San Lorenzo, l’arcidiacono nella graticola di Antonio Filipazzi
Gli anni centrali del terzo secolo furono attraversati da una crisi economica, sociale, militare, tanto da diffondere una condizione di angoscia e di tensione, che caratterizzò anche e soprattutto la popolazione dell’Urbe. La peste, le catastrofi naturali, la pressione dei barbari sul Danubio e in Oriente, diffusero una forma di paura, di millenarismo apocalittico, ma anche di odio nei confronti dei cristiani che, rinnegando gli dèi della tradizione, avrebbero attirato su tutti la maledizione. La fame, il terrore, l’ansia e la depressione generalizzata crearono il clima per una persecuzione, alimentando quel rimedio irrazionale del “sacrificio espiatorio” che avrebbe placato le ire degli dèi. La paura e la superstizione alimentarono una “caccia alle streghe”, che individuò i cristiani come i veri responsabili della crisi dell’Impero. Dopo alcuni provvedimenti presi da Decio (249-251), venne il tempo di Valeriano (253-260), la cui famiglia vantava origini etrusche e risultava, dunque, legata alla grande tradizione religiosa pagana, senza contare che si stava diffondendo, proprio in quegli anni, la paura della “cristianizzazione” delle classi dirigenti, avviata già negli anni della tolleranza inaugurata dalla dinastia severiana e alimentata dalla forte opposizione senatoria, che promuoveva una severa e assoluta “laicizzazione” dell’impero.
Secondo le fonti – da Dionigi di Alessandria (Eusebio, Historia Ecclesiastica, 7, 10, 3) a Commodiano (Carmen Apologeticum, 82) – gli esordi dell’impero di Valeriano furono segnati da un atteggiamento di assoluta tolleranza, tanto che la sua dimora era piena di cristiani e poteva essere addirittura considerata una “chiesa di Dio”. Ma di lì a poco, anche Valeriano, come Decio, ebbe un improvviso mutamento di rotta e cominciò a temere che i cristiani conquistassero i posti chiave dell’Impero. Fu così che, con due successivi editti, nel 257 e nel 258, Valeriano, mentre Gallieno era impegnato in Occidente contro i barbari, colpì al cuore il cristianesimo, ordinando la chiusura delle chiese, la confisca dei cimiteri e delle altre sedi di ritrovo, l’esilio in luoghi sorvegliati dei vescovi, dei sacerdoti, dei diaconi, con la minaccia di morte nei confronti di tutti coloro che contravvenissero a questa disposizione.
Nel 258 la persecuzione diviene più feroce e mirata. Si dispose di uccidere, dopo la semplice identificazione e senza alcun processo, tutti gli ecclesiastici, in quanto si riteneva che non fosse più il tempo della integrazione e che, anzi, se si voleva colpire il cristianesimo, occorreva annientarlo come Chiesa, in tutti i suoi gradi e specialmente nei vertici, così come era determinante confiscare le proprietà e i luoghi della liturgia e della sepoltura.
Protagonisti famosi di questi provvedimenti furono – come è noto – Cipriano di Cartagine, Dionigi di Alessandria e Sisto ii vescovo di Roma. Quest’ultimo fu trucidato insieme a quattro diaconi il 6 agosto del 258. Cipriano ricorda le circostanze drammatiche dell’eccidio, di cui aveva appreso la dinamica dai suoi chierici presenti a Roma in quel momento: “Xystum autem in coemeterio animadversum sciatis VIII idus Augustus die et cum eo diacones quattuor” (Epistula, 80). I fatti, testimoniati anche dalla Depositio martyrum, dalla Depositio episcoporum e dal Martirologio Geronimiano sono rievocati anche da Papa Damaso (366-384), che in un celebre epigramma (Epigrammata damasiana, 17), sistemato presso la tomba di Sisto ii, ricorda come il Pontefice fu sorpreso dai soldati proprio mentre celebrava nel cimitero di San Callisto. Con lui, come si arguisce da un secondo epigramma, recuperato da Giovanni Battista de Rossi nella cripta dei Papi, furono uccisi anche gli altri appartenenti alla gerarchia ecclesiastica romana (ibidem, 16): “Hic comites Xysti portant qui ex hoste trophaea” e, probabilmente, i quattro diaconi, a cui, nel Liber Pontificalis sono aggiunti anche Felicissimo e Agapito, sepolti nel cimitero di Pretestato: “Capite truncatus est, et cum eo alii sex diaconi, Felicissimus et Agapitus, Ianuarius, Magnus, Vincentius et Stephanus” (LP i, 155).
