L’infanzia in Sardegna tra Otto e Novecento

La situazione dell’infanzia in Sardegna tra Otto e Novecento

 

Nell’affrontare il discorso sulla storia dell’infanzia in Sardegna tra Otto e Novecento  occorre sottolineare che mentre la storiografia nazionale su questo tema ha già prodotto e va producendo dei buoni lavori d’indagine, colmando un po’ le distanze con quella europea, quella sarda procede più a rilento .

D’altra parte il tema è strettamente collegato agli studi sulla storia della famiglia sarda che, specie nell’ultimo decennio, almeno in campo più propriamente storiografico, non ha prodotto quei lavori che, invece, sembrano aver avuto più spazio in campo sociologico, antropologico-culturale e psicologico; per cui ad una più ampa trattazione del nostro discorso mancano quegli studi sulla famiglia che ne sarebbero stati il necessario supporto [2].

 

Altra lacuna è sicuramente la scarsità di studi di storia sociale e di storia sociale e religiosa relativi a questo periodo che interessino l’isola, studi che hanno rilevanza fondamentale per la conoscenza dei percorsi educativi dell’infanzia.

Si avverte l’esigenza di ricerche approfondite, per Otto e Novecento sardo, sui rapporti tra genitori e figli, sugli illegittimi, sugli orfani, come anche sull’avviamento al lavoro precoce dei bambini: per intenderci, sull’educazione del pastore, del contadino, dell’artigiano e in generale sullo stesso allevamento dei bambini di entrambi i sessi[3]. Tutti stimoli che ci provengono, del resto, non soltanto dalla produzione storiografica europea, ma anche da quella nazionale [4].

Altra remora, infine, ci proviene dalla scarsità degli studi sull’attività educativa svolta, specie dopo la loro graduale ricostituzione, dagli ordini e dalle congregazioni religiose maschili, attraverso l’educazione dei genitori e particolamente delle madri con i libri devozionali e dalla diffusione, specie nella dalle seconda metà dell’Ottocento alla prima metà del Novecento, delle nuove congregazioni religiose femminili senza le quali non avremmo avuto una forte presenza di maestre d’asilo negli stessi asili, giardini d’infanzia e infine scuole materne[5].

Ciò premesso, si può affermare che, dato il forte impianto familiare, in vari luoghi documentato, sembrano mancare nell’isola forme di diffuso abbandono dei minori, almeno nelle dimensioni conosciute nelle zone manifatturiere dei vecchi Stati italiani e in quelle industriali del neonato Regno d’Italia. Del resto l’economia isolana è contrassegnata da modelli di vita pastorale, tanto stanziale quanto transumante; da modelli di vita agricola, tanto nelle forme di prestazioni d’opera bracciantile quanto nelle forme di soccida e mezzadria; da modelli di vita artigianale e del commercio fisso e ambulante; da modelli di vita connotati dal terziario, più frequenti nelle zone urbane.

Al centro di questi modelli di vita, per il periodo preso in esame, quale luogo di aggregazione primaria sta la famiglia con i suoi stadi evolutivi e i suoi ritmi quotidiani, diversificati a seconda dei percorsi professionali e dello status socio-economico dei componenti; in secondo luogo, quale altra importante aggregazione a fini educativi, sta la Chiesa, alla quale fu demandato dopo l’Unità, il compito dell’ educazione dell’infanzia.

A ciò si aggiunga la forte crisi economica dovuta alle leggi protezionistiche e, dopo la breve ripresa dell’epoca giolittiana, la crisi socio-economica durante e dopo la prima guerra mondiale che allontanò circa centomila uomini, tra il 1914 e il 1918, dalle famiglie sia dei centri abitati sia delle campagne [6].

