Il martello di Atropo etrusca e dell’accabbadora sarda di Massimo Pittau
Di recente è stato messo in dubbio che sia mai esistita in Sardegna l’usanza dell’accabbadura, ossia della “buona morte” od “eutanasia”, praticata dalle accabbadoras (ma anche dagli accabbadores) (due cc e due bb !) su individui in lunga e dolorosa agonia. Chi ha sollevato questo dubbio evidentemente non ha letto l’articolo di Maria Giuseppa Cabiddu, pubblicato nei «Quaderni Bolotanesi» del 1989, num. 15, pagg. 343-368. Si tratta di uno studio molto accurato, circostanziato di fatti, di testimonianze e di bibliografia, il quale non lascia spazio a ragionevoli dubbi intorno al fenomeno studiato ed esposto dalla ricercatrice. Costei presenta anche una lunga testimonianza fàttale da un suo concittadino di Orune, nato nel 1910, testimonianza che praticamente riportava indietro i fatti narrati soltanto di qualche decennio.
D’altronde nel mio libro Lingua e civiltà di Sardegna (II, Cagliari 2004, Edizioni della Torre, pag. 20) ho scritto testualmente: «dal mensile di Cagliari “Il Messaggero Sardo”, del febbraio 2004, sono venuto a conoscenza di un fatto quasi incredibile: un anziano emigrato ha scritto di avere il ricordo chiaro di due casi di eutanasia, effettuata da accabbadoras a Cuglieri, dopo la I guerra mondiale, nei primi anni Venti… In paese se ne parlava in modo molto sommesso e riservato…».
Ancora più recente è la testimonianza riportata da Alessandro Bucarelli e Carlo Lubrano, nel loro libretto Eutanasia ante litteram in Sardegna (Cagliari 2003, pagg. 86-87), i quali, dopo aver seguito passo passo lo studio della Cabiddu, riferiscono due episodi di accabbadura, uno avvenuto a Luras nel 1929 e l’altro avvenuto ad Orgosolo addirittura nel 1952…
Infine segnalo che è comparso di recente il libro di Dolores Turchi, Ho visto agire s’accabbadora – la prima testimonianza oculare di una persona vivente sull’operato de s’accabbadora (con dvd allegato) (Oliena 2008, ediz. IRIS).
D’altra parte ritengo opportuno presentare una notazione propriamente linguistica, che ha una sua importanza: se in tutta la Sardegna centrale fino a mezzo secolo fa erano conosciuti e adoperati i vocaboli accabbadore, accabbadora «accoppatore,-trice» e accabbadura «finitura, accoppamento» (da accabbare, aggabbare «finire, terminare, smettere, esaurire, accoppare, uccidere», a sua volta dallo spagn. acabar), significa che essi facevano preciso riferimento, non a leggende inventate, ma a fatti reali e concreti.
Anche lo studioso gallurese Franco Fresi, in alcuni suoi scritti e interventi, ha riportato la testimonianza di casi di accabbadura avvenuti in epoca recente in Gallura e provocati pure col colpo di un martello tutto di legno dato sul cervelletto oppure su una delle tempie del malcapitato, martello chiamato matzolu «mazzuolo», di cui tuttora esiste un esemplare nel «Museo Etnografico» di Luras. Eccone la fotografia:
Oltre a ciò, nell’altra mia recente opera Storia dei Sardi Nuragici (Selargius 2007, Domus de Janas edit., pag. 276) ho pubblicato, oltre che la fotografia di questo martello, come pendant tipico degli Etruschi anche la raffigurazione di un demone infernale che tiene sollevato un martello come strumento di morte (è scolpito nel sarcofago di Laris Pulenas di Tarquinia) (Fig. 1):
Figure di altri demoni infernali oppure di Caronte sono dipinte oppure scolpite in altri monumenti etruschi:
Fig. 2 – Particolare di un Cratere con volute, eponimo del pittore di Alcesti, da Vulci 350 a.C.
Fig. 3 – Tomba degli Anina, Tarquinia, III sec. a.C.
Fig. 4 – Particolare di un Cratere a calice, Pittore di Turmuca 330-300 a.C. da Vulci.
Fig. 5 – Tomba François di Vulci, seconda metà del IV sec. a.C.
Si veda pure il vaso del pittore di Vanth, Orvieto, Charun col martello (in M. Pallottnio, Etruscologia, Milano 1984, VII ediz., tav. LXXII a).
