“Il Ciclo Pasquale a Sanluri” di Rosanna Pisanu
“Allora i vostri figli vi chiederanno:
Qual è il significato di quest’usanza?
(Esodo 12,26)”
Se non si conserva il ricordo degli antichi,
non resterà neanche la memoria di coloro che verranno in seguito”.
“Ci precedono molte memorie”: ripercorrere, con gli anziani, usanze e riti che potrebbero subire, nel corso del tempo, modernizzazioni tali da snaturarne completamente, o in misura rilevante, l’arcaicità, è di fondamentale importanza perché una comunità priva di memoria non può avere un futuro.
Solo nella conoscenza delle nostre radici possiamo ritrovare le ragioni più vere del nostro essere, del nostro credo, delle nostre tradizioni, del nostro carattere. Queste pagine, pertanto, risultato di decine d’interviste a donne e uomini, anziani del nostro paese, si propongono di ripercorrere, sul filo della memoria, immagini, sentimenti e gesti di una delle feste calendariali più significative per noi sanluresi: la Settimana santa e la Pasqua.
Il ciclo pasquale è, da sempre, il più importante evento della cristianità: un annuale momento d’incontro tra fede, tradizione e folclore. È la festa, per antonomasia, la più coinvolgente. La ricorrenza della Pasqua a Sanluri era definita “Pasca manna”, ossia Pasqua grande, quasi a ribadire il suo ruolo di primo piano anche rispetto al Natale, chiamato “Paschixèdda”, cioè Pasqua piccola. I riti della Settimana Santa superavano, infatti, per solennità e importanza, le stesse festività del Natale. Con il Mercoledì delle Ceneri iniziava un periodo religioso intenso: alla pazza gioia del Carnevale, che vedeva gente d’ogni ceto riversarsi per le strade, mascherate e camuffate nelle maniere più goffe, nello spirito dei saturnali, seguiva la quaresima con “Le Via Crucis”,le prediche ed altri riti penitenziali, e nella “Passione e Morte di Gesù Cristo” si verificava una sublimazione di massa delle pene e dei dolori.
Le nostre funzioni religiose, dal Giovedì Santo fino alla Pasqua, rivelano caratteristiche consuete ad altre aree sarde, poiché molti riti, e la stessa liturgia della Settimana Santa, sono stati introdotti, o influenzati dagli Aragonesi nel ‘400. Sanluri, infatti, come tutta la Sardegna, è stata occupata dalla Spagna per oltre quattro secoli (XIV sec. e gli inizi del XVIII), e le tracce di questo lungo dominio sono, ancora oggi, riscontrabili in diversi aspetti della nostra cultura. La loro forte religiosità è stata un elemento determinante nell’imprimere una precisa direzione alla nostra fede e alle sue manifestazioni. Questi mutamenti, tuttavia, poiché imposti dall’alto, non sono riusciti ad affermarsi immediatamente; hanno, comunque, lasciato la loro impronta, influenzando gli usi locali probabilmente perché i dominatori erano piuttosto simili a noi per indole. Queste considerazioni possono farsi, oltre che al raffronto con la storia dell’intera isola, attraverso le numerose fonti scritte rinvenute (documenti dell’archivio parrocchiale e comunale), nelle quali è possibile raccogliere notizie che consentono di ricostruire gran parte della storia religiosa locale, principalmente dal 1600 in poi, epoca alla quale risalgono i più antichi testi consultati. L’origine di molte nostre cerimonie religiose, probabilmente, sono ancora più antiche, e anche d’origine greco – bizantina. I culti oggi professati sono, evidentemente, il risultato di un lungo processo di sintesi, intrapreso già prima che il credo cristiano si diffondesse nella nostra terra. L’incessante passare dei secoli ha determinato continui cambiamenti nell’ideologia locale, e Sanluri, pur trovandosi distante dall’epicentro da cui di volta in volta è partito l’input riguardante tali cambiamenti, ne è stato, suo malgrado, raggiunto e coinvolto. Agli spagnoli spetta, comunque, il merito di aver dato ai Riti della Passione maggior vigore, solennità e diffusione capillare. L’influenza iberica è, infatti, alla base della maggior parte di riti, processioni e momenti corali particolarmente sentiti dai fedeli, soprattutto nelle Processioni dei Misteri, nel rito de Su Scravamentu, de S’Incontru o de Sa Separatzioi.
La settimana santa, in Sanluri è vissuta, da sempre, con grande devozione e partecipazione collettiva. Era organizzata dalle Confraternite, presenti sin dal XIV secolo, sull’esempio di quanto avveniva in tutta la penisola iberica. Grazie a loro, i riti assumevano elementi spettacolari che, di là da un’evidente teatralità dei gesti, mettevano ben in risalto la religiosità popolare e interpretavano, talvolta in maniera originale e autonoma, i misteri principali della religione cattolica. Le Confraternite si occupano di organizzare le processioni, di preparare i costumi e i canti corali, sia in sardo che in latino, che, attraverso il cantilenare melodioso delle preghiere, donavano alla cerimonia una forte spiritualità e suggestione.
Da antichi documenti d’archivio emerge che le Confraternite esistenti nella nostra Parrocchia erano cinque: della Madonna d’Itria (1342), del Carmine (1512), della Pietà (1515), del Rosario (1622), del Santissimo (1624). Ebbero numerosi iscritti, specialmente nei secoli XVII, XVIII, e XIX. Le Confraternite del Rosario e del Santissimo avevano sede nella Chiesa parrocchiale, quella del Carmine nella Chiesa di Sant’Anna, della Pietà nell’antica Chiesa parrocchiale di San Pietro e quella della Madonna d’Itria nella Chiesa di San Lorenzo. La Settimana Santa costituiva l’occasione principale in cui si mostravano come corpo strutturato, e ognuna aveva la propria divisa, il proprio stendardo e le proprie insegne. La divisa comprendeva il sacco o tunica, la mazzetta o mantella, la coppa o visiera, la fascia o cintura.
Tra i riti della Settimana Santa organizzati dalle Confraternite vi sono la processione della Domenica delle Palme, l’allestimento dei cosiddetti “Sepolcri” all’interno delle chiese (per l’adorazione del Giovedì Santo, dopo la messa in “Coena Domini”), la processione con l’esposizione del Cristo morto, compianto dalla Vergine vestita a lutto il Venerdì Santo, la benedizione dell’acqua il sabato mattina alle dieci (attraverso un complesso rituale che includeva l’accensione di un fuoco all’ingresso della chiesa), la processione de s’Incontru la mattina di Pasqua e, della Separazione la domenica successiva. In questi ultimi anni si sono riscoperte queste importanti consuetudini, che parevano ormai dimenticate, cercando di mantenerne gli schemi e il significato profondo.
MERCOLEDÌ DELLE CENERI: Con la “Celebrazione delle Ceneri” iniziava il periodo della Quaresima (un momento penitenziale in preparazione alla Pasqua): un rito molto antico, derivato dalla tradizione giudaica che prevede, sin da tempi lontani, una funzione religiosa, piuttosto affollata, durante la quale un Segno di croce sulla fronte, fatta dal sacerdote, col pollice immerso prima nelle ceneri delle palme e degli ulivi della scorsa Pasqua, ti ricorda che devi fare penitenza e che sei nato dalla terra e alla terra tornerai.
