La promotrice della professione infermieristica di Isabella Farinelli
Cento anni fa moriva Florence Nightingale, l’infermiera che portò in Crimea professionalità e carità
Quella lampada accesa da passione e ragione
Divenne subito immagine simbolo, dalle colonne del “Times” ai versi di Longfellow su santa Filomena: una donna che si aggira con il lume in un ricovero di guerra alla ricerca di esseri umani, e non nel senso concettuale che si usa attribuire al Diogene apocrifo, se l’onda di gratitudine fu tale da generare un’altra icona, quella del ferito che, dopo il benefico passaggio, bacia la sua ombra.
Un gesto in assonanza con la famosa rosa di Maroncelli: tanto più che, per Florence Nightingale, Silvio Pellico fu una lettura precocissima, e Le mie prigioni, con i suoi protagonisti, è un suo esplicito riferimento in età matura, quando afferma che “avrebbe dato volentieri la vita pur di risparmiare anche a uno solo di loro un giorno di sofferenza”. Lo si scopre dal carteggio curato da Lynn McDonald in Canada per Wilfried Laurier University Press (An Introduction to Her Life and Family, 2001; European Travels, 2004) nel quadro di un monumentale progetto di Collected Works ancora in corso.
I dati biografici di Florence sono noti, ma appaiono tutt’altro che scontati la complessità della sua formazione, il significato della sua ricerca esistenziale e la portata pedagogica del suo pensiero e, indiscutibilmente, della sua azione.
Nasceva il 12 maggio 1820 a Firenze, nella villa La Colombaia, dove qualcuno bussa ancora, per cercarla, alle suore Adoratrici del sangue di Cristo, che vivono lì ormai da decenni. I genitori, famiglia britannica agiata e di ampie vedute, le attribuirono il nome della città in cui vide la luce, come era già accaduto con la prima figlia, Parthenope, nata a Napoli. Crescendo e ricevendo un’istruzione di prim’ordine (francese, italiano e tedesco; greco e latino, e relative letterature), anche grazie a tali stimoli la giovane Florence è insofferente all’idea di una vita infruttuosa e al matrimonio come perpetuarsi di convenzioni, ripetendo spesso, sin dai diciassette anni, di aver udito una chiamata divina che la spinge a occuparsi attivamente di malati e indigenti.
Dopo i tentativi di impegnarsi al Salisbury Infirmary e altrove, contrastati dalla famiglia – che comunque negli anni le rimarrà vicina – trasforma i numerosi viaggi all’estero in occasioni di conoscenza delle condizioni sociali e delle istituzioni assistenziali, da Roma alle antiche città egizie, dove la sua vena mistica viene particolarmente stimolata. Essenziali la visita e il tirocinio a Kaiserswerth, presso Düsseldorf, dove nel 1836 il pastore Theodor Fliedner aveva fondato con la moglie Caroline un complesso ospedaliero con orfanotrofio e scuola gestito da personale femminile.
Tra il 1851 e il 1854 Florence completò l’esperienza visitando ospedali ovunque potesse e annotando – i suoi scritti, corredati di grafici e statistiche, sono numerosissimi – modalità di assistenza ai pazienti e disposizione di edifici e stanze, norme igieniche, ricambio d’aria e condizioni di luce.
La svolta fu la guerra cosiddetta di Crimea, che nel 1854 coinvolse l’intera Europa. La preoccupazione dell’opinione pubblica inglese per le condizioni dei combattenti consentì a Sidney Herbert, segretario di Stato per la guerra, di nominare Florence Nightingale – già a lui nota – a dirigere un gruppo di infermiere assegnate all’ospedale militare di Scutari.
Il resto è storia: anzi, la guerra di Crimea viene ricordata, a livello popolare, per la presenza di Florence e delle sue nurses in luoghi dove si moriva molto più per le spaventose condizioni ambientali che per le azioni belliche. Si commenta da sola la citazione che introduce oggi la visita virtuale al londinese Florence Nightingale Museum: “Può sembrare strana come prima regola in un ospedale: non fare del male al malato”. Al ritorno la Nightingale, che secondo il suo stile aveva combinato l’attività assistenziale – ivi incluse biancheria, lavanderia, posta, organizzazione del tempo libero – alle osservazioni sul campo, spese il prestigio acquisito per promuovere schemi educativi atti a elevare lo stato morale e materiale di operatori e pazienti, sia attraverso gli organismi governativi – pur rimanendo nelle retrovie anche per i problemi di salute contratti a Scutari – sia seguendo progetti concreti di formazione. La sua scuola presso il Saint Thomas Hospital di Londra – dove dagli anni Ottanta del Novecento è allestito il Museo – decollò faticosamente ma, nel giro di pochi decenni, diffuse capillarmente il suo modello infermieristico professionale in Europa, Australia, Canada, India e Stati Uniti, sostenuta dal Nightingale Fund nato e cresciuto soprattutto grazie al cugino Henry Bonham-Carter.
