Istruzione popolare in Sardegna (1859-1911)
Angelino Tedde
Uno degli obiettivi che gli storici della scuola si vanno proponendo è quello di tentare di ricostruire una storia della scuola e della scuola popolare in genere come parte della storia della vita sociale e dei processi di ammodernamento civile e culturale del paese nel complesso periodo che precede e che segue l’Unità d’Italia, utilizzando anche le fonti località.
Nell’approccio al tentativo di ricostruire la storia della scuola popolare in Sardegna nell’Otto e nel Novecento si è tenuto conto di questa direttrice di ricerca e di quanto proficuamente prodotto da studiosi di vari contesti locali della Penisola.
Nella ricostruzione del processo di alfabetizzazione, portato avanti attraverso la scuola normale (1824-1848) prima e quella elementare poi nei singoli comuni sardi, data l’autonomia ad essi conferita dal legislatore, si è scelto di esaminare lo sviluppo della scuola popolare, partendo dall’azione svolta dagli amministratori delle comuni prima e dei comuni poi così come emerge dagli stati attuativi e dai verbali dei consigli e delle giunte comunali che assumono una particolare suggestione in quanto documentano il tentativo delle comunità locali di gestire lo sviluppo della scuola popolare in armonia con tutti gli altri processi di sviluppo civile.
Le alterne vicende della scuola popolare si correlano con la storia della classe dirigente comunale e della sua formazione, con la storia dello sviluppo urbano e dell’economia del territorio comunale, con la storia dell’igiene e della pubblica sicurezza, con quella dei servizi rivolti all’identificazione dei cittadini, dei loro bisogni e del loro reddito, dell’economia nei suoi vari settori, infine, del generale tenore di vita.
Anche la storia della chiesa locale e dei suoi operatori costituisce un importante segmento della vita delle comunità locali. Aggiungerei per ultima, ma non ultima, la storia e la tradizione della stessa cultura orale dei diversi contesti comunitari.
Le fonti locali ci forniscono dunque non solo la lettera, ma anche il senso dello sviluppo economico, istituzionale e sociale impresso dalla classe dirigente delle varie comunità nell’ambito delle loro autonomie e della capacità di usare ed eventualmente abusare di queste rispetto alle politiche nazionali.
Prime esperienze di autonomie locali e politiche centrali nella scuola normale delle comuni sarde sotto Carlo Felice (1824-1847).
La Sardegna aveva collaudato sotto Carlo Felice fin dal 1824 un’esperienza di scuola popolare relativamente autonoma, detta scuola normale, della durata di tre anni, diffusa capillarmente in tutto il territorio insulare, controllata dai parroci, con precettori ecclesiastici e laici in analogia a quanto disposto alcuni anni prima negli stati di terraferma. Ho detto relativamente autonoma, considerando che tutti gli oneri ricadevano sulle comuni, mentre le direttive sull’educazione, sull’istruzione, sui contenuti dei programmi, sulla metodologia didattica con il relativo manuale, provenivano dal centro del potere regio.
Per il suo buon andamento erano coinvolti il segretario di stato per gli affari di Sardegna in Torino, il vicerè, i collegiali magistrati sopra gli studi delle due università sarde, i sovrintendenti provinciali, i vescovi, i parroci, i sindaci. Ognuno con le sue funzioni specifiche: il re come fonte legislativa, il vicerè come fonte esecutiva, il magistrato sopra gli studi per il controllo didattico, il sindaco per il reperimento dei finanziamenti, degli stipendi dei maestri e delle altre spese per il buon funzionamento della scuola, il vescovo per il controllo sui parroci, questi per la sovrintendenza didattica, i viceparroci o i religiosi regolari, o anche dei laici, per l’insegnamento, i padri di famiglia con l’obbligo di inviare i figli a scuola. Sta di fatto che nei centri in cui il sindaco e il parroco soprattutto, in qualità di sovrintendenti locali, il primo per i finanziamenti il secondo per la didattica, si prendevano a cuore l’istituzione della scuola, questa funzionava regolarmente con beneficio degli scolari della comune, se costoro invece erano negligenti anche i precettori si comportavano in modo irresponsabile.
