aveva escluso la candidatura cagliaritana di Mario Floris per quella di Angelo Bernassola, un dirigente della sezione “esteri” del partito. La protesta della Dc sarda non ebbe successo, ma se Deriu (nel collegio di Sassari-Alghero) e Pala (nel collegio di Tempio-Ozieri) ricevettero larghi consensi e furono rieletti, Bernassola fu boicottato dagli elettori cagliaritani e la Dc perse il collegio senatoriale del capoluogo a vantaggio del comunista Umberto Cardia (che poi optò per la Camera dei deputati, lasciando il suo seggio al sardista Mario Melis).
[23] Legge regionale 7 gennaio 1977, n. 1, “Norme sull’organizzazione amministrativa della Regione Sarda e sulle competenze della Giunta, della Presidenza e degli Assessorati regionali”.
[24] Le prime avvisaglie della contestazione si erano avute a Roma in febbraio, ma i giorni tragici furono quelli del 12 e 13 marzo 1977, quando si registrarono prima la morte di uno studente a Bologna (il giovane fu colpito da un proiettile durante uno scontro con le forze dell’ordine) e poi gravi disordini per le vie di Roma (alcuni dimostranti lanciarono bottiglie “Molotov” contro le sedi della Democrazia cristiana e de “Il Popolo” e contro le caserme delle forze dell’ordine).
[25] L’intero discorso di Giagu si può leggere in corpo all’articolo Matura la grande alleanza sul programma della Regione, in “La Nuova Sardegna”, 25 febbraio 1977.
[26] O. d. g. sulla situazione dell’università e sulla condizione giovanile approvato dall’assemblea, in “Agi Sardegna”, a. XXVII, n. 29, aprile 1977. Giagu e la Regione, in sostanza, invitavano i partiti a considerare in modo lucido e oggettivo il fenomeno della contestazione giovanile, senza cadere nelle trappole dell’ideologia di parte: non sembra del tutto corretta, quindi, l’interpretazione data da “La Nuova Sardegna” del 25 marzo 1977, La giunta sollecita il governo ad agire contro gli eversori. Il timore che la contestazione potesse tramutarsi in eversione era giustificato dalla presenza, fra gli studenti, di gruppi minoritari ma particolarmente aggressivi, i cosiddetti “Collettivi autonomi”, che praticavano la protesta violenta e la guerriglia urbana e simpatizzavano per le “Brigate rosse”. Bisogna anche ricordare la presenza delle organizzazioni eversive di destra, che spesso cercavano lo scontro con i cortei studenteschi di sinistra. L’estrema pericolosità di questa complessa situazione si vide a Roma in aprile, quando un agente di polizia fu ucciso da un colpo di pistola esploso durante i disordini verificatisi in concomitanza con una grande manifestazione studentesca.
[27] Legge regionale 11 ottobre 1971, n. 26, “Interventi della Regione per il diritto allo studio e la scuola a pieno tempo”. Il primo articolo recitava: “Al fine di contribuire a rimuovere gli ostacoli che le condizioni economiche e sociali pongono all’esercizio effettivamente libero e pieno del diritto allo studio e per attuare il principio fissato nell’articolo 34 della Costituzione e rendere più efficace l’azione della scuola nella comunità sarda, la Regione, nell’ambito delle proprie competenze, fino a quando lo Stato non vi avrà compiutamente provveduto con propri mezzi, integra con i suoi gli interventi statali e di altri enti”.
[28] Ignoti avevano dato fuoco ad uno straccio collocato nell’interstizio fra la porta e il pavimento dello studio sassarese dell’assessore, situato nella via Galilei; le fiamme, spentesi spontaneamente, avevano procurato lievissimi danni (Fallito un attentato allo studio di Giagu, in “La Nuova Sardegna”, 12 luglio 1977).
[29] Legge regionale 15 giugno 1978, n. 36 (Appendice II, n. 15).
