Premessa e “La fidanzata negata” di Ange de Clermont
Premessa:
Questo romanzo giallo-noir-rosa è puro frutto della fantasia dell’autore. Personaggi e storie possono essere anche verosimili, ma l’autore avverte che non si tratta di quelle che qualche lettore vorrebbe ravvisare. Gli stessi luoghi e paesi, pur rassomigliando a luoghi e paesi esistenti, sono inventati di sana pianta e non sono da identificarsi con quelli.
Il lavoro è puro frutto di fantasia e lo stesso autore Ange de Clermont è scomparso nella nebbia dopo aver scritto questa storia.
Tocca a me continuare a correggerlo chissà per quanto tempo. D’altra parte non posso sottrarmi alla bisogna perché quel mezzo lestofante del compianto Ange de Clermont mi ha fatto giurare prima d’essere risucchiato dalla nebbia. (A. T.)
La fidanzata negata
Quella notte il portone della chiesa di Santa Giusta, che sorge nell’omonima valle dell’Anglona, nel Nord Sardegna, non fu chiuso da Maria Giusta Molinas, ma restò aperto e cominciò a sbattere sinistramente. I teschi dei quattro banditi, murati a due a due sulle pareti ai lati del portone, assumevano smorfie paurose, quando i fulmini che si accendevano all’improvviso li illuminavano, lasciando il posto ai tuoni rumorosi e all’urlo del vento che spazzava la valle, da tempo immemorabile, bonificata dai Camaldolesi, che in questo luogo avevano fissato la sede del loro monastero, di cui restavano i segni delle mura, inghiottite dall’erba che tre cavalli neri al pascolo avidamente strappavano.
Ombre fosche seguivano altre ombre e i pioppi intorno al rio tremavano con un fragoroso sbattere di rami e di foglie moribonde.
La santa adolescente, martirizzata nel 132 dopo Cristo, assisteva impassibile a quell’irosa tempesta, mentre gli ex voto, appesi alle pareti, tintinnavano a guisa di tenui campanelle.
La sorgente, sbucando dalle viscere del presbiterio, continuava a scorrere per dissetare i settecento abitanti di Murtis, tappati nelle case per il temporale del 12 agosto del 1880.
In alto, a nord est, la torre dei Doria di Miramonti, tra fulmini e tuoni rischiava di cadere sui tornanti della sterrata che dalla fonte di Spurulò saliva verso il paese, arroccato sui pendii del monte di San Matteo e di Codinarasa.
I paesani quella sera non facevano che mormorare sull’impudente che aveva osato penetrare furtivo nella casa di Matteu Brancone, per violare la stanza dell’affascinante figlia diciottenne Lughìa.
Lo spasimante, vistosi scoperto dalla servitù, dopo averle giurato amore eterno, aveva spiccato il volo dalla finestra dell’angolo del palazzotto, ubicato in Pala ‘e Chercu, si era dato ad una fuga precipitosa.
Matteu Brancone aveva convocato il più esperto tiratore dei suoi compari, per dare la lezione definitiva a Nigola Biddu, visto che di lui si trattava.
Il giovane, fascinoso e piacente, tutto nervi e passione, voleva sigillare il suo amore con la sua Lughìa, cogliendola come un fiore, ma non aveva fatto a tempo e si era dato alla fuga attraversando a passo svelto Carruzzu Longu, Caminu ‘e Cunventu, la sterrata che costeggiava Su Campusantu, aveva raggiunto i folti boschi di querce di Monte Ozastru, dove aveva rallentato il passo un po’ per il temporale e un po’ per il pendio scosceso del monte e, attraversata la valle di Santa Giusta, immersa nella tempesta, era scomparso verso Monte Ledda, in direzione di Vulvu, nel tentativo di raggiungere forse qualche porto per il Continente o per la Corsica.
Matteu Brancone, avvertito dai servi, mentre s’intratteneva con l’amante di turno, (era rimasto vedovo con cinque figli), fu contrariato, si rabbuiò, si vestì rapidamente e con passo iroso lasciò la casa dell’amante in Carruzzu ‘e Ballas e raggiunse la sua abitazione non prima di aver dato ordine ad uno dei servi di chiamare a colloquio compare Zinubiu Cibresu.