D’altra parte i modelli tradizionali della cultura orale, in un’economia agro-pastorale, di mera sussistenza, non si potevano sradicare con l’emanazione di normative che per diventare costume richiedevano periodi di lunga durata e soprattutto in un contesto economico in cui leggere e scrivere servisse per la vita quotidiana, dal momento che il far di conto e la pratica agraria faceva parte della cultura orale tradizionale ben prima del catechismo della dottrina cristiana e del catechismo agrario.
Ecco a proposito alcuni esempi di varia alfabetizzazione nell’isola: a Ploaghe (SS), 3300 abitanti, nel 1824, il sovrintendente rettore Salvatore Cossu, uomo di chiesa e di lettere, curava con la massima diligenza la scuola normale, la cui sede era nell’Oratorio di San Filippo, presso cui un frate cappuccino impartiva le lezioni agli oltre 68 scolari, 2,06% della popolazione, per due ore mezzo al mattino ed altrettante al pomeriggio; a La Maddalena, (Ozieri), 1758 abitanti, nel 1827, il parroco operava con la stessa cura, e il sacerdote Francesco Bidali impartiva ai 119 scolari, il 6,76% della popolazione regolari lezioni al mattino e al pomeriggio; a Cuglieri 2800 abitanti, nel 1824, un religioso cappuccino impartiva le lezioni a 55 scolari, l’1,96% della popolazione; a San Vito (Lanusei) 2409 abitanti, nel 1824, Giovannantonio Sestu, scrivente, impartiva le lezioni nell’oratorio di Sant’Antonio a 40 scolari, 1,66% della popolazione; a Paulilatino, 2361 abitanti, nel 1827, Francesco Schirru, sacerdote, impartiva le lezioni nell’oratorio di San Giovanni a 49 scolari, 2,07% della popolazione: a Seui (Isili) 1730 abitanti, nel 1826, il maestro Francesco Piras, suddiacono, impartiva le lezioni presso una casa in locazione a 24 scolari, 1,38% della popolazione; a Nuoro 4000 abitanti, nel 1827, il maestro Michele Mingioni, sacerdote, impartiva le lezioni nella chiesa di San Giovanni a 105 scolari 2,62% della popolazione. A Terranova, invece, il parroco, egli stesso precettore, quando non arrivava puntuale lo stipendio chiudeva la scuola, riaprendola a stipendio ricevuto. In questo caso, a volte, la sovrintendenza interveniva anticipando direttamente lo stipendio, ma se il ritardo si reiterava il parroco intransigente chiudeva i battenti della scuola e non recedeva nemmeno di fronte all’ingiunzione vescovile.
Il laico precettore di Sennori, invece, Giovanni Agostino Sechi, pretendeva di svolgere la triplice funzione di precettore, chirurgo e barraccello, contravvenendo alle disposizioni di legge che lo vietavano e provocando quindi l’intervento del viceré.
Non vi è da meravigliarsi dunque se, a Ploaghe e alla Maddalena, si gettano le basi di una tradizione di proficua scolarizzazione, visibile del resto se si va a guardare le carriere laiche ed ecclesiastiche di giovani di questi centri nei decenni successivi e gli stessi dati statistici di fine Ottocento.
In questo periodo, 1824-1848, le superiori autorità centrali, per un costante controllo dello sviluppo di questa prima scuola popolare, richiedevano periodici stati attuativi.
Le loro pressioni si facevano sentire in quelle comuni in cui lo scarso interesse degli operatori laici e religiosi per l’alfabetizzazione era denunciata e gl’interventi dei vescovi e degl’intendenti erano inascoltati. Le cahiers de doleances inviati a Torino rivelano una serie infinita di motivi che si accampano per vanificare le direttive regie.
Tra centralismo subalpino e autonomie comunali: il caso di Alghero.
Passando in rassegna il decennio liberaldemocratico del regno costituzionale subalpino 1848-1858, in cui è in vigore la Boncompagni, il centralismo governativo sembra accentuarsi nei confronti della periferia, contrastando le politiche locali più lassiste e imponendo l’osservanza scrupolosa delle direttive centrali.
Gli amministratori comunali di Alghero alla ricerca di consolidare la tradizionale presenza di scuole di ogni ordine e grado, che sicuramente richiamavano nella città scolari e studenti dell’enclave diocesana del centro-Sardegna, scelsero di sostenere in parte le regie scuole di latinità, il corso inferiore e superiore della scuola elementare maschile e femminile, varie iniziative di asili aportiani, la scuola industriale femminile, la scuola serale per adulti e un corso di veterinaria per non menzionare il seminario-convitto che accoglieva alunni della lontana enclave diocesana.