Si pensi, infine, a tutte le grosse contraddizioni del ventennio fascista, alla seconda guerra mondiale e alla forte crisi dell’immediato secondo dopoguerra, allorquando, all’inizio della ricostruzione, molti sardi emigrarono verso l’Italia settentrionale e i paesi europei. La ripresa graduale degli anni Cinquanta, l’inizio dell’industrializzazione e il boom economico connotano ovviamente gli anni Sessanta e Settanta anche in Sardegna.

E’ evidente che questi eventi, specie quelli negativi, con l’allontanamento della figura paterna dalle famiglie costrinsero molte madri, già addette allo svolgimento delle funzioni affettive e di custodia verso l’infanzia, ad ogni genere di attività produttiva e al conseguente abbandono quotidiano, sia pure temporaneo, dei bambini, il cui spazio educativo fino alla graduale diffusione degli asili divenne la strada [7].

Le famiglie sarde (che vanno dalle 91 mila alle 172 mila circa tra il 1850 e il 1899 e tra le 172 mila di inizio secolo e le 300 mila del 1960) vivevano in trecentocinquanta aggregati urbani rurali di modestissime dimensioni, salvo i tradizionali centri più popolosi di Cagliari e Sassari, rinchiusi entro mura ormai sbrecciate e in graduale demolizione dal 1830 al 1880; con forte espansione extra moenia dai primi del Novecento fino a giungere ai noti fenomeni dell’urbanesimo negli anni Cinquanta e Sessanta [8].

Perno dei nuclei familiari figura generalmente anche in Sardegna, come del resto avviene in ogni famiglia produttiva di contesto agricolo e pastorale, la madre, la quale, in questo periodo, a seconda dei cicli di fecondità, non sempre costanti (né si può documentare che, nel corso dei cento anni considerati, le famiglie fossero sempre numerose), mette al mondo un certo numero di figli, ma muore più frequentemente in conseguenza del parto.

Suo compito precipuo era effettuare la provvista periodica del pane e quella quotidiana dell’acqua, di badare all’allevamento delle galline e del suino, di provvedere alle provviste della legna o del carbone, alle pulizie del modesto abituro e del misero vestiario; inoltre, doveva farsi carico dell’allattamento, dello svezzamento e dell’educazione dei bambini [9]. Il padre, invece, era costretto a lavorare fuori casa, a meno che non fosse artigiano o negoziante, e, se pastore transumante o commerciante ambulante, era costretto a stare lontano dalla famiglia per mesi, a volte per tutto l’anno e a figurare più come rappresentazione simbolica che come reale presenza educativa [10].

Le tipologie famigliari di questo periodo variavano, per cui nei piccoli centri e nelle campagne erano presenti tipologie allargate, oltre che ai figli adulti e ai collaterali anche ai servi e alle serve; nelle città erano più frequenti tipologie nucleari. Da tutto ciò scaturivano i limiti dell’assistenza all’infanzia in generale in tutti gli ambiti familiari e in quasi tutti i modelli di vita, se si eccettuano, forse, le famiglie aristocratiche che affidavano l’educazione dei figli a vere e proprie serve-balie [11].

Nel periodo che va dalla metà dell’Ottocento alla metà del Novecento (ferma restando la necessità di più accurate ricerche), non si segnalano così importanti progressi, nelle condizioni igienico-sanitarie, da determinare una diminuzione della mortalità, per parto o per malattie infantili, così da poter dire che, ad esempio, diminuiscano gli orfani di madre, di padre o di entrambi i genitori; né può dirsi che diminuiscano le nascite illegittime.

Nei piccoli e nei grandi centri la maggior parte della popolazione abitava in case basse, dotate di una o più camere intercomunicanti, con tetti di canne e tegole, un focolare al centro della stanza di soggiorno, finestre estremamente ridotte, camere uniche per dormire, quando addirittura non si dormiva, specie negli stazzi e nelle pinnette, per terra sulle stuoie [12].