-Mortu lu cherzo cussu fizu ‘e bagassa, lu cherzo mortu!- [Lo voglioio morto quel figlio di meretrice, lo voglio morto]
Cibresu non potè replicare tante erano i favori e le grazie ricevute da Matteu Brancone e uscì dalla casa del compare, armato fino ai denti e pronto a far fuori il temerario. Non pensò nemmeno lontanamente di passare nel suo casolare di campagna a salutare la sua avvenente e sensuale moglie, che ancora non gli aveva dato un figlio, ma che produceva più di un un paio di buoi tra perette di formaggio e salsicce e che lo onorava imbandendo lauti pranzi agli amici e, secondo le malelingue del paese, offrendo talvolta, in assenza del marito, le sue più segrete effusioni a qualcuno di essi.
In realtà Maria Giusta era un’ottima moglie, a parte la bellezza conturbante del suo corpo e del suo viso e i suoi occhi neri espressivi e penetranti, per i quali le donne del borgo crepavano d’invidia.
Lei aveva fatto voto a Santa Giusta, impegnandosi ad aprire la mattina e a chiudere la sera il portone della chiesa campestre, priva di eremitano. Il tempio distava mezzo chilometro dal suo casolare, ben protetto dai massi ciclopici de Su Crastu Biancu e ricco di fertili pascoli e sorgenti. Il voto era stato adempiuto e lei era certa che la santa non l’avrebbe abbandonata nei momenti del pericolo e nelle richieste di grazie.
La Santa solitamente allontanava tuttavia più dai pericoli dell’anima che non da quelli del corpo, sebbene largheggiasse anche con questi ultimi.
Zinubiu Cibresu conosceva benissimo Nigola Biddu e l’aveva accolto volentieri tra i suoi amici in un primo tempo, ma l’aveva cancellato dall’elenco dal giorno in cui l’aveva visto con lo sguardo puntato sul prosperoso seno della moglie Maria Giusta. Ora lo avrebbe fatto fuori rapidamente e senza provare scrupoli di coscienza, in territorio di Vulvu, dove secondo lui, il temerario sarebbe andato a parare per forza di cose. Lo avrebbe atteso dietro un muretto a secco e giù, con due fucilate, l’avrebbe fatto fuori e, pace all’anima sua, ed egli sarebbe rientrato in paese tranquillo come un cacciatore di pernici.
La mietitura era finita nelle tanche e così la trebbiatura sull’aia vasta di Codinas, pensava tra sé il sicario: quel mangialibri di Nigola non avrebbe avuto scampo nascondendosi in mezzo ai campi di grano; doveva per forza di cose seguire il sentiero di Orria Manna, attraversare le campagne a est di Vulvu e poi dirigersi, passando per Bergu, verso il mare, per raggiungere un pò fortunosamente Santa Teresa di Puddùra.
Il giovane sicario camminava spedito, da quando il temporale maledetto s’era attenuato, tra le querce di Monte Ozastru e gli pareva di sentire nell’aria il profumo caratteristico di quel femminalzu, che aveva trascorso parecchi anni in continente e si era addottorato in medicina e che sicuramente aveva conosciuto molte femmine, ma che attirava pure le giovani compaesane, essendo di sangue caldo, dicevano.
– Figlio di bagascia, ma chi te l’ha fatto fare a importunare Lughìa dal momento che compare Matteu t’aveva già detto di girare lontano dalla sua casa. Vedi un pò che cosa mi tocca fare, ucciderti come si uccide una volpe, di notte, visto che volevi mangiarti la cerbiatta più florida di quelle nate in casa di compare Brancone. Miserabile fiagosu chi non ses atteru, a ti podisi ettare subra Giuliana; compare te l’avrebbe data, con ricca dote, su un piatto d’argento! E no, malanno, volevi la migliore, adesso avrai i pallettoni migliori del mio fucile!-
Così almanaccava tra sé il tiratore Cibresu, mentre per poco non si ruppe l’osso del collo saltando il muretto a secco della vigna di Billia Mireddu tra Nicu e Lariga.
-Maledizione- esclamò – Fizu ‘e bagassa, t’acconzo eo sos corros, prograbu mortu!- [Te le sistemo io le corna, cinghiale morto.]
-Matteu Brancone dopo aver spedito il messaggero di morte era entrato nella stanza della figlia e l’aveva apostrofata rudemente:
-Contenta sei di essere diventata la burla del paese e di aver dato ai più miserabili l’occasione di coglionarsi di me. Quel dottorucolo non l’avrai a costo di ammazzarti con queste mie stesse mani, svergognata. Eo t’appo fattu e deo ti distrùo.[Io ti ho fatto e io ti distruggo!]