Il Ministero della Pubblica Istruzione, invece, mirava più che all’eccessiva presenza di scuole, al possesso canonico dei titoli da parte degli insegnanti elementari così da garantire l’uniformità dei curricula in tutto il regno, per cui, constatato che nella città si davano incarichi per l’insegnamento del corso superiore della scuola elementare ad insegnanti forniti unicamente di patente inferiore, esigeva che gli amministratori provvedessero a reclutare insegnanti forniti del titolo adeguato e in mancanza di maestri locali patentati, lasciava intendere che li avrebbe inviati da Torino.
Di fronte a questa determinazione ministeriale gli amministratori algheresi manifestarono la loro riluttanza insinuando che il ministero avesse qualche raccomandato piemontese da sistemare.
D’altra parte alcuni insegnanti algheresi, non forniti di abilitazione superiore, avrebbero voluto conseguirla a carico del comune, frequentando i brevi corsi trimestrali della scuola normale istituita in Sassari nel 1853, ma gli amministratori catalani, lamentando il deficit di bilancio, si rifiutarono di pagare la frequenza a questi corsi di qualificazione. Da tutto ciò l’insanabile contrasto tra centro e periferia. Il dilemma nasceva naturalmente dal fatto che il centro effettuava scelte che sicuramente rispecchiavano lo spirito e la lettera delle leggi generali e dei regolamenti sull’istruzione, ma che per la loro attuazione non era disposto, a fronte i maggiori oneri da sostenersi dal comune, ad erogare alcun finanziamento così come avrebbe dovuto essere per meglio armonizzare le autonomie locali con le direttive dell’esecutivo centrale. Da ciò la determinazione drastica del ministero d’inviare i maestri patentati dal continente.
Considerando quanto rilevato si può far risaltare come l’autonomia scolastica, senza un consistente bilancio, servisse a poco e come un centro ministeriale, che non provvedesse a far fronte agli oneri per il buon funzionamento della scuola, godesse di scarsa autorevolezza presso amministratori gelosi della loro spropositata coscienza autonomistica.
Le politiche comunali di ammodernamento e quelle nazionali di uniformità.
Nel periodo che va dalla legge Casati alla Daneo-Credaro (1861-1911), si può affermare che le scuole elementari godano sicuramente di una loro peculiare autonomia. Sono i rinnovati consigli comunali che debbono provvedere alla predisposizione dei locali, al loro arredamento, alla dotazione delle attrezzature scolastiche, ai bandi per l’assunzione dei maestri, al loro stipendio e al controllo della loro attività educativa e didattica. Resta invece all’ufficio scolastico provinciale la verifica dei titoli dei maestri, la predisposizione delle graduatorie comunali, la risoluzione dei conflitti di competenza tra l’ente locale e i maestri, mentre agli ispettori regi residenti nei capoluoghi dei circondari spetta il controllo sull’operato degli amministratori comunali nella corretta gestione della scuola popolare. A questi ispettori è fatto obbligo, in un certo senso, di governare, promuovere e vigilare sulla scuola richiamando al rispetto delle norme i comuni e quindi, stimolare e promuovere la pubblica istruzione, la stessa educazione dell’infanzia e informare ed esortare i comuni ad usufruire delle provvidenze particolari riservate da eventuali nuovi provvedimenti governativi. Spesso intervenire su comportamenti arbitrari degli stessi amministratori comunali nei confronti dei maestri.
Le spese generali e quelle ordinarie dei comuni a favore della scuola non sono lievi, sia pure per attivare il primo biennio elementare nei circa 290 comuni dell’isola, dei quali diciotto nel 1848, ventisette nel 1881 e una quarantina in epoca giolittiana, che superando i 4000 abitanti, debbono provvedere ad istituire non solo il biennio inferiore, ma anche quello superiore della scuola elementare oltre ai corsi serali e domenicali per adulti.