DOMENICA DELLE PALME: La tradizionale “Domenica delle palme” dà inizio a tutte le altre celebrazioni liturgiche della Passione e morte di Gesù. La liturgia, usata ancora oggi, ricorda l’ingresso trionfale di Gesù in Gerusalemme prima della sua Passione, ove il popolo esultava, agitando rami di palma. La benedizione delle palme, la chiusura e la riapertura del portone della chiesa, riproponevano tale avvenimento. Prima della cerimonia di benedizione, avveniva, anche allora, la distribuzione di rami d’olivo e di palma che i fedeli tenevano in mano, durante la processione. In passato, dopo la distribuzione delle Palme, si usciva in processione per le vie del paese; al rientro, il sacrestano con un gruppo di cantori, rimasti all’interno della chiesa, ne chiudevano l’ingresso. Il cerimoniale di riapertura “su pottalittu” prevedeva che il sacerdote, rimasto all’esterno con i chierichetti e i fedeli, bussasse con la croce per tre volte al portone, pronunciando una formula di rito in latino “Attollite portas” che il popolo interpretava come “Su pottalittu e porta”. Il sacrestano con la corale rispondevano: “Entri il Re della Gloria”; si procedeva, così, alla riapertura del portone e il corteo avanzava con le palme in mano, distribuendosi ordinatamente nella chiesa e preparandosi all’ascolto della messa solenne. Il materiale usato per la realizzazione delle palme era la palma da dattero, con l’aggiunta dei rami d’ulivo. Si preparavano dall’estate, proteggendo i germogli con “is istoias”, piccole stuoie, perché in primavera potessero divenire dorate. Anticamente le persone addette all’intreccio erano le Confraternite, il sacrestano e sua moglie, “sa priorissa” e le donne che si occupavano del decoro della chiesa. Vi erano diversi tipi di palma: “sa prama ‘e s’altari”, (le palme per decorare l’altare), “sa prama a froris”, lavorata con l’intreccio più raffinato, con le foglie unite a forma di fiore alle quali si aggiungevano le fresie della Settimana Santa, “sa prama a pitzicorrus”, con cornetti appuntiti che decoravano i margini dell’intreccio,“sa prama ‘e passiu” che si ricavava dai rami migliori. Le palme per i sacerdoti e per “i notabili del paese” erano dei propri capolavori: si decoravano a intreccio, formando croci, rosoni, foglie e motivi vari). Le piccole si distribuivano tra il popolo. Una palma particolarmente elaborata, era donata dal fidanzato alla promessa sposa, nel caso si fossero celebrate le nozze in quello stesso anno. Dalle palme si ricavavano “is siddus”, piccoli ciondoli per il bavero delle giacche o per il Rosario: con questi ramoscelli si adornavano le case, i portoni, le culle, le pareti delle camere, la macina, “sa moba”, i carri agricoli, e persino, i campi, gli alberi da frutto, e gli ovili. Erano custoditi, con grande venerazione, dai pastori, come benedizione pasquale, insieme all’“Agnus Dei”, una grande ostia, modellata con la cera, che i nostri Frati Cappuccini preparavano per quest’occasione, ricevendo in cambio ricotta, formaggio e qualche agnello che veniva messo all’ingrasso, insieme ai maiali, in un apposito recinto di “Coti‘ e procus”, confinante con il convento. Quest’usanza è anche documentata nel dipinto “sulla peste”, conservato nella nostra Parrocchia, dove si può individuare la forma circolare di questo spiazzo, e, anche nella toponomastica che conserva ancora per quella località il termine di “accorru de su guventu”.La carne di questi animali, e la minestra, erano distribuiti ai poveri del paese e a chiunque giungesse “sul Colle” verso l’ora di pran
Con la parte legnosa di un ramoscello di palma, i contadini costruivano in miniatura un “giuabèddu”(giogo) che, portato in tasca o nella bisaccia, secondo la tradizione, poteva prevenire un infortunio o un malessere sul lavoro. Era impiegato per la protezione della casa, della stalla e del fienile, ne si bruciava una parte durante i violenti temporali estivi; lo si poneva nel corredo della sposa per assicurarsi un buon matrimonio, nel campo seminato per avere un buon raccolto, nella tasca degli emigranti in segno di protezione, ed era usato anche per la benedizione dei morti. Ufficialmente, infatti, rappresentava la benedizione; ma in realtà, gli si riconosceva il potere di un amuleto, quello di allontanare il malocchio. Le Palme si conservavano fino all’anno successivo e, infine, erano portate in chiesa e bruciate nel giorno del Mercoledì delle ceneri; anche in questo caso è credenza popolare che quelle dell’anno precedente siano bruciate con lo scopo di evitare profanazioni. In tempi andati, però, non pochi le conservavano con cura e le utilizzavano nelle pratiche di medicina popolare, soprattutto nelle fumigazioni, considerate un toccasana per molti mali. Tutt’oggi si conserva la palma benedetta fino alla Pasqua successiva e si brucia quella vecchia. Oggi le palme sono confezionate anche da semplici persone che le vendono la domenica mattina dinanzi al portone delle chiese o in vari posti come davanti ai negozi o al mercato di sabato.
Riti della Settimana Santa: I riti iniziavano con la Domenica di Passione e da quel giorno, la chiesa doveva essere assolutamente disadorna, niente fiori, né musica, paramenti viola per il celebrante e drappi dello stesso colore sulle statue. Era prevista penitenza pubblica, uso del cilicio, ferrei digiuni e astinenza. Il lunedì, il martedì e il mercoledì avevano inizio le funzioni religiose e quelle rituali e tradizionali della settimana santa, tra cui le Quarantore, dedicate alla meditazione, alla preghiera, alle confessioni etc… Durante la Settimana santa, i fedeli seguivano con più fervore il rito celebrativo e affluivano in massa per ascoltare le prediche dei maestri dell’arte oratoria cristiana. I Padri Missionari, o Quaresimalisti, dai pulpiti, infervoravano i fedeli nella preparazione del grande evento cristiano. Un’antica consuetudine (viva ancora oggi), e attestata da vari documenti rinvenuti in Archivio, consisteva nell’invitare per le Quarantore un predicatore forestiero. Il nostro Convento ha avuto, tra i suoi frati, i predicatori più rinomati di ogni tempo, dalla predicazione semplice ed evangelica, essenzialmente popolare: erano piuttosto richiesti come predicatori durante la Settimana santa anche perché, allora, non essendoci nelle chiese strumenti di amplificazione, e dovendo predicare dal pulpito, erano rinomati per possedere una voce tuonante. Dovendosi rivolgere a un’assemblea, non sempre particolarmente colta, per catturare la loro attenzione, erano capaci di usare un linguaggio fatto d’immediatezza e, soprattutto concretezza con ricorrenti metafore e similitudini. Utilizzavano “parole nude, semplici et humili, piene nondimeno d’amore, infuocate et divine”, prive di retorica, come prescriveva la loro “Costituzione”,ufficialmente ristampata nel 1643, nel cuore del seicento. Le prediche erano spesso in lingua sarda, la liturgia in latino, trasformato, spesso, dal popolino in un latino maccheronico. Loro riuscivano a farsi comprendere da tutti, arrivando a scuotere le coscienze e a sconvolgere gli intimi sentimenti del cuore dei sanluresi. Ognuno di loro eccelleva, inoltre, nel canto, che li rendeva capaci di coinvolgere e operare come una specie di catarsi in tutta l’assemblea.
La sera del 27 Febbraio del 1926, Venerdì Santo, anche un Reverendo, il Canonico Tiano, Decano di Ales, tenne la prima predica in sardo, con grande entusiasmo e partecipazione di tutto il popolo sanlurese:
“Sanluri 27 febbraio 1926 – Ill.mo Signor Sindaco – Sanluri
Il concorso e il silenzio col quale ieri sera, all’imbrunire, è stata ascoltata la prima predica in dialetto tenuta dal R.ndo Can. Tiano Decano di Ales, mi spingono a manifestarLe la piena soddisfazione del popolo che reclamava la predica in sardo. Dopo tante interpellanze è stata una vera fortuna l’aver trovato libero il Can. Tiano per venire a Sanluri a predicare nel Venerdì sera. Quest’anno dunque in Parrocchia predicheranno: il Rev. Padre Francesco Pasta, Gesuita, censore nel Seminario di Cagliari e Rettore della Gentilizia Cappella di S. Giuseppe, in tutte le Domeniche sere prima e dopo la S. Missione; Il Rev.ndo Can. Antonio Tiano in tutti i Venerdì sera, in sardo. La Missione, dal 28 Febbraio al 15 Marzo, con due prediche al giorno, sarà predicata dai Signori Laziaristi R.di Petiti e Perosino, valentissimi Missionari di San Vincenzo, che, ovunque, hanno riportato segnalatissimi frutti. Il contributo del Comune per la Predicazione della Quaresima, fissato anche per quest’anno, è di lire 1.000.
Sac. Celestino Fois Vicario”
Nei giorni precedenti la Settimana Santa, i ragazzini preparavano i “stròcciarranas”, con i quali, si dovevano provocare dei rumori assordanti, durante la recita de “is mortorius”, per ricordare lo strepitio della folla impazzita che chiedeva la condanna di Gesù, e il terremoto avvenuto, dopo che Gesù spirò. Significavano, allegoricamente, anche le tenebre che avvolgevano il mondo alla morte del Cristo. Questi strumenti musicali sostituivano le campane che erano legate e, quindi, i bambini percorrevano le vie del paese annunciando con questo suono che da lì, a breve, sarebbero iniziate le funzioni religiose.
