Nella biografia romanzata scritta nel 1950 da Evelyn Waugh la leggenda delle origini britanne della madre dell’imperatore Costantino
Il sogno della principessa
Una volta, molto tempo fa, prima ancora che fosse dato un nome ai fiori che palpitavano e fremevano sotto le mura battute dalla pioggia, a un’alta finestra erano seduti una principessa e uno schiavo intento a leggere una storia già allora antica; o piuttosto, per essere più prosaici, nel piovoso pomeriggio delle None di maggio dell’anno di grazia (come poi venne computato) 273, nella città di Colchester, la fulva Elena, ultima figlia di Coel, Grande Capo dei Trinovantes, stava a guardare la pioggia mentre il suo maestro leggeva l’Iliade di Omero in parafrasi latina.
Visti in quella rientranza della fortezza potevano dare l’impressione di una coppia stranamente assortita. La principessa era più alta e snella di quanto fosse conforme al gusto dominante; i suoi capelli, che al sole talvolta erano d’oro, più spesso nella sua nebbiosa patria sembravano di rame scuro; gli occhi avevano quella melanconia – insieme risentita, astratta, ma non senza una venatura di sacro rispetto – tipica dei ragazzi britannici alle prese con i classici. Durante brevi periodi dei successivi diciassette secoli la sua sarebbe stata giudicata bellezza; essendo nata troppo presto qui a Colchester, tra la sua gente, era considerata né bella né brutta.
Il suo precettore certamente non la guardava con simpatia, perché emblema della sua condizione subalterna e insieme oggetto quotidiano dell’impegno che gli rendeva ostica tale condizione. Si chiamava Marzias, ed era allora nel pieno della sua virilità apparente: pelle olivastra, barba nera, naso a becco e sguardo nostalgico ne denunciavano l’origine esotica; d’inverno e d’estate la sua tosse catarro protestava contro l’esilio. La sua consolazione erano i giorni di caccia, quando la principessa stava via dall’alba al tramonto e lui, padrone incontrastato dello studio, poteva scrivere le lettere che erano la sua vita: eleganti, esoteriche, speculative, rapsodiche, viaggiavano per il mondo dalla Spagna alla Bitinia, da retori indipendenti a poeti piaggiatori. Facevano parlare di sé, e Coel aveva ricevuto più di una offerta per l’acquisto dell’autore. Faceva parte della nuova generazione di intellettuali, ma il destino l’aveva sbattuto qua, fra le piogge e le correnti d’aria, proprietà di un reuccio locale buontempone, compagno quotidiano di un’adolescente. Non c’era niente di scorretto in ciò, perché da ragazzo una precoce, fuggevole passione per il balletto, aveva fatto destinare Marzias al mercato orientale, e il chirurgo lo aveva debitamente potato.
“Ed Elena dalle bianche braccia, bella tra le donne, lasciò cadere una turgida lacrima e si velò il volto con bisso lucente; ed Etre, figlia di Piteo e la boopide Climene l’accompagnarono alle porte Scee. Cosa credi, che legga per divertirmi?”.
“Sono solo i pescatori”, disse Elena, “che tornano dal mare per la festa di stasera. Ci sono cesti interi di ostriche. Scusa; va’ avanti con la boopide Climene”.
“E Priamo, seduto tra gli anziani della corte, disse: Non meraviglia che Troiani e Greci si battano per la principessa Elena. Ella spira l’aura dell’alto Olimpo. Siedi, figlia cara; questa guerra non è tua, ma degli Immortali””.
“Priamo era una specie di nostro parente, sai”.
“L’ho sentito dire spesso da tuo padre”.
Da quella stanza riparata nelle giornate limpide si vedeva il mare, ma ora la distanza si perdeva nella nebbia che sotto gli occhi di Elena veniva rapidamente coprendo pascoli paludi, ville e capanne, e le terme dove erano appena entrati il comandante di Distretto e il suo nuovo ospite, fino a riempire il fossato e a lambire le mura sotto di lei; in giorni come quello, pensò Elena, non per la prima volta – c’erano state spesso giornate simili nella sua luminosa primavera – in giorni come quello la città collinare, appena poco più alta delle paludi, sembrava appollaiata sulle nubi fra gli alti venti montani, coi tozzi bastioni sospesi su un baratro sconfinato; e mentre con una parte della mente udiva la voce dietro a lei – “Poiché non sapeva che quelli, i gemelli suoi fratelli, giacevano a Sparta, la loro patria, sotto l’alma terra” – quasi si aspettava di vedere un’aquila librarsi in su dal bianco vuoto sottostante.
Poi la fugace tempesta passò e la nebbia si riaperse, riportandola a distanza di pochi metri dalla terra. Solo la cupola in mattoni delle terme rimaneva scura, racchiusa tra le proprie esalazioni di vapore e fumo. Com’erano vicini al suolo!