Se per le città regie o di nomina recente, in genere le più popolate, per quanto riguarda i locali, gli amministratori comunali avevano l’opportunità di disporre di ex istituti, collegi o ex conventi tolti ai soppressi ordini e congregazioni religiose maschili e femminili, nella maggior parte degli altri comuni medi o soprattutto piccoli, non esistevano locali adeguati per cui per garantire un’accoglienza, se non adeguata vicino all’adeguatezza, gli amministratori comunali erano costretti a prendere in locazione locali per la scuola e a far fronte ai patti contrattuali di locazione con oneri a volte sopportabili a volte onerosi, almeno fino a quando non verrà edificata la casa-comunale-scuola, che però con l’incremento degli scolari diverrà anche’essa inadeguata.
Per quanto attiene ai bandi e alla relativa nomina o assunzione dei maestri e delle maestre, occorreva tener conto della disponibilità di bilancio e quindi della politica del massimo risparmio nel tentativo di ridurre i costi, deliberando di retribuire i maestri con il minimo stipendio consentito dalla legge, ma nel tempo preferendo le maestre che potevano essere retribuite con uno stipendio inferiore di un terzo rispetto a quello dei maestri; poiché nelle classi maschili era obbligatoria, per quasi tutto l’Ottocento, la nomina di maestri, gli amministratori comunali talvolta deliberavano di nominare una maestra, per risparmiare sullo stipendio, ignorando con ciò le direttive ministeriali che imponevano la nomina di un maestro che pure potevano chiamare dalla graduatoria inviata dal consiglio scolastico provinciale.
La presenza delle donne nell’insegnamento, numericamente inferiore a quello maschile nei primi anni dell’Unità, crebbe rapidamente sino a superarlo nettamente in epoca giolittiana. Questo fatto, in principio, venne ben visto dalle autorità, le donne infatti, considerate per “vocazione naturale” particolarmente atte all’educazione dei bambini, sembravano offrire maggiori garanzie di disponibilità nei confronti di un mestiere impegnativo e poco remunerato, che per gli uomini era spesso un ripiego. Il loro stipendio, come già accennato, poteva essere inferiore di un terzo a quello dei loro colleghi. Proprio per ragioni economiche, una maestra di Porto Torres, presentò al comune le sue dimissioni, dopo otto anni di lodevole servizio, vedendosi ridotto lo stipendio e negata l’indennità d’alloggio, denunciando all’ispettore regio l’irregolarità con la quale si era proceduto a nominare la maestra che le era succeduta.
L’ammininistrazione comunale, tuttavia, non sempre poteva violare impunemente la normativa: l’occasione di un anticipo di stipendio per un maestro sempre a Porto Torres provocò l’immediato intervento del prefetto, che informò il sindaco che qualora in seguito ad ispezione il bilancio municipale si fosse trovato allo scoperto di qualsiasi somma ne avrebbe dovuto rispondere personalmente lui, poiché “una tale concessione è contraria alle buone regole di amministrazione ed alle vigenti regole di contabilità”.
C’è da tener presente, infatti, che con la prima legge comunale e provinciale in Italia del 20 marzo 1865, i comuni dovevano farsi carico di spese obbligatorie in particolare, di quelle per l’ufficio e l’archivio comunale, degli stipendi del segretario e degli altri impiegati e agenti, delle riscossioni e dei pagamenti delle imposte, del servizio sanitario di medici chirurghi e levatrici per i poveri, dei servizi per la conservazione del patrimonio comunale, del pagamento dei debiti, e delle cause in corso, della sistemazione e manutenzione delle strade comunali, delle opere di difesa dell’abitato contro i fiumi e i torrenti e di tutte le altre opere pubbliche imposte dalla normativa dalle convenzioni e dalle consuetudini, della costruzione e manutenzione di porti, fari e opere marittime, del mantenimento e restauro degli edifici ed acquedotti comunali, delle vie interne e delle piazze pubbliche, della costruzione e manutenzione dei cimiteri, dell’illuminazione, dell’anagrafe, delle elezioni e delle spese consortili, delle stesse carceri e della custodia dei detenuti nei capoluoghi di mandamento e di altre spese facoltative previste dalle consuetudini. Tra tutte queste spese, al dodicesimo posto su venti voci, erano contemplate le spese “per l’istruzione elementare dei due sessi”.