Assente l’acqua corrente dalle case, assenti i servizi igienici privati; persistente promiscuità tra animali e uomini, scarsa attenzione anche all’igiene della conservazione e dell’assunzione dei cibi; scarsa l’igiene personale, pochi gli abiti, quasi inesistenti le scarpe per i piccoli e per i grandi. Precari i mezzi per ripararsi dal freddo, sia dentro che fuori casa. Scarsa e incompleta l’alimentazione. Forte presenza di insetti all’aperto e al chiuso, frequenti veicoli di ogni genere di infezione.

Si conviveva nei centri abitati con galline, cani, gatti, asini, cavalli e maiali e nelle campagne anche con ovini, bovini e caprini. Ogni rione paesano o cittadino aveva il suo immondezzaio dove uomini e donne, bambini e bambine dovevano recarsi.quotidianamente. Specie nell’Ottocento le strade, come le case, erano in terra battuta, con fossi e pozzanghere ricettacolo di ogni genere di microbi.

L’Angius, autore delle voci sarde del Dizionario del Casalis (siamo alla metà dell’Ottocento), accenna agli odori nauseabondi che, specie nelle stagioni calde, promanavano da tutti i siti dei centri ruali. La stessa pulizia dei pochi e miseri panni e vestiti veniva effettuata o nei torrenti vicini al paese o nelle pubbliche fontane, dove, nella stessa acqua, diverse famiglie erano costrette a lavare e a risciacquare con detersivi naturali la propria biancheria [13].

Questi ritmi di vita richiedevano dalle madri e dalle figlie adolescenti una frequente assenza dall’abitazione, con il conseguente abbandono dei bambini che, non governati da persone adulte, andavano incontro a tutti i possibili mali e incidenti dentro e fuori casa. Bruciature presso il focolare, cadute, assunzione di alimenti non cotti o non lavati, sporcizia personale erano esperienze quotidiane per i bambini sardi. Gastroenteriti, broncopolmoniti, tifo e paratifo, congiuntiviti e tracoma, meningiti, cecità precoce, sordità e mutismo, cretinismo, idiozia ed ogni altro genere di malattia psichica erano di facile e rapida diffusione, per non parlare di cose più ordinarie quali scabbia, tigna, cimici e pidocchi. Periodica, poi, e costante per tutte le età la malaria, specie nei mesi primaverili ed estivi [14].

A ciò si aggiungevano le specifiche malattie professionali più facilmente contraibili nelle famiglie di pastori, contadini, artigiani e viaggiatori. Sullo sfondo di queste miserie materiali si svolgeva la violenza familiare e sociale dovuta alla durezza del clima morale: i conflitti tra uomo e donna, la mancanza di tenerezza nei confronti dei figli, considerati talvolta un pesante fardello da piccoli e già da fanciulli braccia da lavoro [15].

Il quadro sociale, sconvolto dalla fine dell’ancien régime, protrattosi in Sardegna fino alla metà dell’Ottocento, (si pensi ai servizi offerti precedentemente alla popolazione dai disciolti ordini religiosi e dal numeroso clero secolare), non poteva rapidamente ricostituirsi. Agli strati più poveri,pareva che oltre alla minestra francescana, fosse stata tolta la fede e inculcato l’odio per il clero e per la religione [16].

In queste condizioni di generale povertà se stavano male gli adulti stavano certamente peggio i piccoli, i più resistenti dei quali erano costretti a crescere nelle strade, in aggregazioni fra coetanei, denominate cricche o piccioccheddus de crobi a Cagliari, greffe o pizzinni pizzoni a Sassari, nelle quali i minori più deviati conducevano tutti gli altri a compiere ogni sorta di piccola delinquenza.