Te l’ho detto mille volte, quel cippiri ciappara non lo voglio in casa. Non ha un becco d’un quattrino e la sua laurea vale meno d’un soldo. Medici-chirurghi senza beni ce ne sono troppi in paese e tu non devi andare a vivere con uno che ti farà morire di fame.Con un fanfulla!
C’è quel tuo cugino secondo, di Uttìu , con beni al sole. Ti ho promesso a lui, sposerai solo lui e basta e se no te ne starai zitella qui finché campo io.-
– Mezzus mi occo.- esclamò la ragazza – ma cussu immanueru riccu, ma limbidentu deo non lu cherzo, né como né [Meglio mi uccido, ma quel cugino secondo ricco, ma balbuziente non lo voglio né ora né mai!]
-Se non fosse per quella buonanima di tua madre, questa sarebbe la tua ultima notte.-
Esclamò il padre, sbattendo la porta con studiata violenza, mentre abbandonava la camera della figlia.,
Senza perdere troppo tempo, Matteu Brancone tornò dall’amante Nanna Bellanca, per completare l’amplesso interrotto. Dovette raccontare i fatti suoi alla donna, lasciata a bocca asciutta, le sfiorò le labbra e poi fu più veloce di un coniglio selvatico: un fulminio vedovile remedium concupiscentiae, incurante della donna.
Si rivestì e le ordinò di passare a casa sua l’indomani per prendersi il consueto starello di grano. Quella era la sua generosa ricompensa per ogni convegno amoroso. Non era poco per i tempi magri che correvano in tutta l’Anglona .
-Tempus malu, saccu boidu.- dicevano gli anziani.[Tempo malvagio, sacco vuoto!]
Matteu tornò a casa sua e nonostante l’episodio di violazione del domicilio da parte di Nigola Biddu, si addormentò sicuro che l’indomani avrebbe messo in giro qualche storia per distogliere le chiacchiere dalla figlia, a meno che la sorte non l’avesse aiutato altrimenti.
Le campane della messa dell’aurora, a Miramonti, suonarono puntuali e le fedeli beghine si recarono in chiesa. Il vicario, visto che di lì a pochi giorni sarebbe stata festeggiata l’Assunta, con la messa solenne, il panegirico e la processione della Vergine dormiente, accorciò la predica del triduo e in trenta minuti celebrò messa. Mentre si toglieva i paramenti in sagrestia, completando sottovoce il ringraziamento eucaristico, giunse affannato un servo pastore dei Molinas a portargli la tragica notizia: Maria Giusta era stata trovata morta a cento passi dalla Chiesa di Santa Giusta, sotto Su Crastu Biancu, mentre sotto il temporale si recava a chiudere il portone della chiesa che, rimasta aperta per tutta la notte, era mezzo allagata.
Il vicario rimase scosso e non poté fare a meno di parlarne alle santiche ancora presenti.
La notizia si diffuse, grazie alle beghine, in tutto il paese e le donne cominciarono a chiedersi su come fosse morta la pia donna, dato che si sapeva che era di florida salute e inoltre tanto devota come lasciava intendere il suo voto di chiudere e aprire il portone della chiesa di Santa Giusta.
Del marito nemmeno l’ombra, i cugini Molinas non riuscivano a capacitarsi su come fosse morta. Né riuscivano a capire la scomparsa del marito, e dire che la sera prima avevano banchettato insieme e bevuto dello squisito moscatello che un cugino di Miramonti, proprietario di vigne, aveva loro donato. Poi era giunto un servo di Matteu Brancone e subito aveva lasciato il convitto, per un lavoro urgente, aveva detto.
Maria Giusta, a parte un segno viola intorno al collo, non presentava nessun’altra violenza sul corpo. Giaceva composta sull’erbetta fresca da pascolo, con gli occhi che l’assassino le aveva pietosamente chiuso; le mani sul petto e il vestito in ordine; mancava solo il rosario.
I carabinieri, giunti sul posto, avvertirono il pretore di Vulvu per rimuovere la salma e un medico del luogo, da lui incaricato, osservando il corpo, sentenziò che qualcuno l’aveva aggredita e strangolata a metà strada tra il suo casolare e la chiesa.
Del marito Zinubiu Cibresu non si sapeva niente, anzi qualcuno, ma non si seppe chi, aveva sparso la voce che fosse partito qualche giorno prima per l’acquisto di un paio di buoi da un commerciante di bestiame di Bergu, a quattro ore di cammino da Vulvu e non lontana dalla marina di Lu Ragnu, vicina a Castelbardo. Solo i cugini sapevano che era stato chiamato a fare un lavoro urgente per Matteu Brancone, ma si guardarono bene non solo da dirlo ai militi, ma di ricordarselo tra loro.