[30] Concluso in Consiglio regionale il dibattito sull’informazione, in “La Nuova Sardegna”, 27 aprile 1978. “Tuttoquotidiano” aveva iniziato le pubblicazioni nel 1973 a Cagliari, sotto la direzione di Piercarlo Carta. Il giornale – che si avvaleva anche della collaborazione di alcuni redattori de “La Nuova Sardegna”, che avevano lasciato il quotidiano sassarese in polemica con la proprietà –, si proponeva di contrastare, appunto, il monopolio di Rovelli. Gli auspici di Giagu non si avverarono e “Tuttoquotidiano”, dopo il lungo periodo di autogestione che era cominciato nel luglio del 1976 in seguito al fallimento della società editrice del giornale, fu costretto a chiudere per le crescenti difficoltà economiche.
[31] “Ciò che premeva era l’assunzione di un disegno riformatore profondo, un progetto per il governo del Paese attraverso l’individuazione di obiettivi sociali e di progresso nella riforma complessiva dello Stato”. G. Angius, Frequentare il futuro. Le sfide di Berlinguer e la sinistra di domani, Baldini & Castoldi, Milano, 1999, in particolare pp. 51-75.
[32] Si vedano i comunicati ufficiali e le dichiarazioni dei partiti e del presidente Soddu nei giorni della crisi dell’“intesa autonomistica” nella sezione Documenti in Autonomia, programmazione e meridionalismo, cit., pp. 208-218. La Direzione regionale della Dc aveva anche provato ad avanzare la (peraltro contrastata) proposta di integrare la giunta con due assessori tecnici “designati dal Pci e graditi ai partiti dell’intesa”.
[33] Per Cossiga (che subentrava al dimissionario Andreotti) si trattava del primo incarico come presidente del Consiglio dei ministri. Il suo governo, retto dal tripartito Dc-Psdi-Pli, durò dal 4 agosto 1979 al 19 marzo 1980, ma già il 4 aprile poteva formare un secondo esecutivo con Dc, Psi e Pri, che restò in carica fino al 29 settembre.
[34] La nuova Regione a misura dei sardi, in “La Nuova Sardegna”, 15 giugno 1979.
[35] Giagu: i tempi sono cambiati e con essi anche i comunisti; Per Soddu le correnti appartengono al passato, in “La Nuova Sardegna”, 9 novembre e 2 dicembre 1979.
[36] La lista vincitrice partecipò al congresso nazionale con nove delegati. I dorotei, che a Cagliari avevano raccolto il 30,8% dei voti, ebbero sette delegati. Le altre quattro liste si erano divise il restante 23,4% dei voti e i rimanenti sette delegati (due ciascuno per “Forze nuove” e i fanfaniani, e uno a testa per la lista fanfaniana autonoma di Francesco Deriu, per quella degli andreottiani e per quella di Mario Segni).
[37] Tra il novembre e il dicembre del 1979 l’Armata Rossa aveva invaso l’Afghanistan con l’intento di porre fine al governo, comunista ma anche “non-allineato”, del presidente Hafizullah Amin. Al posto di Amin, che in seguito fu fucilato dai filo-sovietici con l’accusa di essere un agente al servizio della Cia, salì al potere Babrak Karmal. Già il 29 dicembre “l’Unità” aveva definito “gravi e preoccupanti” il colpo di mano afghano e l’intervento militare sovietico, mentre il 4 gennaio 1980 un documento della Direzione del Pci aveva detto: “Di fronte all’intervento sovietico nell’Afghanistan, che costituisce una violazione dei principi di indipendenza e sovranità nazionale, il Pci ribadisce il proprio netto dissenso”, aggiungendo che “i processi di liberazione dei popoli non possono che essere opera dei popoli stessi”. Lo stesso Berlinguer, incontrando i dirigenti del Pcus, aveva manifestato il suo dissenso nei confronti della volontà di Mosca di accrescere la sua influenza nell’Asia centrale con le armi invece che con la politica. Sull’argomento, G. Fiori, Vita di Enrico Berlinguer, Laterza, Roma-Bari, 1989, pp. 407-413.