Scriveva il Sanna Randaccio ai primi del Novecento:

 

” I bimbi?! (…) I miseri bimbi dell’indigenza io li ho veduti nella città costretti a stare da mane a sera, per guadagnare un centesimo che aumenti la meschina economia domestica; io li vedo, i poveri bimbi di 4 o 5 anni, buttati sul lastrico a mendicare e ad apprendere i primi principi della più oscena educazione; io li vedo, questi piccoli paria della società cui non sorridono né baci né amore spesso incatenati tra due sgherri, come se fossero vecchi briganti della Calabria; e nella campagna, (…) li ho visti anch’essi, d’estate, sotto il fuoco d’un sole africano, intenti a spigolare sui campi mietuti; d’inverno, scendere intirizziti dal monte, con le spalle curve sotto il peso d’un fascio di legna, necessario per attizzare il focolare d’una misera casupola[17].”

 

Confermava questo fenomeno alcuni anni più tardi lo studioso Coletti:

” (…) tralasciavano persino di ricoverarsi nelle ore della notte sotto il tetto paterno preferendo all misero giaciglio il duro pavimento degli androni delle case o le gradinate degli edifici pubblici(…) sostituendo alla compagnia dei congiunti quella di altri disgraziati e coetanei(…)”[18]

 

A la Maddalena, quando si va a leggere nei libri dei seppellimenti le cause di morte si apprende che i bimbi muoiono per distrofia infantile, bronchite acuta, enterite, laringite, tubercolosi polmonare, morbillo, intossicazione intestinale, paralisi cardiaca, malaria cronica, meningite, sifilide ereditaria, nefrite. A queste malattie endogene si aggiungano gli incidenti: ustioni di terzo grado, annegamento in mare, autotintossicazione, ferita d’arma da fuoco accidentale, affogamento in mare[19].

Le immagini di bimbi scalzi, vestiti di cenci, abbandonati spesso a se stessi, educati dalla violenza spontanea della strada si susseguivano come sequenze di un film neorealista. Basti a questo proposito la visione eloquente di vecchie fotografie che sempre più frequentemente compaiono nelle tante mostre organizzate nell’isola in occasione di conferenze e convegni e successivamente inserite in saggi a stampa[20].

Agli inizi dell’Italia unita lo spettacolo miserevole di bimbi degli strati sociali più poveri si può dire affolli un po’ tutte le piazze e le piazzette dei centri abitati d’Italia: la Sardegna non fa eccezione [21].

L’isola, dopo oltre cinque secoli di autonomia istituzionale del Regnum Sardiniae, allo spirare del primo cinquantennio dell’Ottocento era andata a costituire con il Piemonte, la Liguria la Savoia e Nizza il primo nucleo di quello che diverrà il del Regno d’Italia.

Se dal punto di vista del rinnovamento istituzionale, per via della fusione con il Piemonte e della conseguente adozione dello Statuto carlalbertino, tutto ciò segnava un progresso, dal punto di vista sociale ciò determinò maggiori sofferenze per i ceti più diseredati [22].

L’immagine che la Sardegna dava di sé, per la sua arretratezza, eccitava per tanti versi lo spirito missionario di quelle congregazioni religiose che, dopo la bufera delle leggi eversive, andavano sorgendo o riprendendo vita un po’ ovunque, in modo più conforme ai tempi, in Europa e in Italia [23].

D’altra parte se sul finire della prima metà dell’Ottocento, nel Lombardo-Veneto prima e in Piemonte poi, ecclesiastici sensibili alle problematiche sociali si dedicavano ai diseredati e, tra questi, ai più piccoli, anche in Sardegna non mancarono figure di aristocratici e di ecclesiastici capaci di promuovere iniziative per l’infanzia. Gli asili “inventati” da Ferrante Aporti andavano diffondendosi a macchia d’olio un po’ in tutti gli Stati italiani, ma particolarmente in quelli dell’Italia centro-settentrionale, economicamente più avanzati, dove però anche maggiore era la necessità di provvedere all’infanzia[24].

L’eco di queste iniziative non poteva non giungere anche nell’isola, dove l’esigenza dell’educazione dei fanciulli di entrambi i sessi era fortemente avvertita.