I bilanci erano inoltre soggetti al controllo della prefettura e in parte della deputazione provinciale. Man mano che l’opera di ammodernamento procedeva, la contabilità comunale andava facendosi elevata e complessa e la stessa autonomia della circoscrizione comunale postulava nuovi e continui bisogni ai quali occorreva dare risposte. D’altra parte, è risaputo che, quando l’ente locale non disponeva di personale adeguato che, tra l’altro doveva pure reclutare e formare come avveniva per il personale scolastico, l’evasione fiscale era notevole e con essa la cronica mancanza di mezzi , per garantire i servizi essenziali agli amministrati, specie dopo la concessione dello Statuto albertino nel regno di Sardegna unificato, con la trasformazione delle comunità in comuni che dovevano dotarsi di adeguati strumenti di governo locale.
Con l’Unità il comune tende a diventare il cardine portante delle comunità locali intorno al quale si svolgerà sia il ciclo della vita sia il ciclo del tempo per i cittadini di uno stato nazionale unitario proteso a organizzare, plasmare, educare, orientare per la felicità comune tutti i suoi abitanti. E spesso, in questo periodo postunitario, man mano che le leggi elettorali andavano allargando la base degli elettori, la necessità del favore dei suffragi portava gli amministratori a trascurare il problema fiscale e a dar fondo ai beni delle passate comunità locali. Basti pensare alla pratica dell’appropriazione indebita di tanti prati comunali da parte di operatori del variegato mondo agro-pastorale e all’incapacità dei comuni di requisirli o di far pagare canoni adeguati, da utilizzare per rimpinguare i bilanci così come avveniva nei comuni con una tradizione di oculatata amministrazione e che quindi potevano garantire migliori servizi in tutti i settori dell’amministrazione locale.
La scuola popolare o meglio l’istruzione nazionale delle giovani generazioni, immerse in una cultura orale, richiedeva uno sforzo incredibile a quella classe dirigente locale proveniente in parte dalla vecchia aristocrazia terriera e professionale, in parte dalla borghesia agraria, in parte da un nuovo ceto medio elevatosi grazie agli studi e alla formazione presso i seminari diocesani e regolari che, a ben guardare si rivelano, causa di elevazione per i figli dei ceti non abbienti non solo per le carriere ecclesiastiche, ma anche per quelle laiche.
Con attenti sondaggi, infatti, si è potuto calcolare che delle centinai di alunni formatisi nei seminari circa il novantacinque per cento disertavano per seguire altre carriere laiche. Un riscontro interessante lo si ha avuto confrontando i cataloghi degli alunni dei seminari con le liste dei consiglieri dei vari comuni sardi presso i quali si sono effettuate ricerche mirate.
L’accrescimento costante delle poste di bilancio impongono agli amministratori problemi sempre nuovi, e spesso, le complesse pratiche per la contrazione di mutui concessi dallo Stato per la realizzazione di edifici pubblici non risultava agevole, ma soprattutto, dati i lunghi tempi, l’iter non si concludeva sempre positivamente, in quanto ci voleva comunque un apporto finanziario da parte dell’ente locale. Ad ogni buon conto in molti centri ancora oggi le case comunali-scuola degli anni Ottanta dell’Ottocento e gli splendidi edifici scolastici di stile eclettico del primo Novecento non solo abbelliscono gli assetti urbani di molti centri sardi, ma ne documentano l’impegno finanziario.
D’altra parte il centralismo ministeriale per la spinta delle associazioni magistrali, del movimento sindacale degli insegnanti e della più avvertita sensibilità dell’istruzione, continuava a riconoscere sul piano legislativo maggiori tutele e remunerazioni e un più severo controllo sui titoli, sulle graduatorie dei maestri, senza però accrescere i fondi a disposizione degli enti locali che ovviamente con oneri così rilevanti sentivano e vedevano vanificarsi la cosidetta autonomia soprattutto per il buon funzionamento della scuola.
Di queste problematiche si avvertono chiaramente i segni nelle delibere dei consigli comunali: a Mores, nel 1883, in occasione dell’arbitrario licenziamento del maestro Francesco Tanda nella delibera del consiglio si legge: “Quando il maestro non fa più il maestro, allora è dovere di buoni amministratori ripararvi con un licenziamento, che può dirsi arbitrario, ma conforme a giustizia” .