Mercoledì santo: Il mercoledì santo era dedicato a “Is Officius”, preghiere e canti recitati in chiesa, in latino e in sardo, accompagnati dal suono delle “matraccas” e de “is stròcciarranas” (raganella) che ne rilevavano il clima di tristezza. Le preghiere erano chiamate “Is Marturius” cioè i lamenti del Signore causati dal martirio della flagellazione e dalle beffe dei Giudei. Gli anziani raccontano che i sacerdoti si riunivano in Parrocchia per la lettura dei “Salmi delle profezie” riguardanti la Passione del Cristo: ben visibile ai piedi dell’altare c’era una costruzione triangolare in legno, con sostegno verticale e un piedistallo per tenerlo in piedi. Sui due lati del triangolo c’erano infisse tredici candele accese, che il sacrista spegneva, una per volta, alla fine di ogni lettura delle profezie, lasciando accesa l’ultima, che era spenta solo dopo ogni altro lume dell’altare. Il sacerdote, infine, chiudeva il libro delle letture e lo percuoteva con la mano per tre volte: questo era il segnale da tutti atteso per dare inizio ai “Marturius”,il processo e la passione di Gesù. Si trattava, molto probabilmente, di un triduo, “Il mattutino delle tenebre” che la riforma liturgica del Concilio Vaticano II ha fatto scomparire: si recitavano delle orazioni davanti all’altare maggiore, sul quale era sistemato un candelabro con tredici o quindici candele che intendevano rappresentare le tre Marie e i dodici apostoli. Dopo ogni versetto, per attestare il distacco di ciascuno di essi da Cristo, che andava verso la Crocifissione, si spegneva una candela. Questo rito suscitava nell’assemblea forti emozioni, quasi un senso di paura e di turbamento per l’ingiusta condanna inflitta a Gesù; infatti, quando il sacerdote leggeva certe frasi riguardanti la sua flagellazione, tutti i presenti battevano forte a terra i piedi. Le pedane di legno che si trovavano ai piedi degli altari delle varie cappelle e dietro l’altare maggiore, risuonavano, producendo un terribile frastuono, che si aggiungeva a quello de “is matraccas, is scrociarrà, e is tabeddas”.“Is tabeddas” erano due tavolette di legno stagionato, lunghe circa dodici cm., che s’infilavano ai lati del dito medio e venivano maneggiate con velocità e destrezza dai ragazzi. “Su scrociarrà” era ancora più complicato, costruito in legno o in canna, era costituito da una ruota dentata, una manopola come presa e una cassa armonica. Girando velocemente con la manopola, una linguetta di legno e in canna batteva sui dentelli, producendo un rumore forte e stridulo. “Is matraccas” era uno strumento che doveva suonare il sacrista, e sostituiva il suono delle campane all’Angelus del Venerdì Santo. Era formato da una tavola spessa, rettangolare, con un’impugnatura e con quattro anelli metallici, snodabili, che agitati velocemente, producevano un forte rumore. Questi strumenti si possono, ancora oggi, visionare presso il Museo Etnografico dei P. Cappuccini a Sanluri.
La processione, che si svolgeva in tale giorno, rievocava i Misteri: era un rito che aveva profonde radici nel tempo; si pensa che fosse d’origine medioevale, con forti influenze spagnole. La processione coinvolgeva grandi e piccini e, si procedeva cantando litanie: quest’atto era sentito come una penitenza. Lo storico Marcello Serra in “Sardegna: quasi un continente”, negli anni ’60, così scriveva: “A Sanluri, il popolo rivive la Passione del Salvatore, partecipando in quel giorno alla processione, preceduta da Gesù legato alla colonna, dai simulacri dei sette santi (che stanno a significare i sette misteri), tra cui Sant’Efisio e dalla Madonna vestita a lutto”
I Confratelli dell’Ordine di San Pietro (antica chiesa parrocchiale di origine pisana), toglievano dalla cappella, dov’era sistemato durante il resto dell’anno, il simulacro di un Cristo realisticamente scolpito in legno, chiamato Gesù Nazareno (“Ecce homo”): una statua lignea, rivestita di un manto viola, incoronata di spine, legata alla colonna, flagellata, e abbondantemente sanguinante, con un bastone di canna come scettro che portava la Croce al Calvario. Rappresentava il nostro Salvatore, spogliato, frustato e incoronato di spine: era trasportato, in processione, da chiesa in chiesa. Apriva il corteo un confratello con un bastone di due metri, con una croce argentea nella sommità; seguivano i Quattro Misteri: simboli della deposizione e del santissimo sacramento: la croce e la scala portate in spalla, un martello incrociato a una tenaglia, una spugna e una lancia, simboli di quelle usate per abbeverare Cristo. Erano accompagnati da un particolare canto, denominato “Attitidu”, un lamento funebre eseguito da più cori insieme. Il corteo partiva dalla parrocchia, poi si avviava verso la Chiesa di San Pietro, il convento dei Cappuccini, sant’Anna, San Lorenzo, fino a che il simulacro era riportato nell’attuale parrocchia e ivi, era lasciato; anche questa processione era seguita, durante tutto il suo itinerario, dal codazzo dei soliti ragazzi strepitanti, in contrasto col compunto dolore del popolo. La folla, suggestionata anche dal simulacro che era di un verismo ingenuo ma potente, lo seguiva salmodiando, non lasciandosi distrarre dallo strepito delle raganelle, come a segnare il distacco tra gli oppressori pagani e i credenti. Le ragazze portavano un vestito e un fazzoletto marrone in segno di mezzo lutto; le donne anziane indossavano un abito e un fazzoletto nero. La visita alle diverse chiese simboleggiava le stazioni della Via Crucis o, secondo altre interpretazioni, il succedersi delle inchieste fatte dalle autorità romane e giudaiche al Cristo sotto processo o “is prasois” che Gesù, “era stato costretto a visitare”, prima d’essere crocefisso. L’inizio della processione era annunciato con l’apparizione, sul portone della chiesa, della Croce dei Misteri e dei simboli della passione; seguiva la statua di Cristo alla colonna. Sempre il mercoledì, era portato in processione, per le vie del paese, il simulacro della Madonna Addolorata con lo scopo di ripercorrere le stazioni della Passione e morte di Gesù; il tutto come fosse un racconto che il popolo poteva vedere e ascoltare, per partecipare più sentitamente alla Passione e morte di Gesù.
GIOVEDÌ SANTO: Il giovedì santo nella chiesa parrocchiale della Madonna delle Grazie, nella Cappella de “ Su Cristu” o di Sant’Antonio, si preparava “Su monumentu”, come fosse un sepolcro: si allestiva anche nelle altre chiese di Sanluri ma senza il Santissimo (Senza ostie consacrate). Si addobbava con fiori, soprattutto fresie, violacciocche, vasi di cineraria e di “nenniri”, drappi e luci. Questa consuetudine è ancora oggi molto rispettata. Si predisponevano, fin dal Mercoledì delle Ceneri, o almeno venti giorni precedenti il giovedì santo, chicchi di grano, orzo e legumi in genere, entro recipienti, sul cui fondo, era stesa bambagia o lana imbevute d’acqua; erano poi, sistemati in luogo buio e caldo per farli imbiancare e poi, erano abbelliti con nastri multicolori e fiori. Era, poi, regalato a parenti e amici come buon augurio di serenità e fecondità: ricevuto in dono, lo si poneva come centrotavola per il pranzo pasquale e, in seguito, veniva sparso per i campi a propiziazione delle messi. Rivisitava, in chiave cristiana, l’antico culto agrario del dio Adone, figlio e sposo della Gran Madre che, due volte l’anno, uscendo da regno dei morti, per il solstizio d’estate e l’equinozio di primavera, risorgeva seguendo il ciclo stagionale.