D’altra parte ritengo di aver fatto di recente un altro importante ritrovamento che avvalora grandemente la mia tesi della connessione tra i Sardiani o Protosardi e gli Etruschi: nella scena che risulta incisa in uno specchio etrusco di Perugia risultano figurati quattro personaggi mitologici, Atalanta, Meleagro, Atropo e Turan (Venere) (ET, Pe S 12). Atropo (= «l’Inflessibile», etr. Athrpa) era una delle tre Parche e precisamente quella che tagliava il filo della vita, cioè decideva e determinava la morte di un individuo. Ebbene Atropo nella scena dello specchio etrusco tiene con la mano destra un martello, nella esatta maniera dunque della accabbadora sarda, che determinava la morte di un individuo con un martello! (Fig. 6):
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S’impone adesso un altro problema: perché la scelta del martello come strumento con cui dare la morte? Certamente perché questo era lo strumento più immediato e inoltre non era cruento, ma quasi certamente nella scelta entrava pure un’altra motivazione.
In proposito è da citare l’usanza che avevano gli Etruschi di infiggere – ovviamente con un martello – un chiodo nella parete del tempio della dea Northia, presso Orvieto, per indicare il passare degli anni. Questa usanza ha un notevole peso dimostrativo in ordine alla vecchia disputa sulla “origine degli Etruschi”: provenivano essi dalla Lidia, nell’Asia Minore, come dice Erodoto e con lui altri 30 autori, greci e latini, oppure erano autoctoni dell’Italia, come dice il solo Dionigi di Alicarnasso? Ebbene, anche l’usanza degli Etruschi dell’affissione del chiodo annuale costituisce una forte prova a favore della tesi erodotea: il contare gli anni, infatti, implicava necessariamente un terminus a quo, ossia una data di inizio e questa era quasi sicuramente quella dell’arrivo degli Etruschi dalla Lidia in Italia. Se gli Etruschi fossero stati presenti in Italia ab origine, non avrebbe avuto alcun senso iniziare a contare il passare degli anni.
E pure in Sardegna restano ancora sia riscontri archeologici sia riferimenti linguistici di quella usanza di iniziare a contare gli anni, a dimostrazione del fatto che pure i Sardiani o Protosardi tenevano a contare gli anni ad iniziare anch’essi dal loro arrivo proprio dalla Lidia. In primo luogo infatti si deve ricordare che «chiodi votivi» sono stati trovati sia nel santuario nuragico di Santa Vittoria di Serri sia nelle rovine di Nora. In secondo luogo esiste tuttora nella Sardegna interna la locuzione pònnere unu cravu in su muru = «mettere un chiodo nel muro» per significare sia la chiusura definitiva di una questione, sia un avvenimento eccezionale. Anche i Sardi dunque conservavano la memoria storica della data del loro arrivo nell’Isola (cfr. M. Pittau, Storia dei Sardi Nuragici cit. pag 275) e tutto questo costituisce una chiara e forte prova a favore della tesi, che sto sostenendo da circa 30 anni, della parentela fra i Protosardi e gli Etruschi.
Se ne deduce pure che sia per gli Etruschi che per i Protosardi affiggere un chiodo con un martello significava dichiarare chiuso un anno, dichiarare chiusa una questione, dichiarare la fine e la morte di un individuo. Ecco dunque quale poteva essere la funzione simbolica di un martello, sia quella di affiggere un chiodo per dichiarare chiuso un anno, sia quella di porre termine alla vita di un uomo.
E non basta, ma cito un’altra usanza, questa moderna anzi attuale, che è tipica di popoli all’avanguardia nel progresso umano, giuridico e sociale: l’usanza dei popoli Anglo-Sassoni, nella sede dei tribunali, del Giudice che dichiara chiusa una causa dando un colpo di martello di legno ad un supporto pur’esso di legno. Non solo, ma questa usanza esiste quasi dappertutto pure nelle aste pubbliche, per dichiarare che l’ultima offerta è quella “definitiva” e che la questione della vendita di un oggetto è finita!
Non lo si può negare: nella storia spesso usanze perfino antichissime degli uomini e i simboli relativi dimostrano di avere una continuità e una persistenza che spesso stupisce perfino lo studioso.
Massimo Pittau
Articolo che comparirà nella rivista fiorentina «Il Governo delle Idee», diretta da Gianni Conti.