Un servo del cugino, Bachis Molinas, per salvare la faccia, fu spedito a cavallo a Bergu, per rintracciarlo e comunicargli la morte della moglie.
In paese bocche cucite, solo tra comari strette si ricordavano che, certo Maria Giusta non era davvero una santa, era troppo attraente e desiderata e con ciò stesso causa di tentazione e, qualche beghina aggiungeva, di peccato, anima mia libera, naturalmente.
Dei cinquecento uomini adulti dell’abitato, almeno trecento, avevano peccato di desiderio a causa sua, tanto che il vicario più d’una volta l’aveva ammonita segretamente, invitandola a vestirsi con modestia, passandosi, se del caso, delle fasce nelle parti di maggior peccaminosità: la modestia e l’umiltà dovevano essere le prime virtù della donna maritata, secondo il Manuale de algunos istados de vida della buonanima del rettore Fossu di Barraghe, miramontese di nascita.
La poveretta, ignara di quella brutta fine, vista la benevolenza del vicario, si era assunta pure quell’impegno con la santa della quale portava il secondo nome.
Dopo due giorni dovettero farle il funerale senza il marito che il servo dei cugini non era riuscito a rintracciare nemmeno a Bergu.
I funerali videro una grande folla assiepata al centro del paese, fuori e dentro l’oratorio di Santa Rughe, visto che la parrocchiale di Santu Matteu, posta sulla ripida Rocca dei Doria, in cuccuru a sa idda, non era raggiungibile nei giorni di tempesta: celebrare lassù significava mettere a repentaglio l’incolumità dei fedeli.
Una lunga teoria di folla seguì il vicario il funerale, mentre un giovane chierico di famiglia nobile salmodiava in gregoriano il Miserére mei Deus. Percorsa la piazza dei Balchi, la discesa dell’oratorio de Su Rosariu, la bara, ricoperta da un manto nero crociato di bianco e portata da quattro uomini, imparentati coi Molinas, percorse la ripida salita di Caminu ‘e Cunventu e giunse davanti al convento dei Carmelitani ormai in abbandono da quando i monaci erano stati cacciati via nel 1866 da su Guvernu massonico che se n’era impadronito con tutto l’arredamento e l’archivio. Su Zimidoriu era nuovo, terminato da appena un anno: disseminato simmetricamente di cipressi fatti venire dalla Toscana, arricchito da alcune tombe monumentali dello scultore Sartorio, chiuso da un alto muro e da un portale monumentale in cima al quale stava scritto 1879.
La folla si aasiepò intorno alla bara, il prete asperse di nuovo la defunta e il nobile chierico, chiuse l’evento con l’augurale salmo in gregoriano in paradisum deducant te, angeli.
I cugini della defunta dispensarono dalle condoglianze i convenuti. La folla ridiscese lo scosceso sentiero de Caminu ‘e Cunventu per tornare nelle proprie arroccate case nel pendio nord est de su monte de Santu Matteu in parte; nel pendio di Pala ‘e Chercu in parte; alle pendici di Codinarasa nel rione Sa Niera, in parte.
Le pie miramontesi, prima di rientrare nelle case, fecero visita all’oratorio di Nostra Segnora de su Rosariu, ubicata nel percorso funebre e gli uomini, per scuotersi dalla tristezza, si recarono a bere un bicchierino nella bettola de su vulvuesu in Piatta: tutti ritenevano che rientrare in casa senza aver esorcizzato la morte in luogo alieno, avrebbe significato portarla in casa e, per quanto buoni cristiani, i miramontesi preferivano rinviarla preferendo vivere il più a lungo possibile in lacrimarum valle.
Al funerale però si era notata anche l’assenza di Nigola Biddu e la si giustificava con la fuga dopo la bravata; quella di Zinubiu Cibresu, marito della morta, le cui segrete missioni erano note, ma era meglio non solo accennarvi, ma nemmeno pensarci: compare Matteu Brancone con quei suoi occhi di ghiaccio poteva leggerti anche i pensieri, ed era meglio tenerselo amico per le annate magre. Le donne lo sapevano, alcune conoscevano anche l’ardore delle sue passioni, per cui bisognava non pensare male di lui così come del resto preferivano fare i mariti di queste, bravi massai e felici compari del possidente.
