Agosto tranquillo, ma non troppo di Paolo Pombeni
Editoriale II Agosto 2010
Agosto è il mese delle ferie anche per la politica, inclusa quella europea: almeno come tendenza generale, perché le eccezioni, come vedremo, non mancano. Del resto in una società dominata dal ruolo dell’informazione c’è da sapere che questa non va mai in vacanza, e che, anzi, c’è una segreta speranza che la gente, meno presa dal vortice degli impegni quotidiani, sia più disponibile a prestare attenzione a dibattiti che altrimenti risulterebbero spesso astrusi. Aggiungiamoci che qualche evento più drammatico o drammatizzabile può sempre infilarsi fra le pieghe delle vacanze e mettere un po’ di pepe nella cronaca politica: come vedremo questo è avvenuto in tre paesi europei, cioè in Italia con la crisi della maggioranza di centro-destra, in Belgio con la difficoltà persistente di trovare un accordo fra le due “nazioni” che formano quel paese, ed infine in Francia con la decisione di Sarkozy di aprire una nuova fase della politica contro l’immigrazione. Nessuno di questi tre avvenimenti chiama veramente in causa la UE, a parte forse marginalmente alcuni aspetti della azione del presidente francese, ma ormai anche le questioni interne hanno riflessi più o meno grandi sulla politica di Bruxelles, segno indiretto che dall’Europa è difficile prescindere. La crisi politica italiana indebolisce ulteriormente uno stato che ha avuto la sua importanza come fondatore del sistema europeo, anche se magari nel meccanismo di concorrenza spietata che domina l’attuale fase politica questo può non dispiacere del tutto.
Sta di fatto che il governo di Roma, già afflitto da cattiva stampa in buona parte dell’opinione pubblica europea, deve fronteggiare un aggravarsi dell’impressione che abbia una leadership appannata, con la conseguenza di credere che sia più facile tenerlo ancor più al margine nelle decisioni importanti della ristrutturazione: si veda il peso molto scarso che Roma ha avuto nella distribuzione degli incarichi per il nuovo servizio diplomatico, dove la quadriga vincente è data da Francia, Germania, Gran Bretagna e Polonia.
Il Belgio invece è un paese chiave perché ospita la sede della UE. Per quanto i due ambiti siano separati e il suo peso come nazione nell’ambito comunitario non sia eccessivo, non è un segno molto positivo che mentre si vorrebbe costruire una “integrazione” a livello europeo, si vada a “disintegrare” una nazione che ha comunque poco meno di due secoli di storia e che è stato anch’esso uno dei primi partner nella costruzione dell’Europa. Il problema della politica di Sarkozy sui rom e sull’immigrazione in generale è ben più complesso. Da un lato è una questione strettamente “interna”, ma dall’altro chiama in causa due fronti della politica comunitaria: il primo in positivo, perché i rom girano liberamente in Europa perché Romania e Bulgaria, le loro terre di insediamento storico, sono state fatte entrare, un po’ frettolosamente, nella UE; il secondo in negativo, poiché ha a che fare con l’immagine della UE come ente promotore e garante dei diritti umani, della tolleranza e dell’accoglienza (per la verità una leggenda romantica, fiorita in un continente che per lungo tempo non aveva più conosciuto immigrazioni stabili massicce, soprattutto di popolazioni in condizioni “culturali” di forte alterità). La stampa non è stata tenera col presidente francese accusato di essersi lanciato in politiche di espulsione e di repressione per riconquistare una popolarità perduta (e molti giornali europei non hanno mancato di fare paragoni, per la verità non completamente esatti, con la politica verso i rom del governo di centro-destra in Italia a riprova di quel che scrivevamo sopra). Quel che però si ammette solo a mezza voce è che il problema dell’immigrazione e degli squilibri che comporta nelle società europee che ne sono toccate è reale, e che, se si condivide la ripulsa alla pura via repressiva, non è così facile trovare un’alternativa che funzioni, senza dimenticare che continuiamo ad avere davanti la questione aperta dell’ingresso di altre aree di potenziale immigrazione non regolata, come quella balcanica o la sempiterna questione turca. Ciò che colpisce nel modo con cui la stampa tratta dei problemi europei (questi ed altri su cui verremo tra breve) è che c’è più la tendenza a segnalarli e magari denunciarli che non ad aprire dibattiti costruttivi sul come affrontarli. Certo alcuni temi sono piuttosto complessi. Possiamo capire che, per esempio, la questione della cosiddetta “imposta europea” non sia semplice da spiegare ai normali lettori. In sostanza si tratta delle difficoltà di bilancio che incontra la UE a livello di sistema di governance perché dipende interamente dai contributi degli stati membri, i quali, viste le difficoltà economiche che attraversano, sono poco disponibili ad incrementare i loro versamenti. Così al commissario per il bilancio Janusz Lewandowski è venuta l’idea di proporre una “tassa europea”: come gli stati nazionali si finanziano col prelievo fiscale sulle ricchezze dei loro cittadini, così dovrebbe fare anche la UE con l’introduzione di una tassazione specifica. I cittadini della UE saprebbero così quanto ciascuno contribuisce per la propria inserzione in Europa e la commissione non spenderebbe i soldi avuti dai governi dei paesi membri, ma soldi in qualche misura “propri”. La proposta ha sollevato discussioni per ora rimaste a livello di specialisti e di europeisti militanti. Si obietta che di questi tempi è difficile far accettare aumenti di tasse (ma non sarebbero aumenti, visto che questi soldi essi già li versano nelle casse del loro paese che poi li gira alla UE) e comunque non sarebbe facile giustificare all’opinione pubblica in generale il costo di un apparato che viene ancora considerato elefantiaco, iper-burocratico e super-pagato. Non è difficile immaginare che su questi temi i vari populismi si scatenerebbero con un danno di credibilità per tutto il sistema europeo. D’altro lato però si fa notare che il parlamento europeo a norma del Trattato di Lisbona ha molti più poteri in materia di bilancio e potrebbe cercare di imporsi sulla scarsa volontà del Consiglio Europeo, cioè dei governi nazionali, di allargare i cordoni della borsa, aprendo un conflitto istituzionale che certo non rafforzerebbe l’Unione. A Bruxelles si muovono con cautela su questo terreno certamente importante, consapevoli delle contraddizioni che contiene: per esempio le difficoltà di toccare le sovvenzioni all’agricoltura che incidono per il 45% sul bilancio comunitario e sono oggi scarsamente giustificate, ma che costituiscono in molti paesi un feudo politico assai redditizio a cui non si vuole rinunciare. Questo è però un tema cruciale e non lo si potrà confinare nel consueto recinto dei “dibattiti di agosto” destinati a svanire coll’estate che se ne va.