[38] Alla mozione Zaccagnini-Andreotti si erano opposte altre quattro mozioni, presentate da Piccoli, Fanfani, Donat Cattin e Prandini e unificate nel cosiddetto “preambolo”. Il 5 marzo il Consiglio nazionale della Dc elesse Flaminio Piccoli segretario e Arnaldo Forlani presidente: i nuovi vertici del partito erano la garanzia del ritorno alla “politica difensiva” nei confronti del Partito comunista.
[39] Nel marzo del 1979, dopo le improvvise dimissioni di Salvatore Murgia, la segreteria era stata affidata al coordinatore Titino Burrai, il quale però aveva rinunciato all’incarico già in luglio. Il partito non si era trovato d’accordo sul nome del segretario fino all’elezione di Puddu, per cui per un intero anno la Dc sarda era stata guidata in qualità di reggente dal vice-segretario Giuseppe Meloni. Né le cose andarono meglio in seguito, perché Puddu, che si presentò dimissionario davanti al comitato regionale del 25 ottobre 1981, potè essere sostituito soltanto in dicembre con Efisio Corrias; l’anziano esponente della Dc cagliaritana, però, non godeva della fiducia del suo stesso comitato provinciale, che fece forti pressioni e lo costrinse alle dimissioni dopo appena un mese. Al posto di Corrias il comitato regionale provò ad eleggere Nino Carrus, ma questi, dato l’esiguo numero di voti con il quale era passata la sua designazione, alla fine di quello stesso mese di gennaio del 1982 riconvocò il comitato per rimettere il mandato. Il partito trovò allora l’accordo sul nome di Rojch, che restò in carica fino al 19 luglio, quando egli, divenuto presidente della Regione, fu sostituito da Pinuccio Serra. Con Serra, che rimase in carica per più di due anni, le anime della Dc sarda ritrovarono finalmente una maggiore concordia.
[40] “Adesso lo posso dire – ha raccontato Soddu – io e Mario Puddu […] fummo chiamati a spiegare la nostra posizione davanti alla commissione episcopale sarda”. Si veda l’intervista a Soddu in I Presidenti, cit., in particolare p. 158.
[41] Dopo l’esperienza come presidente della Regione, Giagu, secondo Cosimo Filigheddu, aveva voluto rivestire il ruolo del “regista”. Giagu, insomma, aveva scelto di “apparire” meno che in passato per essere più determinante nell’evoluzione dei fatti politici sardi: così egli era stato “il primattore dell’unificazione” dei basisti con i morotei di Soddu. Si veda C. Filigheddu, Giagu: i tempi sono cambiati e con essi anche i comunisti, cit.
[42] Dichiarazione di Nino Giagu per l’area Zac. Dichiarazione del segretario del Pri, in “Agi Sardegna”, a. XXX, nn. 82-83-84, novembre 1980.
[43] Una ricostruzione della tumultuosa vicenda della “giunta di unità autonomistica” è stata fatta da G. Melis, L’isola degli altri, Edizioni Della Torre, Cagliari, 1984, pp. 70-93.
[44] La seconda crisi dell’ottava legislatura. Nota stampa sulla riunione congiunta degli organismi del Pci, in “ Agi Sardegna”, a. XXX, nn. 90-91, dicembre 1980.
[45] Consiglio regionale della Sardegna, Atti consiliari. VIII legislatura. Disegno di legge: “Tutela della lingua, della cultura e della civiltà del popolo sardo”, 8 ottobre 1980. Relazione della giunta regionale, in particolare pp. 2-7.
[46] Si vedano G. Pinna, Note sul problema della cultura in Sardegna, in “Ichnusa”, 1958, n. 22, pp. 19-47; e A. Pigliaru, Editoriale, in “Ichnusa”, 1958, n. 26, pp. 5-14.