La mattina del Giovedì Santo, in tutte le chiese del paese, si facevano tacere le campane fino alle ore dieci del successivo sabato. Il silenzio era assicurato anche materialmente, legando con corde i battacchi. Dall’alto della torre, il campanaro faceva strepitare in luogo delle campane, le “matraccas”, affacciandosi nelle varie aperture della torre, in modo che il rumore prodotto da questo strumento, si propagasse in tutte le direzioni. Quando si «legavano» le campane, i contadini annodavano con un nastro di lutto (o con qualsiasi altro legaccio) i tronchi degli alberi da frutto, già in fiore o sfioriti da poco: perché dessero più frutti, le donne, invece, coprivano tutte le immagini sacre. Il “Canto delle lamentazioni di Geremia” e dei salmi penitenziali, nella chiesa ormai spoglia, rischiarata appena dalle candele poste davanti all’altare, creava un’atmosfera d’intensa drammaticità. Nel tardo pomeriggio di Giovedì Santo si osservava la Commemorazione dell’Ultima cena di Gesù,“Coena Domini”, per ricordare l’istituzione dell’Eucarestia, e la funzione de “Su lavabu”(purificazione), il rito della “lavanda dei piedi” a dodici chierichetti, in ricordo del gesto di umiltà fatto da Gesù nei confronti dei suoi apostoli. Erano anche benedetti gli oli. Terminata la messa, il sacerdote toglieva dal tabernacolo la pisside con le ostie consacrate, e il S.S. Sacramento veniva spostato dall’altare maggiore in uno degli altari laterali, in “Su monumentu”, che veniva adorato dai fedeli per tutta la notte con la rituale veglia di preghiera, e visitato fino al sabato. Le donne spogliavano gli altari, erano portate via tovaglie e “Carteglorie” e capovolti i candelabri. Il significato dello spostamento del S.S. Sacramento, dall’altare maggiore, bene in vista, in uno di quelli laterali, quasi nascosto, non è chiaro; probabilmente rappresentava la prudente predicazione degli apostoli che, durante il processo fatto a Cristo, pur restandogli fedeli, si confidavano con i discepoli solo in sordina. Il successivo silenzio delle campane simboleggiava, infatti, la cessazione della propaganda aperta e coraggiosa. Un’altra antica usanza prevedeva che le mamme, ancora in periodo di allattamento, dopo aver fatto la comunione, si affrettassero ad allattare i figli nella convinzione che l’ostia consacrata, appena ricevuta, avrebbe benedetto anche il latte.
Tra i vari riti, gli anziani ricordano, in particolare, quello della “Flagellazione simbolica”; ormai andato in desuetudine per il divieto fatto da un Parroco della nostra Parrocchia, Don Barra, che lo abolì d’autorità, forse perché aveva assunto aspetti di violenza che turbavano la misticità delle funzioni religiose. Questa curiosa consuetudine non era mai stata eseguita altrove, in Sardegna: i ragazzi che dopo il trasferimento del Santissimo, si assiepavano nelle navate laterali e insieme con quelli che, non potendo trovarvi posto, attendevano fuori nel sacrato, davano luogo al primo atto di partecipazione diretta alla rappresentazione sacra, sfrenandosi a suonare le “tabeddas” e gli “strocci arranas”, provocando così un chiasso assordante. A questo punto, s’innestava la consuetudine della simbolica flagellazione che assumeva questi aspetti: nella navata della cappella di San Sebastiano, era disposto un grosso trave detto “Su truncu de is martorius”; ai due lati del tronco, disposti in file alterne, occupavano posto, armati di pertiche d’olivastro o di nodosi bastoni d’altro tipo, quanti ragazzi e giovanotti riuscivano a sistemarvisi, uno a fianco dell’altro. Appena, sentivano il rumore delle tavolette e delle raganelle, si davano a battere sul tronco con i bastoni fino a scheggiarlo e talmente s’immedesimavano nella loro parte che era un problema farli smettere. Tutti ansanti, e grondanti sudore, per la loro vivacità, erano scacciati dalla chiesa; ma appena fuori, s’univano ad altri ragazzi che, all’aperto, continuavano a far baccano con questi fragorosi strumenti. Si disperdevano, infine, per le strade portando, ovunque, il loro strepitio assordante. Alla fine della cerimonia il sacrista raccoglieva questi bastoni per essere arsi il Sabato Santo durante la benedizione del fuoco. Sempre di Giovedì santo, di notte, “Is Confradis”, i Confratelli dell’ordine del S.S. Rosario, di San Lorenzo e della Madonna delle Grazie, vestivano a lutto la Madonna, con un gran manto nero e la portavano, quasi di nascosto, alla chiesa di San Lorenzo, allora patrono del paese, per i riti del Venerdì santo.
VENERDI’ SANTO: Il Venerdì Santo era giorno di digiuno e d’astinenza. Le celebrazioni incominciavano al mattino con la cerimonia delle “Visite”, in tutte le chiese, della Madonna Addolorata, in lutto, alla ricerca del Figlio; si partiva da quella di San Lorenzo e poi si visitavano le chiese di Sant’Anna, il Convento dei P. Cappuccini e la chiesa di San Pietro; infine, si rientrava in Parrocchia. Seguiva la “Liturgia della lettura” con solenni intercessioni, adorazione della Croce, celebrazione della comunione (secondo lo stile della messa, priva però della preghiera eucaristica, da non confondere con la “Liturgia dei doni presantificati”), seguita dalla distribuzione della comunione. La celebrazione iniziava con la “Prostratio” silenziosa del celebrante e dei suoi aiutanti, un gesto che è rimasto solo in questo giorno e nella Liturgia di Ordinazione. Dopo l’inizio, con la preghiera di apertura (aggiunta solo nel 1956), avevano luogo le “Letture dall’A.T. relative al Servo di Dio” e le “Letture dal N.T.” e il racconto della “Passione”. L’“Adorazione della Croce” iniziava con lo svelamento della Croce (prima coperta) durante l’antifona: “Ecce lignum Crucis” (1570). In tempi più antichi, avveniva in silenzio; col tempo fu accompagnata dai canti, dei quali rimangono fino a oggi gli “Improperi” (frasi di rimprovero messe in bocca al Signore innalzato sulla Croce). Seguiva la distribuzione della comunione. Prima della riforma del 1956, che permetteva la comunione a tutti i fedeli, si “comunicava” solo il sacerdote. Sempre con questa riforma si modificò anche l’orario, prima la celebrazione si svolgeva all’ora nona (le tre del pomeriggio), con riferimento all’ora della morte del Signore secondo Mt 27,46. Dalle tre del pomeriggio, ora della morte di Gesù, s’interrompeva ogni attività liturgica, le acquasantiere erano vuotate, le campane tacevano fino alle dieci e trenta del mattino successivo.
La sera c’era una “Solenne processione col Cristo morto”: partiva dalla chiesa parrocchiale in un’atmosfera surreale che gravava sui fedeli adombrati quasi da un dolore collettivo. Un baldacchino, sostenuto da quattro uomini della Confraternita del Santissimo, proteggeva il simulacro; appresso, stava la statua della Madonna Addolorata. Nel corteo c’erano i Giudei, la Maddalena, San Giovanni e un folto stuolo di angioletti: seguivano le altre Confraternite e tutta la popolazione. I Giudeierano impersonati da due giovani vestiti con un abito rosso lungo fino ai piedi, una folta barba e dei baffi finti, la testa era ricoperta da un copricapo particolare; con la spalla sostenevano una scala nera in legno. La Maddalena era una giovane fanciulla con abito lungo in velluto viola e i capelli sciolti sulle spalle; un ampio colletto bianco ricamato contrastava con la veste; sul capo aveva una corona d’argento con decorazioni floreali, simbolo dell’aureola dei santi, sorretta al mento da un elastico. San Giovanni era impersonato da una ragazza con i capelli lunghi perché non potendo disporre di una parrucca, si preferiva assegnare questo ruolo a una ragazza; l’abito era simile a quello della Maddalena, cambiava solo la tonalità del verde del vestito. Gli angioletti erano fanciulli e fanciulle in tenera età, di quattro o cinque anni, vestiti di bianco, rosa e celeste con le ali argentate, rivestite di piume. Un componente della Confraternita della Pietà portava una Croce con i simboli della Crocifissione: martello, tenaglie e tre lunghi chiodi.
La dolente processione si snodava di chiesa in chiesa sino a che la Madonna, nella chiesetta di San Pietro, ritrovava il suo figlio flagellato e sanguinante. “I dolori della Madre di Gesù” erano esaltati con lamentazioni, canti carichi di mestizia e versetti della Via Crucis. In queste occasioni, i sanluresi sapevano esprimere tutto il loro patrimonio di canti e orazioni, le cui origini si perdono nella notte dei tempi. Il rito era triste e suggestivo: il popolo vi partecipava preso da una commozione veramente sincera che manifestava, cantando “Is goggius de is doloris de Maria”. Finiti questi “goggius”, seguiva, da parte della Madonna, il rito del rinvenimento del Cristo morto; un rito spettacolare che coronava, con una scena muta, l’esagitazione del doloroso canto.