“Le mura di Troia erano più alte delle nostre qui a Colchester?”
“Oh si; credo di sì”.
“Molto?”.
“Moltissimo”.
“Tu le hai vedute?”.
“Sono state rase al suolo tanto tempo fa”.
“Non c’è rimasto niente, Marzias? Niente che indichi dove sorgevano?”.
“C’è una città moderna, mèta di tanti turisti. Le guide ti fanno vedere tutto quello che vuoi – la tomba d’Achille, il letto intagliato di Paride, la zampa di legno del grande cavallo. Ma di lei, Troia, non è rimasto nient’altro che la poesia”.
“Non capisco”, disse Elena, sporgendosi a guardare il fianco massiccio della muraglia, “come hanno fatto a distruggere del tutto una città”.
“Il mondo è molto vecchio, Elena, e pieno di rovine. Qui in un paese giovane come la Britannia fai magari fatica a rendertene conto, ma in Oriente ci sono cumuli di sabbia che un tempo erano delle grandi città. Dicono che siano stregate. Perfino le tribù nomadi stanno alla larga per paura dei fantasmi”.
“Io non avrei paura” disse Elena. “Perché non fanno degli scavi? Ci deve essere ancora qualche resto di Troia, nascosto sotto la città dei turisti. Quando avrò finito gli studi ci andrò, a scoprire la vera Troia, quella di Elena”.
“È piena di fantasmi, Elena. I poeti non li hanno mai lasciati dormire in pace, quegli eroi”.
Lo schiavo tornò al manoscritto, ma prima che potesse ricominciare a leggere Elena gli chiese: “Marzias, credi che potrebbero mai distruggere Roma?”.
“Perché no?”.
“Be’, io spero di no; non ancora, almeno. Non prima che riesca ad andare a darci un’occhiata. Sai che in vita mia non ho mai incontrato nessuno che ci sia stato davvero, nella Città?”.
“Dal tempo dei disordini sono pochi quelli che vanno dalla Gallia in Italia”.
“Io un giorno ci andrò. Sai, i prigionieri barbari combattono con gli elefanti in quel teatro colossale. Tu hai mai visto un elefante, Marzias?”.
“No”.
“Sono grossi come sei cavalli”.
“Lo credo anch’io”.
“Un giorno, quando avrò finito gli studi, andrò a vedere tutto coi miei occhi”.
“Bambina mia, nessuno sa dove andrà. Una volta io speravo di andare ad Alessandria. Là ho un amico che non ho mai visto, uno che è un grande sofista. Abbiamo tante cose da dirci, che non si possono scrivere. Il Museo mi doveva comperare. Invece mi hanno mandato nel Nord e a Colonia mi hanno venduto all’immortale Tetrico, e lui mi ha mandato qua come regalo per tuo padre”.
“Forse quando avrò finito gli studi papà ti libererà”.
“Ogni tanto ne parla, dopo cena. Ma cos’è la libertà, a darla e a prenderla? Libertà di fare il soldato e di prendere ordini a destra e a sinistra, per finire ammazzati dai barbari in una palude o in un bosco; libertà di ammassare tanta ricchezza da far gola all’Immortale Imperatore che ti manda il boia a pigliarla? Io ho la mia libertà segreta, Elena. Cosa può darmi di più tuo padre?”.
“Be’, un viaggio ad Alessandria per far visita al tuo amico sofista”.
“La mente umana non è soggetta alla legge. Chissà chi è più libero, se io o l’Immortale Imperatore”.
“Sai, qualche volta penso”, disse Elena, lasciando il precettore salpare libero nell’immenso vuoto del quale aveva fatto la sua gelida casa, “che fosse molto più piacevole essere un Immortale ai tempi di Elena che non adesso. Sai cos’è successo all’Immortale Valeriano? Me l’ha detto papà iersera tutto divertito. L’hanno messo in mostra in Persia, impagliato”.
“Forse”, disse lo schiavo, “siamo tutti immortali”.
“Forse,” disse la principessa, “siamo tutti schiavi”.
“A volte, piccola, fai delle osservazioni straordinariamente intelligenti”.
“Marzias, l’hai visto il nuovo ufficiale di stato maggiore arrivato dalla Gallia? E per lui che papà darà un banchetto stasera”.
“Tutti noi, schiavi… della terra, “l’alma terra”. Adesso si parla di una Via e di una Parola; una Via che purifica, una Parola che illumina. Sento che la cosa fa furore ad Antiochia, dove più di venti autentici savi indiani sono impegnati a insegnare un nuovo modo di respirare”.
“È molto pallido e serio. Scommetto che l’hanno incaricato di qualche missione importante e segretissima”.
(©L’Osservatore Romano – 12 settembre 2010)