Categoria : memoria e storia

“La mola asinaria in Sardegna” di Tiziana Sotgiu Gassi

Nella società rurale della Sardegna la mola asinaria, detta sa mola o sa moba, è sopravvissuta fino alla seconda metà del secolo scorso come unico sistema molitorio a trazione animale. Essa ha caratterizzato l’aspetto tecnico ed economico dell’isola in campo produttivo e, allo stesso tempo, ha rappresentato un unico fenomeno di conservazione di tale tecnica rispetto alle innovazioni e ai cambiamenti che si sono avuti altrove nelle epoche storiche; proprio per questo rappresentò nella produzione domestica e contadina un esempio di autosufficienza.

La mola asinaria sarda si ricollega alla macina a clessidra di epoca romana che era diffusa nelle varie province dell’impero, tale continuità tipologica strutturale, che è determinata dalla comune appartenenza del sistema rotatorio a palmenti e dal loro uso a livello familiare, è sottolineata da alcuni frammenti archeologici ritrovati a Tuili. Essi si caratterizzano da: progressiva riduzione dell’altezza in rapporto al diametro, funzione di tramoggia del palmento superiore, formazione di costole diametrali uguali a quelle del palmento superiore della macina attuale. Tali peculiarità attesterebbero un momento di passaggio nell’evoluzione tipologica dalla mola romana a clessidra alla mola asinaria tradizionale. In base ai reperti trovati e ai confronti tra varie testimonianze s’ipotizza che il cambiamento sia avvenuto nel passaggio dal Tardo Antico all’Alto Medioevo, dopo che mutarono le esigenze della produzione e i monaci, eredi dei grandi latifondi romani, introdussero alcune innovazioni tecniche. I monaci sembrerebbero anche gli autori del passaggio dei motivi decorativi da geometrizzanti a cristiani.

La zona di produzione di macine antiche in Sardegna era Molaria l’odierna Mulàrgia, già registrata nell’Itinerario Antoniniano, posta lungo la via che congiungeva Olbia a Cagliari. Era una sede di cave per l’estrazione dell’ignimbrite, roccia eruttiva effusiva usata per la preparazione di mole già dalla metà del IV sec. a. C.

Alcune caratteristiche della macina sarda fanno ipotizzare a un’influenza dei mulini idraulici arrivati nell’isola in epoca alto medievale, ma mentre questa tipologia si diffuse in Europa e in Italia per motivi fiscali da parte dei signori ecclesiastici e laici, in Sardegna non si riscontra lo stesso sviluppo e diffusione e i mulini ad acqua, non riuscendo ad imporsi nonostante fossero numerosi nelle zone ricche di fiumi e la maggiore produttività rispetto alla macina a trazione animale.

I mulini a vento sono quasi inesistenti in Sardegna a parte quello di Chiaramonti del castello di Cagliari e gli impianti realizzati da Giuseppe Garibaldi sull’isola di Caprera. I motivi di questa quasi assenza di sistemi molitori più produttivi sono complessi e di natura socio-economica non riconducibili solo alla penuria di corsi d’acqua a portata regolare.

La mola asinaria domina in Sardegna fino alla metà dell’Ottocento. Diffusa nelle campagne nei primi venti anni del Novecento, iniziò a declinare negli anni Sessanta con la fine definitiva della produzione di mole. Dall’alto medioevo fino all’epoca moderna e contemporanea essa convive con i mulini idraulici e macine manuali. Nelle città la mola fu sostituita dai mulini a vapore alla fine dell’Ottocento e nelle campagne dai mulini elettrici nei primi anni Trenta. Dagli anni Sessanta la mola sopravvive e resiste come sistema molitorio presso pochissime famiglie e allo stesso tempo la sua storia muta perché ormai è un utensile tecnicamente superato ed entra così nel riuso. Viene fatta a pezzi, smontata e reinserita nel contesto domestico rurale. Essa si trasforma in un oggetto con un’anima, di affezione e diventa memoria storica da esporre nei giardini e cortili delle case private e in luoghi pubblici come piazze e musei, trasformandosi in simbolo del passato contadino ed espressione del gusto antiquario.

Le parti essenziali della mola, come per gli altri sistemi a palmenti, erano formate da due pesanti piastre di pietra circolari sovrapposte e della stessa grandezza, la pietra superiore concava, l’inferiore convessa, di cui una ruotava e l’altra stava fissa. Spesso di pietra basaltica non superiore a otto decimetri, poggiate su un contenitore che poteva essere di pietra, detto su lacu o in legno, detto càscia, dove cadeva il macinato che si estraeva per mezzo di un’ampia apertura. Le parti fricanti dei due piatti avevano una seria di fitte scanalature.

Non solo le dimensioni della macina avevano un significato sociale, ma anche l’ornamentazione che segnalava l’appartenenza della mola alle famiglie di grandi proprietari; in zone con maggiore vocazione cerealicola il contenitore in pietra veniva decorato con motivi geometrici e motivi di simbologia cristiana. La tramoggia detta maiolu, era di paglia o di giunco intrecciati, poi di legno.