[47] P. Dettori, Lo Statuto sardo, in Paolo Dettori. Scritti politici e discorsi autonomistici, cit., p. 49.
[48] Al pensiero dell’illustre archeologo, scrittore, giornalista e uomo politico sardo è dedicata una recente raccolta di scritti: G. Lilliu, La costante resistenziale sarda, a cura di A. Mattone, Ilisso, Nuoro, 2002.
[49] Giagu per la soluzione della crisi e il rapporto con il Pci, in “Agi Sardegna”, a. XXXI, nn. 46-47, giugno 1981.
[50] L’indiscrezione in La Dc cancella le sue correnti […], in “La Nuova Sardegna”, 12 giugno 1983. Soddu risultò il terzo eletto fra i candidati sardi alla Camera, alle spalle di Mario Segni e Felice Contu.
[51] Un momentaneo, anche se deciso, raffreddamento dei rapporti fra i due uomini politici si manifestò qualche tempo dopo, nel 1992. Nei primi mesi di quell’anno, parlando del clima assai teso dell’Italia del 18 aprile, Cossiga ricordò che molti giovani cattolici erano pronti a prendere le armi per “difendere la democrazia” in caso di vittoria comunista, e disse che Giagu era tra coloro che a Sassari avevano ricevuto il compito di raccogliere le armi che sarebbero state fornite dai carabinieri. Giagu, che smentì utilizzando l’ironia che in molti gli riconoscono, fu successivamente accusato da Cossiga di non averlo difeso dalle critiche che erano subito piovute su di lui, specialmente da parte pidiessina: per questo motivo, secondo le indiscrezioni giornalistiche, il presidente della Repubblica decise di non visitare Sassari durante il previsto viaggio in Sardegna.
[52] Dopo lo scioglimento della Democrazia cristiana (gennaio 1994) Giovanni Giagu aderì al Partito popolare italiano (Ppi) e fu confermato nel Consiglio regionale, nel quale attualmente rappresenta la federazione della Margherita.
[53] Nel 1989 la Dc aumentò i suoi voti di quasi il 3%, conquistando due seggi in più rispetto al 1984; contemporaneamente, il Pci perse quasi il 6% dei consensi e cinque seggi. Anche se temporaneamente, la Dc era riuscita a recuperare forza e credibilità in Sardegna e questa circostanza le permise di tornare alla guida del governo regionale con Mario Floris. La XXXIII giunta regionale della Sardegna, che ottenne la fiducia il 14 settembre 1989, era un quadripartito formato da Dc (presidenza e cinque assessorati), Psi (quattro assessorati), Psdi (due assessorati) e Pri (un assessorato). Dei cinque assessori democristiani due a testa venivano dai comitati di Cagliari e di Sassari e uno da quello di Nuoro. La giunta Floris, l’ultima presieduta da un democristiano, restò in carica fino al 30 ottobre 1991.
[54] Nel 1992 furono eletti anche altri cinque senatori sardi: Mario Cocciu (a Tempio con il 19,9%) e Paolo Fogu (a Iglesias con il 18,8%) del Psi, Salvatore Cherchi (a Iglesias con il 19,3%) e Mario Pinna (a Nuoro con il 18%) del Pds, e Valentino Martelli (a Cagliari con il 15,1%) del Psdaz.