Le strofe dei “goggius”, evocatrici della passione, si alternavano commosse; talvolta le voci si univano e si fondevano in un duetto comune, oppure, uno dei cantori si rivolgeva al popolo prima, alla Madonna poi, e infine tornava, nell’addio a Gesù, la forma del duetto.
Il simulacro della Madonna, in seguito, rientrava in parrocchia, lasciando la chiesa di San Pietro nella quale si schiodava un altro simulacro di Cristo crocefisso che era poi trasportato su un giaciglio, parato a lutto, nella Parrocchia della Madonna delle Grazie. Madre e figlio erano così vicini: ritta, col suo manto nero, la Madonna, deposto ai suoi piedi, Gesù. Fievoli fiammelle illuminavano la scena quando più tardi i fedeli, affollavano le buie navate. L’atmosfera era piena di palese tragedia; volti afflitti, passi silenziosi, fioco mormorio di preghiere. Il popolo guardava la Madonna e, appena il giovane, che impersonava San Giovanni, e la giovane, che impersonava la Maddalena, iniziavano un’altra serie di “goggius”, in forma dialogica, lamentando il sacrificio di Gesù e il dolore della Vergine, la sua attenzione si faceva più tesa e il dolore sembrava ingigantire: ascoltava le lamentazioni con l’animo sospeso e vi partecipava, unendosi in sordina alla recita dei “goggius”. Questi “gòccius o gosos”, o laudi sarde, sono movimentati, drammatici: la forma è dialogica, si cantavano nel nostro dialetto sia durante le cerimonie in chiesa, sia durante le processioni. S’intonavano spesso senza accompagnamento di strumenti musicali e avevano, come tema principale, la sofferenza della Madonna Addolorata. I testi non sempre sono stati trascritti, ma più spesso erano tramandati per via orale da padre in figlio. Forse sono stati proprio questi goggius, e i riti che li accompagnavano, che hanno ispirato, nel seicento, un giovane frate cappuccino, Fra Antonio Maria da Esterzili (1644 o 1645 – 26 aprile 1727), vissuto nel convento di Sanluri per circa mezzo secolo, portandolo a comporre, in modo mirabile, nel “Libro de Comedias” (1688), una delle più famose opere drammaturgiche in lingua sarda della storia (ha solo il titolo in spagnolo), conservata presso la Biblioteca Universitaria di Cagliari. Un manoscritto che comprende cinque opere, delle quali l’ultima ci è pervenuta incompleta: la Conçueta del Nacimiento de Christo, la Comedia de la Passion de nuestro señor Jesu Christo, la Representaçion de la comedia del Desenclavamiento de la Cruz de Jesu Christo nuestroseñor, i Versos que se representan el Dia de la Resurrection e la Comedia grande sobre la Assumption de la virgen Maria senora nuestra a los ciélos cui seguono pagine di diritto ecclesiastico, che si aprono con le Excomunicationes, in die coenae Domini, redatte in latino e in spagnolo. Un frate drammaturgo che è stato capace di calarsi nella realtà del nostro paese, riuscendo a spiegare, anche ai più umili, il dramma della Passione di Nostro Signore Gesù Cristo. Un gioiello di poesia popolare, in lingua campidanese, e non in quella imposta dai conquistatori, lo spagnolo, o nell’incomprensibile latino oppure nel troppo complicato italiano. In “Su Scravamentu”, ha sicuramente tenuto conto della forma dell’“Attitidu”, oltre che di altri aspetti culturali e linguistici tipici della Sardegna come anche di Sanluri.
I sanluresi Pasquale Marica e Franz Silesu in “La settimana santa a Sanluri” ci riportano, nella traduzione fedele, “Is goggius de is doloris de Maria”d’antica data: in essi la Vergine la ricordando la profezia di Simeone, la condotta d’Erode, la fuga in Egitto, invitava i fedeli a considerare il suo crudele dolore.
Le Sacre Rappresentazioni erano molto amate dai sanluresi: e anche se realizzate con mezzi di una primitiva elementarietà, e con ingenue finzioni, riuscivano a infiammare la fervida fantasia della gente che, specialmente nella rievocazione delle drammatiche vicende della “Passione e della morte di Gesù Cristo” si commuoveva fino alle lacrime. Questo perché colpiva la loro semplice immaginazione e traduceva, nella realtà, il bisogno del loro spirito profondamente religioso. L’appello al popolo, la straziante invocazione alla Madonna, la corona di spine che Giovanni le metteva sulla testa velata, l’addio finale, ne facevano un incalzante dramma che la folla riviveva e al quale partecipava con crescente partecipazione. La suggestione di quest’accorato canto era accresciuta dalla penombra in cui restava la Chiesa, con i suoi altari velati di viola, col grande Cristo deposto ai piedi della statua di Maria e la partecipazione degli altri due seguaci che s’immedesimano nella loro parte drammatica, sino a versare vere lacrime.
Dopo, avveniva la sacra rappresentazione della Morte di Nostro Signore, detta popolarmente, “ S’Agonia” o“Su Scravamentu”, termine derivante da “declàvament” (parola di origine spagnola), doves’inscenava la Deposizione dalla Croce. Una curiosità, a riguardo, è data dalla caratteristica del corpo di Cristo, che si prestava ai movimenti grazie alla snodabilità dei suoi arti, così predisposti proprio per consentire di modificarne la postura durante la funzione: simulacri che hanno avuto origine per lo più nel Settecento e nei primi anni dell’Ottocento da scultori specializzati nel settore. Il Crocefisso conservato nella nostra Parrocchia, oltre che suggestivo è anche molto antico: conosciuto anche come Crocifisso nero, è situato nella terza cappella a sinistra, la stessa che è utilizzata per “Su monumentu”. Risale al Trecento ed è una delle opere migliori della scuola d’arte spagnola, anche se si deve, molto probabilmente, a uno scultore sardo, che si era ispirato al modello di un Crocefisso di Santa Maria in Campidoglio di Colonia (Germania), risalente all’anno 970. Esistono solo altri quattro modelli simili a questo, compreso quello di San Francesco in Oristano, detto di Nicodemo. È un’opera di rara preziosità: il corpo è alto m. 1,60 e la larghezza delle braccia è di 1,50. In questo capolavoro, il dolore del Cristo sofferente è espresso in modo mirabile: il volto segnato, la tensione dei muscoli pettorali e la posizione delle dita delle mani e dei piedi ne esprimono in pieno il patos. Il suo atteggiamento è sì sofferente, ma nello stesso modo raccolto e dignitoso, e ci rivela un Cristo umano, offertosi volontariamente. Nelle sue forme si rispecchia una mirabile armonia che attira l’attenzione e invita alla preghiera e alla meditazione. L’altare, al cui centro è collocato il Crocefisso, è preziosissimo: è di stile barocco, risale al 1711 ed è in legno dorato a oro zecchino. Il basamento, in legno, poggia su quattro colonne tortili che furono eseguite da provetti maestri mentre era canonico Don Gianpaolo Nurra. Il Crocefisso è stato rimosso poche volte: gli anziani rammentano, come date, il 1913, per ricordare, ai fedeli, la libertà che Costantino aveva concesso ai cristiani nel 313. In tale occasione le Confraternite, il sacrista e, infine, il popolo, a turno, lo avevano portato in processione per tutto il paese. Dopo settantacinque anni, nel 1988, era stato ancora rimosso. Nell’Anno Santo della Redenzione del 1983 fu scelto come emblema e simbolo della cristianità.