Secondo gli amministratori, si trattava di un maestro che occupava il tempo a disegnare sulla lavagna per suo diletto, scriveva i programmi sui muri, non rispettava gli orari e a quanto sembra lasciava a desiderare sulla condotta morale. Ecco quanto il consigliere Salvatore Cossu espone al consiglio:
“ La trascuranza dei propri doveri troppo scandalosamente verificatasi nel maestro Tanda mi indusse a proporre il licenziamento del medesimo. Ed in vero la scuola del signor Tanda non ha mai avuto orario, o meglio, il signor Tanda non ha mai osservato l’orario; (…) non ha mai dato nessun profitto, e valga il fatto dei due giovani, che tutti conoscono, recatisi a Sassari con tanto di promozione per il primo anno di corso dopo di aver per due anni ripetuto la IV classe sotto l’insegnamento del sig. Tanda, i quali non furono ammessi neppure all’esame orale, giudicandoli di II elementare. E, qui, è bene passare in silenzio la promozione avuta in Mores per non mettere in chiaro il modo con cui furono dati sì i buoni punti; basti solo il sapere che, quel maestro che tanto s’affatica al momento degli esami per ottenere splendida votazione da segno di aver trascurato il suo compito per tutto l’anno scolastico. Ed infatti tutti i giovani della sua classe vi diranno che anche per un mese consecutivo rimanevano senza una lezione da studiare”.
Peccato che non ci sia la replica del maestro per scoprire magari che era inviso a quegli amministratori per motivi inconfessabili, che utilizzava una didattica originale e che a termine di legge non poteva essere né giudicato sommariamente né licenziato in tronco. Tutto ciò pareva non importare al massimo organo locale pur consapevole del “licenziamento arbitrario”.
Altro esempio di eccesso autonomistico di questo stesso consiglio comunale, del 1892, è quello del maesro Giovanni Marredda, non inserito nella graduatoria predisposta dal Consiglio Scolastico Provinciale, la cui nomina viene fatta illegittimamente dal consiglio comunale e riconfermata nonostante il parere contrario dell’organo provinciale. La motivazione della nomima è così espressa: “ancorché non classificato perché di piena fiducia di questa amministrazione e degno di occupare consimile posto per lo zelo dimostrato lungo il tempo del posteriore suo servizio” .
Anche in questo caso si disattendono le direttive degli organi delegati dal centro al controllo burocratico dell’operato dell’ente locale tendente consapevolmente a non rispettare le regole e a procedere in assoluta autonomia. Il medesimo maestro “non classificato” verrà licenziato dai nuovi amministratori, che paiono assecondare le direttive centrali, e più tardi nominato a vita dai successivi amministratori a lui sicuramente favorevoli e forse nel frattempo messosi in regola con la classificazione del consiglio scolastico.
Oggetto di critica severa diventa nel 1868 nella relazione annuale del maestro Salvatore Sechi Dettori con il governo anche il municipio di Tempio che, con la scusa delle scarse finanze, tardava mesi a pagare gli stipendi ai maestri che giustamente presentavano le loro proteste all’ente locale scrivendo:
“ Finché i Municipi non paghino a tempo e come si conviene l’opera degli insegnanti pochi saranno quelli che si dedicheranno al gravissimo magistero del Pubblico Insegnamento, il quale sarà solo retaggio spessamente dei più inetti che ad altro non poterono applicare il loro ingegno o per mancanza di mezzi materiali o per mancanza di mezzi intellettuali. Finché i maestri non saranno puntualmente pagati, nessun Municipio avrà il diritto di gravar la mano su di essi e di dire: soccombete sotto l’incubo del vostro dovere!” .
Spesso i prefetti, con apposite circolari, richiamavano all’ordine gli amministratori comunali: in una circolare del 1883 il prefetto Fiorentini di Sassari, dopo avere sottolineato le benemerenze dei maestri, asseriva
“Questa classe pur tanto benemerita della società, retribuita con meschinissimi assegni, già costretta a lottare per il giornaliero sostentamento con le ristrettezze economiche della propria condizione incontra nel ritardo a percepire l’assegno mensile la necessità di ricorrere per avere anticipazione di danaro onde provvedere ai bisogni della vita o alla generosità dei cittadini o all’avidità di speculatori. La prefettura, mentre da una parte non ha mai lasciato di raccomandare ai sigg. sindaci di invigilare, e provvedere perché i maestri fossero a tempo debito pagati, d’altra parte in ogni caso in cui si è manifestata la impossibilità che gli insegnanti potessero relaizzare i loro mandati ha fatte delle anticipazioni che poscia non furono mai o lo furono con molto ritardo e con molti stenti rimborsate dagli esattori.”