[55] “Quando le offerte di governo dei partiti diventano omologhe, viene meno la motivazione ideale e la spinta della passione per l’impegno. Questo si è verificato nel nostro Paese, se è vero che la caduta verticale della partecipazione al voto attivo o alle forme di voto tradizionale, hanno in qualche modo segnato l’espressione materiale di una involuzione del sistema politico. Insieme a questo elemento un altro merita una riflessione: la progressiva estensione di un fenomeno di ostilità verso i partiti, il diffondersi di un sentimento di generica avversione verso il ‘politico’. […] E va crescendo l’idea che la risposta di governo compatta rispetto alla domanda pluralista e frammentata della società complessa possa risolversi nel trasferimento del potere dai partiti alle persone. Elezione presidenziale diretta, collegi uninominali etc. hanno in comune questo obiettivo. Io ho molte perplessità, pur essendo consapevole del processo involutivo intrapreso dai partiti. […] I partiti possono essere ancora, negli anni futuri, il perno di un sistema di democrazia se sapranno riformare se stessi, rimuovendo scorie e incrostazioni, ritrovando la dimensione della idealità come ragione per l’impegno civile”. A. Soro, I movimenti politici in Italia negli anni ’90, in Popolari e democratici cristiani in Sardegna, a cura di N. Moretti, Editrice Il Torchietto, Ozieri, 1991, pp. 101-107. Il volume, che raccoglie gli atti di un convegno svoltosi fra Tempio, Olbia e Alghero, fa parte della collana dell’Associazione “A. De Gasperi”.
[56] Un’indagine pubblicata da “La Nuova Sardegna” il 12 febbraio 1993 (si veda l’articolo Partiti, iscritti in fuga) metteva in evidenza il crollo delle iscrizioni registrato dai partiti sassaresi tra il 1991 e il 1992.
[57] “In altre parole, in un quadro politico in movimento, dovendo compiere lo sforzo di passare da una democrazia bloccata a una democrazia matura, più che stemperare la propria identità in aggregati dai lineamenti imprecisi, serve unirsi, ciascuno con la propria identità, intorno a un preciso programma di cose da fare, per rispondere alle necessità reali della gente, al di là di blocchi e di pregiudizi antistorici”. Secondo lo studioso gesuita la Democrazia cristiana era “ferma” sia rispetto all’intera società italiana, che nel corso degli ultimi decenni aveva perso l’omogeneità degli anni Cinquanta e Sessanta e si presentava ormai come un sistema complesso, sia rispetto al mondo cattolico, che aveva fatto proprie le più recenti indicazioni del magistero della Chiesa sulla aconfessionalità della politica. Di fronte a questi due fondamentali momenti dell’evoluzione culturale e politica del paese la Dc, da una parte, continuava a fare leva sul “vecchio concetto di appartenenza politica”, valido ai tempi della società “concentrica” ma ormai quasi del tutto annullato dallo sviluppo “policentrico” degli interessi e delle relazioni sociali, e su un antistorico “anticomunismo”; e, dall’altra parte, insisteva nella strumentalizzazione del sentimento cattolico: “In occasione delle elezioni europee del giugno 1989 non abbiamo forse assistito alla riproposizione del vecchio ‘collateralismo’ […], quando si è chiesto alle associazioni cattoliche in quanto tali (Acli, Azione cattolica, Movimento popolare…) di designare un loro rappresentante a capo delle liste democristiane?”. B. Sorge, Manifesto per la costituente cattolica, in “MicroMega”, n. 2, 1990, pp. 16-23.
[58] La Dc sassarese nel 1990 aveva dovuto cedere il governo della città e quello della provincia ai partiti della sinistra, ed era poi precipitata in una nuova fase di aspra litigiosità interna. Dopo le dimissioni del segretario Bazzoni nel dicembre del 1992 (poco prima di essere coinvolto, anch’egli, nello scandalo delle tangenti Sbs), il partito era stato nuovamente commissariato.
[59] Una minoranza dell’ex Democrazia cristiana, tuttavia, non aderì al partito di Martinazzoli e, guidata da Francesco D’Onofrio, Clemente Mastella e Pierferdinando Casini, diede vita al Ccd.
[60] Un esempio è stato offerto dalla sua presenza accanto a Francesco Rutelli durante il comizio che il leader della Margherita e candidato premier dell’Ulivo tenne a Sassari il 2 maggio del 2001, in vista delle elezioni politiche. La presenza di Giagu, secondo gli osservatori politici, voleva essere la garanzia della ritrovata concordia nei rapporti, non sempre facili, fra i “popolari” e le altre componenti della Margherita sassarese.