Qualche giorno dopo, nell’ambito degli stessi provvedimenti, il 10 agosto, secondo la Depositio martyrum e il martirologio geronimiano fu ucciso anche l’arcidiacono Lorenzo, deposto nel cimitero di Ciriaca sulla via Tiburtina, secondo anche quanto riferiscono i Padri della Chiesa, che recuperano un’affabulazione leggendaria che ne descrive il martirio sulla graticola, dopo aver distribuito i suoi averi ai poveri. Attorno alla sua figura – come si diceva – nacque presto una storia inserita nella passio Polichronii, secondo la quale Lorenzo era, appunto, arcidiacono di Sisto ii; mentre il Papa era condotto al martirio, egli si rammaricò di non poter seguire la sorte del Pontefice, tanto che costrinse i carnefici a promettergli che dopo tre giorni avrebbe ottenuto anche lui la palma della vittoria.
Al di là della affabulazione leggendaria, la storicità del martire Lorenzo è attestata dai monumenti, che si sono stratificati sulla via Tiburtina presso l’agro del Verano. Qui Costantino fece costruire una sontuosa basilica circiforme, le cui fondamenta sono state intercettate durante il secondo conflitto mondiale. La grande basilica – come testimonia il Liber Pontificalis nella biografia di Papa Silvestro (LP i, p. 181) – era leggermente spostata verso sud rispetto alla tomba del martire, alla quale, sistemata in una cripta, si giungeva attraverso gradus ascensionis et descensionis. Dinanzi alla tomba, sempre secondo il Liber Pontificalis, furono sistemati alcuni preziosi elementi di illuminazione, donati dallo stesso Costantino, istoriati con le scene salienti della passione del martire a cui dedicherà uno splendido inno anche il poeta iberico Prudenzio, alla fine del iv secolo (Peristephanon, 2).
Tra il 579 e il 590, Papa Pelagio II edificò una basilica ad corpus tagliando la collina sovrastante, sacrificando una porzione delle catacombe di Ciriaca e creando una aula semipogea. Ma, al tempo di Papa Onorio (1216-1217), si rivide la costruzione pelagiana invertendo l’orientamento della basilica, che divenne il presbiterio del nuovo edificio di culto.
La devozione per l’arcidiacono romano nacque assai precocemente e, se escludiamo la rappresentazione del suo martirio nella medaglia di Sucessa, considerata un falso settecentesco, che imita il bel mosaico del mausoleo ravennate di Galla Placidia, dobbiamo rilevare che le figurazioni del martire ci offrono l’immagine di un giovane, con o senza tonsura, spesso imberbe, ma anche barbato. Egli porta – come Pietro – la croce del martirio sulle spalle, il libro, segno del suo stato diaconale, mentre, come si diceva, talora appare anche la graticola quale influenza della passio che narra la sua fine cruenta.
Nel v secolo appare, con la croce e il libro, in un affresco della catacomba di San Senatore ad Albano, dove compare per la prima volta in occidente anche la stola diaconale. Negli stessi anni, o poco più tardi, l’immagine di Lorenzo si inserisce in una teoria affrescata nelle catacombe di San Gennaro a Napoli, recando la corona del martirio, insieme a Pietro, Paolo e lo stesso Gennaro. La più antica rappresentazione legata alla fine atroce sulla graticola va riferita – come si è anticipato – alla decorazione musiva di una lunetta del cosiddetto mausoleo di Galla Placidia, dove il martire appare in tutta la sua irruenza presso una sorta di tabernacolo aperto che contiene i vangeli e una grande graticola dove ardono vivaci le fiamme pronte per il vivicomburium.
Se l’immagine si diffonde anche nelle arti minori e, segnatamente, nei vetri dorati, la rappresentazione più maestosa, solenne e vivace risulta quella inserita nell’arco absidale della basilica pelagiana, ancora fortunatamente conservata. Qui, su uno splendido fondo aureo, si sviluppa un ricco mosaico che vede come protagonista un Cristo barbato assiso sul globo terrestre e vestito della porpora imperiale. Con la destra egli sostiene la croce, mentre con la sinistra propone il largo gesto dell’adlocutio, secondo il cerimoniale imperiale, ma anche del docente e del maestro di vita. Alla sua sinistra Lorenzo è riconoscibile dalla croce e dal libro aperto che sostiene, mentre il Pontefice Pelagio mostra enfaticamente il modellino della chiesa tiburtina. A destra sono sistemati il protomartire Stefano ed Ippolito, sepolto nella stessa via.
La convergenza delle testimonianze agiografiche, archeologiche, architettoniche e iconografiche ci parla di un culto ininterrotto per l’arcidiacono Lorenzo che, dal momento paleocristiano, attraversa i secoli, passando per la stagione bizantina e il medioevo e raggiungendo i nostri giorni, se il complesso tiburtino e la memoria del martire romano risultano ancora oggi centri di attrazione della devozione romana, ma anche dei pellegrini cristiani di tutto il mondo.
(©L’Osservatore Romano – 9-10 agosto 2010)