Il venerdì, sotto il pulpito, su un palco elevato fin dalla sera precedente, si elevava una grande Croce col Cristo Crocefisso; intorno, stavano delle comparse: Maria, la Madre di Gesù, Giovanni Evangelista, Maria Maddalena, Giuseppe D’Arimatea, Nicodemo e alcuni bambini, vestiti da angioletti. Uno dei giudei teneva in mano una spada con una spugna infilzata; l’altro portava una scala sulle spalle. La Maddalena portava in mano un telo e San Giovanni un’ampolla d’olio e aromi; alcuni partecipavano come figuranti, chi faceva l’ancella, chi il legionario, altri, partecipavano come spettatori. I soldati indossavano i calzari e le armature del tempo romano; altri figuranti indossavano cappucci e vesti bianche. A estrarre i chiodi dalle mani e dai piedi di Cristo erano due “comparse” che rappresentano Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo. Delicatamente, schiodavano il primo chiodo dalla mano sinistra, poi il secondo dalla destra, poi il terzo dai piedi incrociati. I chiodi erano, poi, deposti ai piedi della Madonna; in seguito anche la corona di spine, levata dal capo di Gesù, era posta intorno alle mani, giunte in preghiera, della Madonna. Il Cristo, schiodato, tenuto in alto con una fascia che gli passava nel petto e sotto le ascelle, era fatto scivolare e adagiato sulle braccia protese della madre, e, sistemato in una bara di stile barocco, rivestita di seta; ad assistere alla pietosa azione vi erano “Is veronis”. Ogni parola pronunciata dal sacerdote, durante queste operazioni pietose, giungeva al cuore dei fedeli presenti che, commossi e prostrati, pregavano con fervore. Il simulacro diCristo nella bara, usciva dalla sacrestia, annunziato dai “tricchi-tracche” dei chierichetti e dalla nuvola d’incenso che precedeva il parroco in piviale con l’ostensorio, sotto il baldacchino; lo accoglievano i canti, non senza il pianto delle donne al passare del Cristo morto. L’ultima scena di questo sacro spettacolo si svolgeva a sera con “La processione del Cristo morto”, nella bara, per le vie del paese; si faceva la Via Crucis, una processione con fiaccolata. Si sostava nelle stazioni prestabilite, davanti a una piccola Croce affissa al muro, adornata di fiori freschi. Si passava in vicoli stretti e bui, dove il tempo, sembrava essersi fermato, e nell’aria fresca della notte, si respirava forte l’odore della cera, di candele che si consumavano dentro i cartocci rossi, degli oranti in processione. Un odore che sapeva d’antico. Più che una processione, era un corteo funebre, rischiarato da lanterne e torce, con la popolazione che cantava le antiche laudi nelle quali si enumeravano le offese e obbrobri fatti a Gesù, confessando la propria colpa: «Sono stati i miei peccati, Gesù mio, perdon pietà».Non mancava lo “Stabat Mater” e il “Miserere”. Il corteo, era preceduto dalla lettiera, seguito da Maria Addolorata, dalle comparse e dal popolo. Erano sempre presenti le Confraternite. Di sera tarda, mentre la Madonna restava in Parrocchia, il simulacro del Cristo morto, era accompagnato alla chiesa di San Pietro, dove i fedeli muti e compunti, gli baciavano i piedi, la corona di spine e i tre chiodi che uno dei membri della Confraternita presentava loro su un vassoio, ricoperto di un candido lino. Questo trasferimento del Cristo, detto “Processione del seppellimento”, avveniva in silenzio, senza pompa alcuna, quasi nascostamente: era carico di misticismo, di religiosità forte e contenuta. Un rito particolare, e ancora molto sentito, che affondava le radici nel dolore struggente di un distacco; andava oltre la semplice tradizione, la consuetudine pervasa dall’essenza magica della Quaresima. Non c’era folklore nelle celebrazioni e neppure esibizione, ma solo forti emozioni ben radicate in tutti: qui parlavano i simboli, il silenzio, l’essenzialità di riti austeri, che nulla concedeva alla spettacolarizzazione. Un particolare momento fatto di raccoglimento, di preghiera ma anche di attaccamento alle nostre tradizioni più radicate. La funzione del Rito “de Su Scravamentu” si protraeva fino a tarda sera.
I riti del Sabato Santo – Il “Tridum paschale”: La funzione del Sabato Santo era celebrata di mattina. Erano presenti ancora tutte le comparse: i Giudei senza la scala del Venerdì santo, la Maddalena, San Giovanni, e le cinque Confraternite, ognuna, sempre, distinta da una mantellina di diverso colore. Il sacerdote procedeva alla benedizione del fuoco, utilizzando i legni raccolti dal sacrista alla fine del “Marturius”. Si accendeva il cero pasquale e si procedeva verso l’altare, genuflettendosi per tre volte al canto “Lumen Cristi” cui il popolo rispondeva: “Deo grazias”; a ogni genuflessione si accendeva una candela. Seguiva il canto dell’“Exultet” che il sacerdote intonava dal pulpito. Terminato il canto, si procedeva alla benedizione dell’acqua della tinozza posta nel piazzale della chiesa: il sacerdote vi immergeva il cero per tre volte, riempiva le acquasantiere, riportava nel tabernacolo la pisside con le ostie consacrate, le donne toglievano i teli viola dalle immagini. Il sacerdote, appena finita la benedizione dell’acqua, avanzava verso l’altare, intonando il canto delle Litanie dei santi e si stendeva per terra fino al termine delle invocazioni; poi, seguiva una breve pausa, il tempo necessario per cambiare i paramenti sacri che dovevano essere di color bianco. La corale, nel frattempo, senza l’accompagnamento dell’organo, intonava il “Kyrie”; e al “Gloria in excelsis Deo” tutte le campane del campanile suonavano a festa. A queste si aggiungevano quelle che erano dentro la chiesa; infatti, alla destra dell’altare, in alto, c’era una campana di circa venti centimetri d’altezza con a fianco una ruota con dodici campane più piccole e una lunga fune. A questi rintocchi si aggiungeva il tintinnio armonioso dei campanelli dei chierichetti. Dal portone principale entrava Gesù risorto, liberato dagli ancoraggi: appariva in tutto il suo splendore con in mano una bandiera bianca, simbolo della vittoria sulla morte. Le campane di tutte le altre chiese, liberate dalle corde, suonavano “A gloria” (Tocchendu a gloria), per annunciare, anche a chi lavorava nelle campagne vicine, che Gesù era risorto. Chi le sentiva, si segnava con la Croce, e chi era in casa, batteva sulle porte con dei bastoni, convinti, con questo gesto scaramantico, di scacciare il demonio. Altri percuotevano gli agrumi, o altre piante, che non si decidevano a fruttare; altri, ancora, trapiantavano dei fiori, perché credevano che sarebbero cresciuti più belli e rigogliosi. Le donne, rimaste in casa, al primo squillo delle campane, scioglievano i bambini dalle fasce, stiravano le loro gambine e le stimolavano ai primi passi perché credevano che, agendo così, i bimbi non avrebbero avuto sofferenze alle gambe e sarebbero cresciuti sani e robusti. Poi i ragazzi correvano di casa in casa a portare la brace, affinché i focolari domestici potessero essere riaccesi con il fuoco benedetto. Servi, serve e ragazzi, di prima mattina, affollavano la Parrocchia, portando, con loro, brocche, bottiglie e pentole che riempivano d’acqua benedetta. Con l’acqua, ritornavano a casa; parte la tenevano per sé e parte, la distribuivano ad amici e parenti. Conclusa la cerimonia, la gente defluiva dalla chiesa per ritornare nelle case. Era questo il momento, in cui i ragazzi si sfrenavano un’altra volta: muniti di pertiche e di bastoni, attendevano, ansiosamente, il suono delle campane per precipitarsi sugli usci, sui portoni, sui mobili e li colpivano con violenza, per scacciare, “Po scuiai” lo spirito maligno che, secondo la tradizione popolare, amava nascondersi soprattutto tra gli anfratti. Nelle case, per festeggiare la resurrezione del Cristo, bussando alle porte, recitavano la formula “Alleluia, alligria, ch’e’ torrau su fill’e Maria”.
Anche oggi il “Tridum paschale” ha il suo centro nella celebrazione della Veglia pasquale, madre di tutte le veglie. L’assemblea attende, vegliando, la Risurrezione di Cristo; il tutto si svolge di notte. “La Liturgia della veglia” è formata da quattro parti: Riti della Luce, Liturgia della Parola, Liturgia battesimale, celebrazione Eucaristica. Il Rito della Luce inizia con la benedizione del fuoco di Pasqua. Segue la decorazione del cero pasquale (oggi facoltativa), con la Croce, l’alfa e l’omega, il numero dell’anno e i chiodi. Il cero pasquale acceso viene portato dal Diacono nella chiesa, al buio, ed elevato per tre volte mentre si acclama “Lumen Crhisti – Deo gratias”. La luce del cero pasquale è passata ai fedeli, e dopo che il cero è stato posto sull’apposito candeliere, inizia il solenne inno pasquale “Benedictio Ceri” oppure l’“Exultat”. Seguono le Letture bibliche, nove tratte dall’A.T. e due dal N.T. (epistola e Vangelo), lette dopo il Gloria, durante il quale nella chiesa si accendono tutte le luci e le candele. Segue la Liturgia battesimale con l’amministrazione del Sacramento.