E’ indubbio che con questi interventi non si volesse ledere l’autonomia dei comuni, ma che si cercasse di spingerli all’osservanza delle norme.
Gli amministratori comunali, tuttavia, spesso espletavano competenze non proprie sia pure a favore dei maestri quando questi erano oggetto di angherie o di prepotenze da parte di superiori autorità scolastiche.
Presso le scuole elementari della stessa città di Tempio, nel 1875, in seguito ad un’inchiesta promossa dal comune contro l’ispettore scolastico Gavino Cossu, a favore della maestra Maria Francesca Muzzu, oggetto di un insistente corteggiamento questa dichiarava:
“ L’ispettore Cossu andava continuamente dicendomi che io era bella e che era per conseguenza la sua prediletta, faceva delle allusioni ad un anello che io portava in dito; mi diceva che io poteva aspirare a diventare moglie di un Regio Ispettore. Finalmente un giorno mi fece uscire dalla sala della scuola, mi trasse in un angolo del corridoio e dopo aver ripetuto che io era molto bella mi richiese di dargli un bacio assicurandomi che mi avrebbe fatto ottenere un largo sussidio governativo. Io lo respinsi con indignazione, e fu allora che scrissi al sindaco e alla giunta del 15 maggio. Lo stesso ispettore gettava lo sprezzo sulla mia condotta privata in modo che le altre maestre erano al fatto dei suoi calunniosi appunti. Egli cessò poi affatto la ogni relazione, e con manifesto sfregio non mi passò neppure l’invito di assistere al saggio che si dava nella scuola magistrale, né visitò più la mia”.
Altro piccante episodio nei confronti dell’ispettore è riferito dall’alunna Antonietta Delogu della Scuola Magistrale Femminile:
“ Il contegno dell’ispettore Cossu nella scuola è stato sempre tale da dar motivo a scandalo. Egli infatti tratta con la maestra assistente signora Saragato tanta intimità in presenza delle allieve da far credere ad una relazione affatto diversa da quella che deve passare tra un ispettore ed una maestra, egli le si diede tanto da vicino che nel discorrere a bassa voce le di lui labbra sfiorano le orecchie di essa, e come per velarsi agli sguardi della scolaresca mette davanti al viso di entrambi un largo foglio di carta, con molta frequenza lascia poi la sala, chiama la suddetta maestra, escono ambedue e si rinchiudono nel gabinetto di direzione. Tutte le allieve allora fanno i più strani commenti e questi non sono certamente favorevoli alla moralità sicché nella scuola si viene a dire: qui noi impariamo a fare all’amore”
Le autorità preposte, in particolare il “Consiglio di Prefettura annullò il processo verbale delle informazioni (ed è discutibile la legalità del Decreto <di licenziamento da parte del sindaco> non trattandosi di Deliberazione), non perché i fatti denunziati fossero insussistenti, ma perché la Giunta <comunale> non aveva competenza a sindacare la condotta di un Impiegato Governativo”.
In altra occasione fu messo sotto inchiesta da parte del sindaco, nel 1881 in Tempio, il maestro Giovanni Andrea Valentino, dietro esposto del padre dell’alunno Antonio Verre, il cui figlio aveva ricevuto dal maestro delle percosse, secondo lui senza giustificazione. Dalle testimonianze degli alunni risultò che il maestro aveva bacchettato l’alunno, ma che l’azione correttiva era ampiamente giustificata “considerata l’irrequietezza dello stesso e la risposta impertinente: ‘Torna a battermi! Sono forse un asino! Lo dirò a mio padre!’”.
Anche in questo caso l’ente locale tende apertamente a prevalere sui funzionari governativi andando oltre i limiti della propria competenza e autonomia.
Tra l’Otto e Novecento le dinamiche di contrasto tra autonomia locale ed i rappresentanti dell’ esecutivo centrale persistono soprattutto a causa della confusione tra competenze comunali e governative.
A La Maddalena il maestro elementare Giuseppe Sotgia è costretto dal sindaco a dimettersi per aver frequentato una casa di tolleranza, il regio ispettore Maggioni, attivo in Gallura da tanti anni, dopo aver invitato il sindaco a giustificare in parte il comportamento del maestro “giovane e dai bollenti spiriti” ordina che questi riprenda servizio e concluda l’anno scolastico.