Insomma era inutile chiedersi chi avesse ucciso Maria Giusta: tutte le donne del paese, di tempo in tempo, avevano avuto qualche debolezza per qualcuno, perciò mal comune mezzo gaudio, ma non ci avevano certo rimesso la pelle.
I carabinieri, uno romano, l’altro toscano, più il brigadiere, calabrese, cominciarono le prime indagini chiedendosi su chi avesse potuto concepire ed effettuare quel crimine sanzionato dalla legge con parecchi anni di galera.
D’altra parte non c’era evidenza d’adulterio, c’era la novità dello strangolamento, ragion per cui poteva trattarsi di un delitto concepito da soggetto non indigena, ma straniero al luogo.
Gli indigeni ti sparano a pallettoni e altro non usano fare. Di certo nel continente sarebbe apparso come delitto maniacale, ma il continente era lontano, ergo restava il mistero.
Qui si arenava la fantasia investigatrice dei militi della Benemerita, ad eccezione di quella del carabiniere romano che in questi casi aveva bisogno di sedersi alla scrivania, elencare i probabili esecutori e mandanti e procedere alla cancellazione per esclusione. Spesso era riuscito ad avvicinarsi quasi al vero, ma non gli si dava credito.
Che cosa poteva partorire la testa di un ciociaro, in servizio a Miramonti? Fra i tre era il brigadiere calabrese che la faceva da padrone, e gli ordini e i pensieri dei superiori non si discutono, spetta loro l’ultima parola, questa, si ripeteva spesso, era la forza invincibile dell’Arma.
Una settimana più tardi rientrò in paese Zinubiu Cibresu, sfinito dai giorni di marcia.
L’uomo apparve a tutti frastornato dalla morte della moglie, che non aveva avuto tempo nemmeno di darli un figlio come compagnia per la vecchiaia.
Egli però sentiva molto di più il peso di quel fallimentare inseguimento e della brutta figura agli occhi del compare, che del resto si era scordato anche della missione di fiducia e quando di notte si recò da lui, la serva che gli aprì la porta gli disse:
-Vostro compare sta riposando, ma ha lasciato detto di dirvi, che i buoi sono stati ritrovati!-
Zinubiu rimase turbato, capì il significato del messaggio in codice e dal giorno non bussò più a quella porta, prendendo coscienza che la sua carriera di sicario era finita.
Si presentò ai militi della Benemerita, con la sincerità di un vedovo afflitto, con minacce di suicidio:
-Mi occo, mi occo!” [Mi uccido mi uccido], Cibresu urlava in caserma, zittito dai militi.
Naturalmente egli si voleva uccidere per la fallita missione per il compare e perciò piangeva, non certo per la morte della consorte della quale di lì a poco avrebbe sentito la mancanza economica: niente più salsicce a rotazione, niente perette di formaggio da vendere, niente invitati dai quattro venti dell’Anglona, niente orgoglio maschio per una così bella moglie.
Si recò al cimitero e le vedove che lo videro quasi disteso sul tumulo della defunta con gli occhi lucidi, dissero, specie quelle ancora in età di rimaritarsi, che pareva sincero e che non avrebbero mai creduto che tanto dolore si nascondesse in un uomo che faceva quella professione e gli si strinsero intorno per le condoglianze anche se tardive.
Nel paese, interrata la morta, scomparso l’audace aspirante, non si parlò più di Lughìa Brancone e il padre Matteu poté riprendere tranquillo la sua consueta vita di grosso possidente terriero, visitando l’azienda dal lunedì al venerdì e dedicando il sabato all’amante.
Queste chiacchiere ripeteva la gente anche se si sapeva che su questi episodi nascosti la verità era una chimera. Una comunità di fine secolo però senza queste chiacchiere, non avrebbe potuto campare, perciò la gente continuò a fantasticare di frasche e di tresche, di amori e abbandoni, di morti e di vivi.
-Cando b’at bentu bisonzat bentulare, cando enit triulas bisonzat triulare.-
[Qunado c’è vento bisogna ventilare, quando viene luglio bisogna vagliare.]
Il vicario pensò subito di trovare un sostituto di Maria Giusta per l’apertura e la chiusura della chiesa di Santa Giusta. Tra le carte trovò la richiesta inevasa di quella stravagante ligure di Sassu Giosso, aspirante eremitana: la donna viveva sola e come al solito correvano su di lei tante dicerie alle quali il vicario non aveva mai creduto.