“S’INCONTRU”: Per noi sanluresi, “S’incontru”(dallo spagnolo encuentro), è sempre stato un appuntamento molto importante, per ritrovarci tutti insieme. Non per niente, dopo i classici auguri di Buona Pasqua, quelli ormai divenuti obbligatori sono “Ad atrusu annusu.
Anche allora, come oggi, la Domenica di Pasqua, alle dieci, dieci e trenta, avveniva la processione de “S’Incontru” che ricorda l’incontro di Gesù Risorto con sua Madre. A un segnale convenuto la processione con Cristo Risorto usciva dalla Chiesa di San Pietro, con tutte le Associazioni, le Confraternite, i sacerdoti, i bambini vestiti d’angelo, la Maddalena, San Giovanni e un largo stuolo di fedeli. Dalla chiesa parrocchiale usciva un altro corteo con la Madonna, adornata con uno splendido velo di pizzo bianco e una corona d’argento. Dopo aver percorso un tragitto particolare per le vie del paese, s’incontravano in una delle due piazze principali: in “Sa Porta Noba” o in “Sa Porta de su Casteddu”. I due simulacri, portati a spalla dai Confratelli, procedevano in silenzio: i portatori avanzavano tra due ali di folla. Giunti sul luogo, appena i due gruppi si scorgevano, inchinavano le statue, come per un saluto, per tre volte, infine Gesù e la Madonna, erano posti l’uno accanto all’altro e incensati. Le Confraternite erano talmente esperte in quest’operazione da rendere quasi reale questo momento. I simulacri erano poi, rivolti verso i campi arati per benedirli; intorno, tra la musica della banda, il crepitio dei razzi e lo scoppio della “batteria”, si scioglievano le campane, tra gli applausi dei fedeli entusiasti e commossi che seguivano le due Statue per poi, accompagnarle trionfalmente in chiesa. La processione, accompagnata dal suono arcano e melodioso delle “launeddas“, rientrava nella Chiesa parrocchiale, dove era celebrata la Messa solenne. Le statue di Gesù Risorto e della Madonna, erano messe al centro della chiesa; una di fronte all’altra e vi sostavano per tutta la settimana. L’“Incontro”avveniva, anche allora, un anno in Piazza Castello e, quello successivo, in Piazza Porta Nuova, tradizionalmente assegnate dai sanluresi, perché in queste zone terminavano le case del paese e poi si estendevano i campi di grano e così si benedivano i campi. A Sanluri, infatti, il luogo scelto per l’“Incontro” non era casuale: nei terreni di Sanluri era d’obbligo, per antichissima consuetudine, la rotazione delle colture a grano e a fave; sicché mentre tutta la campagna a levante del paese era una distesa compatta di grano, a occidente era, invece, un’ampia distesa di fave e, viceversa, avveniva l’anno successivo. I contadini, logicamente, tenevano più al grano delle fave, e proprio per questo, l’“Incontro”avveniva sulla piazza che si affacciava sulle campagne seminate a grano perché si attendeva che Gesù risorto, raffigurato col braccio destro, sollevato, in atto di benedire, benedicesse appunto, il raccolto. A questo scopo, infatti, i due simulacri di Gesù e di Maria affiancati, dopo l’Incontro, prima di proseguire, vengono rivolti verso i campi di grano e fatti così sostare per alcuni minuti. Se, come vuole la leggenda, due farfalle bianche svolazzavano attorno ai simulacri, il popolo ne traeva lieti auspici per il raccolto e gli animi si rallegravano: in caso contrario, il popolo s’intristiva perché temeva una cattiva annata.
La cerimonia non è molto cambiata, le statue sì. La vecchia statua della Madonna era costituta da un telaio con la testa smontabile: per il Venerdì Santo e per l’Incontro le erano scambiati la testa e gli abiti; l’abito a lutto per Pasqua veniva sostituito da uno dai colori floreali chiari. Della vecchia statua di Gesù resta solo lo stendardo, un vessillo ricamato con su scritto “Alleluia”. Gli anziani raccontano che questo Cristo, in legno, era stato scolpito, al tempo dei pisani, da un assassino che per sfuggire alla giustizia, aveva chiesto asilo nella Chiesa di San Pietro; pentitosi, per tutto il resto della sua vita, aveva lavorato gratuitamente in questa chiesa. In un documento dell’Archivio Capitolare del Duomo di Cagliari (vol. 173, n.17), si legge che la statua del Risorto, conservata nella Chiesa di San Pietro, il Sabato Santo dell’8 Aprile del 1662 mentre era esposta al centro della chiesa, sudò miracolosamente alla presenza del Marchese e dei suoi figli, di fra Giovanni di Cagliari, di fra Agostino di Iglesias e di molte altre persone.
“SA SEPARAZIOI” o Ascensione: Alla processione dell’Incontro, seguiva la Domenica successiva, dopo la messa delle undici, quella della “Separazione”. Questa rappresentazione sacra si è tramandata solo a Sanluri, forse, attingendo da fonti spagnolesche. Rappresenta il mistero dell’Ascensione, in cui Gesù Risorto, ritorna nel Regno del Padre. Gli anziani la chiamano “Sa Pasch’e sa rosa”: l’appellativo ci fa pensare alle rose che sbocciano in questo periodo. Questa volta, si tratta di un’unica processione che, anticamente, percorreva le principali via del paese e si fermava (come avviene ancora oggi) nella piazza centrale detta “ Su Portaleddu”. È sempre stata una cerimonia un po’ triste e malinconica: in essa, le statue di Gesù risorto e della Madonna, dopo essere state avvicinate, come per un ultimo saluto, si separano, seguite da due distinte processioni. Il sacerdote e parte dei fedeli si fermano, in piazza, con la statua della Madonna che sembra seguire il Figlio con lo sguardo mentre un altro gruppo segue il simulacro di Gesù che veniva riportato alla Chiesa di San Pietro.
IL LUNEDÌ DELL’ANGELO: Di buon mattino, alle otto, il sacerdote, le Confraternite e un gran numero di fedeli si recavano in processione a portare la comunione agli ammalati. Al rientro, poiché la Pasquetta era per i nostri nonni, un giorno “pieno” in tutti i sensi, nonostante le ristrettezze dei tempi, non rinunciavano a una giornata di sano svago e di vita all’aperto. Si partiva da casa con le vivande messe sul dorso degli asini o nelle corbule, portate in testa dalle donne. Non c’era fretta alcuna. Si ritrovavano in comitive per sedersi sull’erba, consumare un abbondante pasto, ma soprattutto per potersi scambiare “l’assaggio”dei dolci. Se la giornata era radiosa, si mangiava all’aperto in campagna, altrimenti, ci si rifugiava in qualche vecchio casolare. Le mete preferite erano “Funtanò, Gilliadriri, s’Occidroxiu” e la chiesetta di Sant’Antioco, (oggi un rudere), edificata, dopo il 1610, per volere di un devoto sanlurese, Antioco Pitiri, in località “Bruncu de melas”, quasi al confine del territorio comunale di Villanovaforru, detta di “Sant’Antiogu becciu”, che prendeva come modello, per le sue dimensioni, la chiesa di San Sebastiano, ubicata nel centro storico. Qui, inoltre, ogni terzo Lunedì dopo Pasqua, molti devoti sanluresi, ma anche dai paesi vicini, compivano pellegrinaggi in onore del Santo. I bambini, che non potevano permettersi una scampagnata in compagnia dei genitori, si avviavano nei prati in compagnia delle Suore salesiane, cui si aggiungevano tutti i ragazzini che vivevano nelle “casermette” (Ex ospedale militare) . Quasi tutti avevano qualcosa nei loro piccoli cestini: c’era chi gustava ogni sorta di prelibatezza, chi mangiava solo uova sode cotte al forno a legna. Era, comunque, un appuntamento annuale atteso da tutti, ci si divertiva con poco e si rientrava a casa spensierati e felici per aver trascorso un pomeriggio insieme a tanti coetanei. Anche gli adulti si accontentavano con poco: consumavano uova, salsiccia, olive, formaggio, pane e dolci, favette fresche rosolate o lessate; il tutto, insaporito da allegri cicalecci, canti e dalle solite chiacchiere paesane. Prima che scendesse la sera, si faceva ritorno a casa, scambiandosi gli auguri di trascorrere tante altre Pasque nella serenità e nell’abbondanza: “Ad attrus annus” e tutti rispondevano “Deus bollada”.
