5 Novembre 2020
Categoria : memoria e storia
“Notte d’azzardo e di pietà nello storico cimitero di Chiaramonti” di Carlo Patatu
L’apertura furtiva di una bara, in piena notte e al lume di candela, per accertare l’identità della salma di un prode soldato caduto al fronte durante la Grande Guerra
di Carlo Patatu
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Inaugurato nel 1879, in origine il nostro cimitero constava delle sole quattro aree, comunemente definite quadri e delimitate dai viali che s’intersecano nel punto in cui sorge la colonna sormontata da una croce di ferro. Il resto è venuto dopo. Molto dopo.
In quei campi erano interrate le salme, allora racchiuse in casse di solo legno. Le sepolture erano contraddistinte da un tumulo di terra con a capo una croce di legno grezzo recante nome e cognome del defunto, seguito dalle date di nascita e di morte scritte più spesso con la matita copiativa. E che pioggia e umidità facevano sparire nel breve periodo. Meno male che tiu Pedrantòni, il vecchio custode, aveva memoria buona e ricordava nomi e cognomi di quelli che chiamava bonariamente i suoi ospiti.
Il secondo quadro a destra, per chi scende a valle, oggi delimitato da una lunga teoria di tombe (famiglie Fumera-Brundu, Puggioni-Schintu, Accorrà-Cossiga etc.) era destinato ad accogliere i bambini che morivano prima di avere compiuto il decimo o forse il dodicesimo anno di vita. Non ricordo bene. Un’area apposita, sconsacrata si diceva, era invece destinata ai non credenti, ai non battezzati, ai suicidi e, comunque, a coloro che avevano rifiutato di ricevere i sacramenti in punto di morte. In occasione della commemorazione dei defunti, il sacerdote non sostava a pregare e a salmodiare nei pressi di quelle sepolture, così come invece faceva con le altre.
La cosa non mancò di crearmi qualche problema di coscienza. Da ragazzo non riuscivo a capacitarmi perché mai anche alla Chiesa, invece che al solo Comune, fosse permesso di ficcare il naso in una questione delicata, personale, umana e, aggiungo io, cristiana qual era la scelta dell’ultima dimora. Preferibilmente all’ombra di un cipresso, come auspicava Foscolo. Al contrario, tanta crudeltà non trovava riscontro quando il caro estinto disponeva di una tomba di famiglia. Nel qual caso, battezzato che fosse oppure no, credente o meno, in quella veniva inumato. Accanto ai propri cari trapassati. E con gli onori dovuti. Com’era giusto che fosse. Ovviamente, la cosa non stava scritta da nessuna parte; ma, si sa, le consuetudini sono dure a morire e, per giunta, fanno legge. Pertanto nessuno osava fiatare al riguardo, limitandosi al solito inutile mugugno. Con la fine della seconda guerra mondiale, le cose cambiarono radicalmente. E anche quell’usanza barbara fu disattesa e presto dimenticata. Oggi siamo ormai in pochi a ricordarla.
Anche il nostro cimitero accoglie le spoglie di giovani caduti in combattimento, nel corso degli eventi bellici susseguitisi dalla stagione risorgimentale ai giorni nostri. A costoro la comunità ha dedicato una tomba apposita: Sa lòsa ‘e sos Cumbattèntes . Vi si onorano pure i caduti in altre battaglie non belliche, combattute nella profondità delle miniere, in terre d’emigrazione. Fra le lapidi e le croci che ricordano quei giovani gene-rosi e valorosi, ce n’è una dedicata alla Medaglia d’Argento Pietro Cossu , “soldato da Chiaramonti”. Vi si legge la motivazione dell’alto riconoscimento concesso a quel giovane mitragliere, caduto appena ventunenne, quando il conflitto già volgeva al termine:
“Mirabile esempio di coraggio e di alto sentimento del dovere. Giunto tra i primi in un piccolo posto avanzato nemico, lo sbaragliava. Uscito sul parapetto della trincea per scoprire la postazione di una mitragliatrice avversaria che molestava il plotone coi suoi tiri, investito da una raffica e colpito a morte, lasciava gloriosamente la vita sul campo.
Monte Asolone, 24 Giugno 1918.
Le sorelle e i fratelli qui posero”.
Non lo Stato, non il Comune, ma i fratelli e le sorelle si fecero carico, negli anni Cinquanta del Novecento, di murare quella lapide. Quasi che quel giovane contadino si fosse sacrificato unicamente a beneficio dei propri familiari e non di noi tutti. Così va il mondo.
A margine della vicenda umana di Pèdru Còssu, mi piace ricordare quanto accadde quando la sua salma fu restituita ai familiari per essere tumulata in sa lòsa ‘e sos Cumbattèntes.