A Urzulei, piccolo borgo a stento raggiungibile, perché situato alle pendici del Gennargentu, nel cuore dell’Ogliastra, nel 1890 la maestra Amelia Angioni che stava per concludre i sesennio e quindi sul punto di acquisire il diritto alla nomina a vita, viene dagli amministratori comunali licenziata “per fatti che qui si omettono per delicatezza” , la delibera viene respinta dal consiglio scolastico provinciale che ritiene intempestivo e contrario alle norme il licenziamento e reintegra la maestra nel suo incarico.
Nello stesso centro ogliastrino, nel 1902, il maestro Giovanni Maria Cannas che osava entrare durante le sedute del consiglio comunale “senza essere chiamato, senza salutare, restando con il capello in testa, trattando tutti con spavalderia e presunzione” nonché insultando i consiglieri e chiamandoli “assassini, ladri, meritevoli di andare in galera”, accusato di far parte di una fazione politica per la quale aveva indotto molti a votare, oggetto di persecuzione da parte degli amministratori comunali, dopo l’ispezione del regio ispettore Salvatore Tozzi, fu reintegrato nel servizio, ciononostante in seguito ad ulteriori deliberazioni del consiglio comunale fu licenziato e nessun funzionario governativo riuscì a reintegrarlo.
A Villanova Monteleone, invece, nel 1863, nonostante il favore del consiglio comunale per il maestro Giuseppe Raimondo Galleri, l’ispettore regio, verificatane l’inettitudine educativa e didattica che aveva causato l’abbandono della scuola da parte di numerosi scolari, lo allontana definitivamente a conclusione dell’anno scolastico.
Non bisogna ritenere, tuttavia, che l’autorità governativa, in questo caso l’ispettore regio, fosse presente unicamente per contrastare le scelte degli amministratori comunali, anzi talvolta con circolari, con provvedimenti urgenti, avvalendosi della disponibilità finanziaria messagli a disposizione dal governo operava a favore della popolazione marginale. Significativa è a questo proposito l’iniziativa del regio ispettore Maggioni a favore della frazione di Trinità d’Agultu, a sei ore di percorso dal comune di appartenenza, che andava sviluppandosi intorno alla piccola chiesa parrrocchiale man mano che gli abitanti degli stazzi si spostavano nel piccolo agglomerato di case. Il comune di Aggius, a cui la frazione apparteneva pareva curarsi poco della scuola della piccola frazione, a questo punto l’ispettore scolastico chiede ed ottiene i finanziamenti ministeriali necessari per la costruzione del caseggiato scolastico e così il minuscolo centro potrà continuare a svilupparsi tra la chiesa e la scuola e avviarsi nel tempo a diventare comune. A nessuno potrà sfuggire come la presenza dell’autorità centrale abbia supplito alla noncuranza o forse alla scarsezza di mezzi dell’autonomia locale.
A questo proposito tuttavia si hanno anche iniziative di segno opposto, nel già citato centro di Urzulei, nel 1863, i consiglieri comunali, stufi di assistere al continuo rifiuto di maestre forestiere per le classi femminili fornite di patente, ma che una volta nominate si rifiutavano di recarsi nel piccolo e disagiatissimo deliberarono di inviare a Cagliari la giovane maria Giovanna Cabiddu per il conseguimento a carico del comune della patente di maestra. La delibera era sicuramente azzardata, ma fu ugualmente resa esecutiva anche se, purtroppo, l’interessata dopo quattro anni di borsa di studio, disattese le aspettative degli amministratori comunali che però in questo caso avevano comunque deliberato nel tentativo di dare risposta ad un’esigenza fondamentale della comunità locale anche se arbitrariamente dal punto di vista dei regolamenti.
E’ indubbio, alla luce di quanto riferito, che il centralismo statale in ambito scolastico, ma non solo in quello, spesso non seppe armonizzarsi con l’autonomia comunale e che quest’ultima abbia cercato talvolta di oltrepassare le sue competenze mossa più da motivazioni particolari che non dal bene generale a cui entrambe avrebbero dovuto ispirarsi.
R. SANI, Scuola e istruzione elementare in Italia dall’Unità al primo dopoguerra: itinerari storiografici e di ricerca in R. SANI, A. TEDDE, Maestri e istruzione popolare in Italia tra Otto e Novecento. Interpretazioni, prospettive di ricerca, esperienze in Sardegna, Vita e Pensiero, Milano 2003, pp. 3 -17.
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