La benedizione delle case “Sa beneditzioi de is domus”:La settimana successiva alla Pasqua, il sacerdote dava inizio alla rituale benedizione delle case, accompagnato dai chierichetti che tenevano sottobraccio “Su scatteddu de is ous“, un cestino in cui mettono le uova che, tradizionalmente, si regalavano al religioso. Tutti lo aspettavano con ansia e, quando arrivava, si spalancavano porte e finestre: il prete benediva la casa e le persone che ci abitavano, aspergendole con l’acqua santa. Il sacerdote portava sempre con sé una bisaccia perché in ogni casa gli regalavano il pane pasquale, “Su coccoi”, o altre cose preparate in casa, tra cui “Su pai’ e saba”, a forma di grosse ciambelle che veniva infilato in una lunga canna, di circa tre metri, che i chierichetti portavano, sempre appresso. Altri dolci come “pardulas, pirichittus, gallettinas” erano deposti dentro dei cesti; qualcuno, ma pochi, buttavano qualche spicciolo in un secchiello d’argento con dentro l’aspersorio.
Tradizioni popolari pasquali: Per quanto riguarda le tradizioni popolari è molto importante ricostruire gli usi che, almeno fino ai primi anni cinquanta, erano diffusi per andare a cercare oggi quello che rimane e non è contaminato dalle usanze moderne o d’altri mondi. La gente devota manteneva un clima di rigore e di sobrietà durante tutta la Settimana santa e partecipava assiduamente a tutte le funzioni religiose. Dal giovedì al sabato si lavorava poco, tutti erano concentrati nella pulizia degli spazi pubblici e privati come segno di rinnovamento. Gli agricoltori e gli artigiani deponevano gli attrezzi del mestiere per poi riprenderli dopo il Lunedì di Pasqua. Ancestrale risulta il rito delle pulizie della casa che si riconnettono con gli antichissimi “Riti di purificazione”. Nelle case si facevano le grandi pulizie perché dopo Pasqua e Pasquetta veniva il prete a benedire la casa. Si ridava la calce alle pareti e tutte, tranne quelle della cucina, erano decorate in vari modi: in basso si dipingeva un fascione di colore scuro, alto circa un metro mentre quello più in alto era di un colore più vivace, di solito celeste, verde o rosa. Molte donne, essendo la Pasqua “ua dì nodida” si sbizzarrivano con l’aggiunta di disegni floreali ottenuti con uno stampino; alcune riuscivano a realizzare dei veri e propri paesaggi che sembravano arazzi. Lavavano con “sa striggiua” (una robusta spazzola) i pavimenti in cotto (s’arraggiolla sadra); spolveravano “su strexiu de fenu” (i cesti), rinfrescavano “su ferrusmaltu“ (le pentole di ferrosmalto), lucidavano “s’arramini” (le pentole di rame) e adornavano con rami d’alloro e carta velina colorata, ritagliata a origami, “su parastaggiu“ (la piattaia ) e le lampade, le credenze, e foderavano i paralumi delle varie stanze. Abbellivano i letti, i tavoli e i lavabi con il corredo migliore, ma solo per pochi giorni; infatti, una volta che il sacerdote era passato per benedire, si riponeva il tutto nei cassetti insieme a tanta naftalina, affinché non si rovinasse.
Durante tutta la settimana si osservava il digiuno: il Giovedì santo si evitava di mangiare cibi grassi e a base di carne mentre erano concessi solo i legumi e anche i cani erano legati affinché non potessero bere il siero del latte. Le uova, unite nei vari impasti alla farina di grano, o a quella di fave e di ghiande (normalmente destinati all’alimentazione degli animali), cibo dei più poveri soprattutto nei periodi di carestia, erano riproposte durante la quaresima. Il Venerdì santo non si potevano consumare uova o latticini (Digiuno puro); il pasto rituale era composto di fave secche con le verdure e/o il pesce, in genere il baccalà. Solo il Sabato santo il pasto diveniva più ricco: si mangiavano le interiora dell’agnello (sa trottobia arrustu), le cui carni si consumavano la domenica, “i piedini” (is peixeddus) impanati o con sugo, la testa (sa conchedda). Terminati i duri giorni della Quaresima, e quelli più mesti della «Settimana Santa», la gente sentiva il bisogno di passare nell’allegria il giorno di Pasqua. Da questa gioia, dirompente anche dalla natura, ha avuto origine certamente il detto secolare «Contenti come Pasque». Pasqua era, infatti, la festa religiosa più sentita: la rinascita della natura e i riti che la celebravano, non potevano, non essere fondamentali nel mondo contadino.
La preparazione di quanto sarebbe comparso in tavola il giorno di Pasqua e il lunedì dell’Angelo, iniziava molti giorni prima. Era un rito che, talvolta, assumeva carattere collettivo, in particolar modo la preparazione e la cottura delle “pardule” al formaggio, dei “pirichittus” e degli altri dolci tipici delle festività pasquali, sempre caratterizzati dalla presenza di molte uova nell’impasto. Ogni famiglia iniziava a mettere da parte le uova molti giorni prima. Ci si procurava anche il formaggio fresco a pezzi, o in forma intera, per condire la minestra e per fare le pardule, le torte di ricotta e i ravioli. Per la Domenica delle Palme si confezionavano, con la pasta dura, is pramixeddas, artisticamente lavorate, quale simbolo della palma. Undolce tipicamente pasquale, e molto atteso dai bambini, era “su coccòi cun s’ou”, o “s’angui” che poteva essere un dolce di pasta di “pirichittu” (un dolce sardo) o di semplice pasta di pane. La sua forma era varia, da semplice ciambella a tralcio o a lettera dell’alfabeto (l’iniziale del nome del destinatario). La pasta era decorata aiutandosi con forbici e coltellini affilati per realizzare foglie, animali, fiorellini, picchi ecc., ma l’elemento caratterizzante era l’uovo che, con strisce di pasta, era fissato crudo con un po’ di albume prima della cottura nel forno, oppure già sodo (ou cottu a tostau). S’angui, se era dolce, veniva ricoperta di glassa e decorata con i diavoletti (sa traggera) e con carta d’oro. L’uovo più decorato era riservato per i figliocci. Il medico Salvatorangelo Ledda, nel 1884, in “Sanluri Statistica Medico – Storica”, così scriveva: “I dolci, dei quali si fa uso a Sanluri, in ispecie per la festività solenne della Pasqua sono: panisaba, (il pan sapato), pirichittus (gli zuccherini), pardulas (schiacciate di formaggio fresco a merletti), caschettas (ciambelle), pabassinas (pine d’uva passa)”. L’usanza “de s’angui” ha origini antichissime e rimanda a riti orientali: l’uovo, infatti, come simbolo di rinascita e di vita, faceva parte delle più antiche religioni orientali, tanto che la Venere di Pafo, la Giunone Pudica, la Cibele Siria, l’Iside egiziana, avevano per emblema l’uovo mistico che veniva a loro consacrato per chiederne la protezione. Pure il pranzo di Pasqua era un «rialzo» per tutte le mense, anche per quelle che la carne la vedevano, si o no, due o tre volte l’anno. Il pranzo prevedeva: una minestra “cun casu friscu” (con il formaggio fresco), “is cruguxiois” ravioli di ricotta e bietole o “is malloreddus” col sugo di salsiccia. L’agnello arrosto era monopolio delle mense più facoltose.
La Pasqua era il momento buono per allacciare fidanzamenti o per misurare le proprie possibilità economiche che si ostentavano in abiti e ornamenti nuovi. Per quest’occasione “is srebidoris”indossavano, sempre, un abito nuovo che era loro regalato dai “merisi” (dai datori di lavoro) e tutti ci tenevano a fare bella figura perché, allora, molti giovanotti che lavoravano assiduamente in campagna, in chiesa non ci andavano tutte le domeniche, ma solo a “sas festas nodidas”, alle feste più importanti come la Pasqua.
Bibliografia
Rosanna Pisanu, “Biblioteca della memoria”, Sanluri, 2005
Rosanna Pisanu, “I Cappuccini a Sanluri”, Sanluri 2009
Archivio comunale di Sanluri e di Cagliari
Colli Vignarelli F., “Sanluri, terra ‘e lori, Cagliari 1965
S. Ledda, “Topografia e Statistica Medico-Storica del Comune di Sanluri in Provincia di Cagliari 1884”
Pasquale Marica e Franz Silesu in “La settimana santa a Sanluri
Fra Antonio Maria da Esterzili, “Libro de Comedias”