Preceduto da una comunicazione del prefetto al sindaco e ai genitori, il feretro dell’eroe giunse in paese qualche tempo dopo e fu onorato con un rito funebre degno della circo-stanza, oltre che del valore del destinatario. Chiaramonti si strinse attorno a tìu Màrcu Còssu e a tìa Bigliàna Muzzòne , che piangevano sconsolati il loro Pèdru. Ma tìa ‘Igliàna, pur in lacrime e distrutta dal dolore, era ulteriormente angosciata dal sospetto che in quella cassa da morto con tanto di sigillo dell’autorità militare, non ci fosse l’amato figlio. Voci incontrollate favoleggiavano di bare che, nella migliore delle ipotesi, racchiudevano un corpo scelto a caso. O addirittura un sacco di terriccio. Così, tanto per soddisfare il comprensibile desiderio dei parenti di piangere su un’urna purché fosse. Non c’era alcunché di realistico che potesse supportare un sospetto così atroce. Ma intanto la povera donna non sapeva darsi pace. A nulla valevano le parole di conforto che parenti e amici, in simili circostanze, non mancano mai di rilasciare. Anche in sovrappiù. Ed ecco che, per placare quell’angoscia struggente, alla mia bisnonna materna Chìcca Muzzòne , cugina di tìa ‘Igliàna, balenò un’idea che, a prima vista, poteva sembrare stravagante; ma anche un po’ sacrilega: per mettersi l’anima in pace, non restava che aprire la bara e accertarsi di persona che il morto fosse proprio il povero Pèdru.
Ma come fare?
Disposizioni di legge, puntuali e severe anche a quel tempo, vietavano di ficcare arbitrariamente il naso in tombe e feretri. Con un’aggravante, nella circostanza: il sigillo col piombo dell’autorità militare. Che doveva far fede sul contenuto del sarcofago. Ma bisnonna Chìcca era una donna determinata, dal carattere forte, temprato da più di una sventura. Con le palle, si direbbe oggi. La malasorte l’aveva resa vedova in giovane età e con una figlioletta da crescere (mia nonna Paolina Murgia). Inoltre le aveva riservato un altro lutto: la scomparsa dell’unica sorella Baìnza , appena ventisettenne, vittima della terribile epidemia detta Spagnola .
Confidò quella sua idea sorprendente al proprio genero; e cioè al mio nonno materno Salvatore Pulina. Che, evaporato lo stupore iniziale, si adoperò subito per dare corpo al progetto. Ma a una condizione, disse: Màrcu non doveva essere messo al corrente della cosa. Di tanto in tanto, a quell’uomo non dispiaceva alzare il gomito; e, quand’era alticcio, si lasciava andare a dire cose che avrebbe fatto meglio a tenere per sé. Insomma, in fatto di mantenere un segreto non dava affidamento alcuno. Messa pertanto a parte del progetto la sola tìa ‘Igliàna, non senza fatica nonno Pulina riuscì a coinvolgere nell’impresa il becchino Michèli Pòdda e un fabbro-ferraio. Calata la notte, i tre s’incamminarono furtivamente per la strada del cimitero, in compagnia di bisnonna Chìcca Muzzòne. Nonna Murgia e mamma Cìccia (che all’epoca era bambina) andarono a tenere compagnia a tìa ‘Igliàna. Per confortarla; ma anche per tenere a bada tìu Màrcu.
Il percorso, tutto in salita, fu coperto dai quattro in men che non si dicesse. Ovviamente al buio, immersi in un silenzio angosciante. Si lasciarono alle spalle il paese addormentato e giunsero col fiatone al piazzale di Cunvèntu. Da qui si accede al cimitero.
Entrati nella camera mortuaria, dove il feretro sostava in attesa della sepoltura, si misero lesti all’opera. Non c’era tempo da perdere. Nonno Pulina e bisnonna Chìcca tenevano in mano i lumi a petrolio; il fabbro, con la perizia che gli cantava, prese a dissaldare il coperchio della bara di zinco; il becchino con l’orecchio teso a intercettare eventuali rumori provenienti da fuori. All’interno, com’era ovvio, regnava un silenzio assoluto. Ma inquietante. Madidi di sudore freddo, i quattro, più che quella dei fantasmi di anime errabonde, paventavano la comparsa del maresciallo dei Carabinieri. Che, in simili circostanze, non avrebbe esitato un attimo a mettere mano ai ferri e arrestarli. Di sicuro sordo a ogni possibile scusante, ancorché supportata da ragioni comprensibili di affettività e carità umana.
Come Dio volle, la bara fu scoperchiata. La salma di Pèdru, ben riconoscibile anche per un segno particolare che ancora appariva evidente sul capo, si presentò in tutta la sua solennità macabra alla vista esterrefatta dei quattro. Ben composto e rivestito della divisa d’ordinanza, il corpo giaceva supino con le mani incrociate sul ventre. Come d’uso. Tutti si fecero compunti il segno della croce. Mia bisnonna posò sulle mani del prode mitragliere un rosario, segno di pietà immensa per quel giovane sventurato che, affacciandosi alla vita, lo fece dal parapetto di una trincea, pur consapevole di avere per dirimpettai avversari che non perdonavano. E che infatti non gli perdonarono quell’imprudenza, dettata forse da sentimento patrio misto a baldanza giovanile. Da un paio di mesi aveva compiuto ventuno anni.
Tìa ‘Igliàna, confortata dalle testimonianze di sua cugina Chìcca e di mio nonno, si mise il cuore in pace e continuò a snocciolare rosari accanto a sa lòsa ‘e sos Cumbattèntes. Che, ne era certa finalmente, custodiva per sempre i miseri resti del suo Pèdru, fìzu dechìdu.
Nella foto, Pietro Cossu