Chiamò Elsa Campi e le conferì l’incarico, verbalizzandolo nel vecchio Chronicon della parrocchia.
Chiesa e santa non potevano essere trascurate, visto che la santa proteggeva generosamente i paesani anzi estendeva i suoi benefici anche ai vulvuesi, nonostante questi preferissero il vino all’acqua fresca della sorgente e per questo litigavano spesso talmente rumorosamente che le loro urla echeggiavano nella vallata della santa. Avevano litigato anche con i miramontesi a tal punto che festeggiavano la santa in giorni diversi da quelli, per averla tutta per sé che, in fondo, al di là degli eccessi alcolici erano più cristiani dei miramontesi: essi avevano, un tempo, una collegiata di canonici per il catechismo e la grammatica, ma soprattutto per il catechismo agrario e poi, proprio perché bevevano, facevano più figli ed erano più numerosi di quelli.
Ai miramontesi la santa dava la pioggia, dopo il terzo giorno in cui era portata in processione per il paese, guariva il mal di cuore, salvava dalla setticemia molte gambe giunte in cattivo stato per varie infezioni, salvava dalle cadute da cavallo in corsa, dai pericoli del viaggio all’estero ed esaudiva le preghiere delle mogli degli emigranti, soprattutto purificava la vallata dai brutti ricordi delle pesti medievali e da quella terribile schiera di presenze strane che spesso spingevano gli uomini al delitto.
In fondo, i numerosi ex voto appesi alle pareti della chiesa, proclamavano i favori ricevuti dalla piccola martire.
Il delitto di Maria Giusta, la fuga di Nigola Biddu sembravano archiviati, ma periodicamente tiu Nanneddu, il miscredente orologiaio di Piatta Balchi, che pare avesse venduto l’anima al diavolo, si chiedeva:
-Chi ha ucciso Maria Giusta?-
Già chi aveva ucciso la poveretta in quella terribile notte di tempesta?
La domanda restava sospesa nell’aria anche se quelli della Benemerita ritenevano che sotto ci fosse un mistero. Il bravo carabiniere romano tra un bicchiere d’acqua e uno di vino parlava con gl’indigeni e qualche bocca, a suo dire, si scuciva.
Col ritorno di Zinubiu e la scomparsa di Nigola Biddu il fuoco covava sotto la cenere a Miramonti. Il primo sembrava a tutti d’aver subito una decisa diminuzione della sua fama di “balente” mentre del secondo non si sapeva niente, solo congetture. Corsica, continente o confinato in altre regioni dell’Isola: in paese, buon per lui, non avrebbe dovuto fare più ritorno. Mica era cosa da poco quello che aveva fatto: aveva violato il palazzo di uno dei maggiorenti del paese. Se l’affronto lo avesse fatto ad una ragazza disagiata, magari in una stalla, avrebbero rinchiuso la porta e lo avrebbero tinturadu a fuste! Rinchiuso con un bastone di traverso alla porta e poi davanti ai convenuti avrebbe, lui e la peccatrice, ricevuto la gogna e soprattutto aggiustato tutto col matrimonio.
Lughìa Brancone, però, non era andata a peccare nella stalla!
-It’omine attrividu!- borbottavano le donne, in fondo un po’ invidiose di Lughìa.
D’altra parte a Zinubiu, il ricordo della moglie morta pareva rendere meno sicura la sua permanenza nella valle di Santa Giusta. Ogni notte ululati di cani, belati di pecore e muggiti di mucche gravide gli rendevano il concerto notturno più triste. Lo stesso canto della civetta lo intristiva: il futuro non prometteva bene. La stessa chiesetta detta di Santa Maria Maddalena del XII secolo, a mille passi da quella di Santa Giusta, sembrava avere subito l’oltraggio del vento che aveva scoperchiato in parte il tetto.
– Bi sun sos dimonios- [Ci sono i demòni] sussurrava la gente, dopo la morte di Maria Giusta Molinas. E tutte le notti si appostava nei pressi una civetta per emettere la sua monotona sinistra nenia, nenia che porta male non solo secondo i miramontesi e i vulvuesi.
E i demòni sembravano esserci davvero dal momento che ogni tanto, di notte, sei maiali ruspanti finivano per gettarsi nella scarpata del rio Iscanneddu che scorreva tra un mulino d’acqua a monte e uno a valle. Al mattino le donne si facevano il segno di croce e bruciavano i maiali annegati, invocando San Michele Arcangelo Defende nos in proelio.
I “La maschera dalla gonna capitina” romanzo di Ange de Clermont