Gli interessi attivi di Florence continuarono a estendersi dalla scuola del villaggio alle condizioni dei bambini delle colonie, ai quali temeva fosse fatale l’applicazione dei modelli sedentari occidentali.
Morì a Londra il 13 agosto 1910, chiedendo che la sepoltura avvenisse nella sobrietà. Firenze, la città natale, le ha dedicato in quest’anno centenario la Giornata internazionale dell’infermiere, significativamente coincidente con il giorno del suo compleanno, il 12 maggio; nel parco di villa Pepi, storica sede della formazione infermieristica fiorentina, una targa ricordo è stata apposta sotto la sua statua che riproduce l’opera di Francis William Sargant presente nel chiostro di Santa Croce, ove il tema della lampada sempre accesa associa l’iconografia delle vergini evangeliche.
Una lettura a tutto tondo del fenomeno Nightingale, ad alta densità pedagogica, è quella di Alex Attewell, già curatore del Museo londinese, in “Prospects”, rivista dell’Unesco (marzo 1998). Più spietato il versante letterario, per una specie di ipercorrettismo.Nel romanzo La signora della lampada (traduzione di Giuliano Corà, Vicenza, Neri Pozza, 2010, pagine 212, euro 15) Gilbert Sinoué ripercorre, con rispettabile fondamento bibliografico oltre al consueto apparato visionario, la biografia di Nightingale a ritroso. Attraverso i testimoni in vita nel 1910, il narratore immagina di trarre dalla sua “lampada turca” luci e ombre. Sui presunti lati oscuri della biografia punta invece decisamente Giles Lytton Strachey (Eminent Victorians, uscito nel 1918, oggi da Rizzoli con traduzione di Maria Teresa Pieraccini) liquidando con disinvoltura la vocazione di Florence salvo ammettere, quasi tra parentesi, i risultati oggettivamente conseguiti.
In positivo o in negativo, chi pone al centro il mito – contro i cui rischi Nightingale combatté più d’una battaglia – tende a eclissare la reale ricchezza della sua personalità, singolare impasto di passione e razionalità, e a trascurare un campo d’indagine aperto: ad esempio i legami con il più ampio, e tutt’altro che inesistente, contesto assistenziale, particolarmente attivo in ambito religioso, o l’influsso di Florence e della sua scuola sulla nascente organizzazione della Croce Rossa.
Un recente articolo di Julia Boyd in “Lancet” (maggio 2009) riesamina l’amicizia dialettica tra Florence e la coetanea Elizabeth Blackwell, pioniera della medicina al femminile, aprendo uno squarcio sulla situazione statunitense e chiarendo la sostanza delle posizioni tenacemente riformatrici di Nightingale, che implicavano non singoli episodi ma una messa a fuoco identitaria e una seria formazione permanente, dove idea, prassi e progetto si intrecciassero in un tutt’uno che poteva arrivare lontano. “Il valore umanistico della medicina non è solo un’istanza morale, ma significa affermarne il valore conoscitivo e pratico in tutta la sua pienezza” ribadisce oggi Giorgio Israel (Per una medicina umanistica, Apologia di una medicina che curi i malati come persone, Torino, Lindau, 2010, pagine 97, euro 12).
Destinando le Notes on Nursing (Londra 1860) non tanto alle infermiere ma a quante debbono prendersi cura di qualcuno in famiglia, Florence premette un’affermazione che, per l’etimologia dal latino del verbo nutrire, va citata in originale: Every woman is a nurse. Si provi a leggere in parallelo il Progetto di una formazione di infermiere di prima linea di Simone Weil (traduzione di Giancarlo Gaeta, Milano, SE, 1994): la presenza femminile disarmata al cuore della battaglia veniva proposta non solo a fini di assistenza e di prossimità morale, ma soprattutto come l’unica potenza simbolica in grado di “colpire l’immaginazione più di quanto non abbiano fatto fin qui i diversi procedimenti inventati da Hitler”.
(©L’Osservatore Romano – 13 agosto 2010)
Nota. Alla guerra di Crimea come è noto parteciparono 15.000 soldati del Regno sardo-piemontese (1853-56) e per il soccorso agl’infermi nei campi di battaglia furono inviate anche le Figlie della Carità della provincia torinese. Le stesse suore giunsero in Sardegna per curare i colpiti da spagnola a Cagliari nel 1855 a Sassari nel 1856.