La macina era mossa da un asinello detto su molente, colui che fa girare la mola e che apparteneva a una varietà domestica sarda di piccola taglia, oggi in via di estinzione. Il quadrupede veniva bendato con un panno detto su fachile e attaccato con una stanga alle costole diametrali del palmento superiore, in impianti più grandi si usava il cavallo. Non mancano esempi di piccole macine a braccia girate dalle donne, soprattutto dalle ragazze.

Questo tipo di sistema molitorio produceva un macinato integrale che successivamente andava vagliato. Tale sistema a palmenti, come i mulini idraulici ed eolici, sono accomunati dal procedimento detto “a bassa macinazione” che consiste nel triturare il grano in maniera uniforme. L’alta macinazione invece consente, durante la macinazione, una completa separazione di tutti i tipi di farine.

La mola asinaria potrebbe apparire uno strumento semplice, ma dopo un trattamento dei grani che consisteva nella pulizia, lavaggio e asciugatura, era in grado di produrre un macinato integrale composto dai diversi sottoprodotti senza continuità, dal più grosso al più sottile. Questo compito spettava alle donne che ottenevano i prodotti desiderati in rapporto all’economia della casa e alle occasioni, setacciando grossolanamente oppure vagliando diverse volte i macinati, con l’uso di numerosi setacci e crivelli fino a ottenere le semole e le farine più sottili per preparare perfino i pani festivi ornati. Il motivo principale per cui le massaie sarde preferivano la macina di basalto stava nel fatto che essa non riscaldava le farine, enorme difetto invece causato dalla velocità dei palmenti mossi dall’acqua, dal vento e dall’elettricità da cui si otteneva un pane di scarsa qualità. Al contrario i palmenti della mola, ricchi di scanalature, facilitavano la discesa dei grani e consentivano la circolazione dell’aria tra i due dischi di pietra, diminuendo in questo modo il rischio di riscaldamento. C’erano anche dei piccoli accorgimenti con importanti funzioni tecniche: tra la tramoggia e la macina era collocato su pabadu (il palato) un piccolo oggetto di legno a forma di barchetta o disco con due alette laterali che regolava la discesa dei grani, distribuendoli su tutta la superficie di frantumazione. Il piccolo piolo di cui era dotato entrava nella bocca inferiore della tramoggia, evitandone le oscillazioni e garantendo il centraggio rispetto all’imboccatura della macina. Il piolo muoveva il grano contenuto nella tramoggia facendolo scendere senza che s’intasasse.

Con la piccola mola asinaria si potevano ottenere macinati grossolani secondo le necessità. Si regolava la distanza della tramoggia del piccolo disco, accorciando o allungando le cordicelle di sospensione della tramoggia stessa. La maggiore o minore velocità della caduta dei grani, che ne conseguiva, produceva un macinato di differente grossezza con prevalente presenza di cruschelli, semole o farine bianche.

La mola era elemento inscindibile della vita domestica del mondo rurale, suppellettile che non poteva mancare in nessuna casa; era associata al lavoro femminile, al matrimonio e alle nozze e rispecchiava lo status sociale di una famiglia. Nelle cerimonie nuziali veniva portata in corteo assieme al corredo, alle provviste e all’asinello ornato di nastri, velluti e rami verdi, fino alla casa degli sposi.

La mola in genere si trovava nella cucina che la notte, dopo la cena, diventava dormitorio, attorno al focolare centrale si stendevano le stuoie e le persone dormivano con i piedi contro il fuoco. La mattina, prima dello spuntar del sole, la casa prendeva vita, si mettevano via le stuoie e la padrona attaccava l’asinello alla mola che avrebbe girato per tutta la giornata con il suo rumore inconfondibile.

La mola asinaria ha infine ispirato proverbi, modi di dire mentre l’asinello, percorrendo senza speranza la via della mola, è diventato metafora sulla durezza della condizione umana, assimilandolo all’essere umano degradato al quale neppure il malocchio si attacca, a su molente non l’intrat s’ogru malu.

 

 

Tiziana Sotgiu

 

 

 

 

 

 

 

 

Bibliografia consultata

  1. VV., La Grande Enciclopedia della Sardegna, a cura di F. Floris, Editoriale La Nuova Sardegna, vol.6, Moncalieri 2007, p. 106.
  2. Atzeni, Raccontar fole, a cura di P. Mazzarelli in S. Atzeni,Apologia del giudice bandito, La Nuova Sardegna/Mediasat, Barcellona 2007, vol. 12, p. 129, pp. 142-143.
  3. Coppola, Le mole asinarie decorate, in AA.VV., Pani. Tradizione prospettive della panificazione in Sardegna, Ilisso, Nuoro 2005, pp. 233-235.
  4. G. Da Re, La mola asinaria: una complessa macchina animale, in AA.VV., Pani. Tradizione prospettive della panificazione in Sardegna, Ilisso, Nuoro 2005, pp. 230-232.
  5. La Marmora, Il pane e il pane di ghiande nel «voyege en Sardaigne» in AA.VV. Pani tradizionali, arte effimera in Sardegna, Editrice Democratica Sarda, Cagliari 1977, pp. 11-13.
  6. L. Wagner, La vita rustica della Sardegna riflessa nella lingua, Ilisso, Nuoro 1996, pp. 134-144, ristampa dell’opera originale: Das ländliche Leben Sardiniens im Spiegelder Sprache. Kulturhistorisch-sprachliche Untersuchungen, Heidelberg 1921.

 

 

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