.Ad ogni modo per gli esposti in Sardegna provvede la Provincia, che si assume l’onere, insieme ai Comuni interessati, di predisporre il pronto collocamento dei bambini a baliatico esterno, licenziandoli dai brefotrofi per affidarli a singole famiglie, preferibilmente campagnole. La tradizione catalana del Padre degli Orfani (in catalano Pare dels Orfes; in sardo Su Babu de Orfanos) sussisteva ancora non solo nelle sette città regie, ma anche nei piccoli centri, attraverso l’elezione annuale di un consigliere civico, regolarmente retribuito, cui spettava il compito di proteggere i fanciulli orfani e bisognosi [25].

I figli legittimi sia che nascessero e fossero allevati nei centri urbani e rurali, nei poderi dei pastori stanziali erano in genere ben curati dalla nascita fino al secondo anno di età durante i quali le mamme erano solite allattarli al proprio seno. Lo svezzamento in genere aveva inizio dopo i primi 24 mesi di vita, quando i bambini avevano già iniziato a muoversi in casa e nelle strade tra animali e adulti, liberi di muoversi, ma inconsapevoli dei pericoli legati al variegato mondo della strada in tutti i periodi dell’anno, lasciata ad un’educazione fisica irrazionale e scomposta, ad un’educazione cognitiva spontanea e tradizionale dei giochi, spesso ad una vita affettiva discontinua e contraddittoria da parte delle madri. Per quanto non sempre e non del tutto negativa quest’educazione della strada, tuttavia essa non garantiva quell’assistenza razionale e corretta che un’adeguata struttura per l’infanzia poteva offrire. Dai tre ai sei anni, prima della frequenza scolastica, i bambini crescevano acquisendo abitudini igieniche a rischio di malattie, abitudini di socializzazione spesso violente e rissose, un’adultizzazione precoce per l’avviamento a piccoli,ma precoci fatiche che potevano minarne la salute specie per i contatti quotidiani con gli animali domestici e con quelli selvatici nelle campagne. I figli dei pescatori spesso o erano ospitati nelle baracche non lontani dalle barche o stesse dove incombevano i pericoli del mare. Se la mortalità infantile dei bimbi sardi dalla nascita ai due anni è inferiore a quella dei bimbi della penisola, questa va aumentando dai due anni in su.

 

16.991 su 200 mila

 

[1] Per l’Italia cfr.V. HUNECKE, I. PELLEGRINI, Un problema di storia sociale. L’infanzia abbandonata in Italia nel secolo XIX , La Nuova Italia, Firenze 1974; C. A. CORSINI, Gli esposti in Toscana nei secoli XVII e XIX, in “Quaderni storici” 1976, 33; G. DA MOLIN, Illegittimi ed esposti in Italia dal Seicento all’Ottocento , in La demografia storica delle città italiane, Società Italiana di Demografia Storica, Assisi 1980; G. POMATA, Madri illegittime tra Ottocento e Novecento: storie cliniche e storie di vita , in “Quaderni storici” 1980, 44. Per quanto concerne l’Europa vedi:Enfance abandonnée et société en Europe, XIVe XXe siècle , Ed. École Française de Rome, Roma 1991; Storie cliniche e storie di vita , in “Quaderni storici” 1980, 44.

[2] Per la Sardegna G. NUVOLI, L’infanzia abbandonata ad Alghero dal Settecento al Novecento , tesi di laurea, Università di Sassari, Facoltà di Scienze Politiche, Anno Accademico 1987-88: M. C. SOTGIA, Il problema degli esposti nella provincia di Sassari dall’Unità alla Grande Guerra, tesi di laurea, Università di Sassari, Facoltà di Scienze Politiche, Anno Accademico 1993-94 . Vedi anche A. TEDDE, Famiglia e Scienze umane, in A. TEDDE, G. NUVOLI (a cura), Psicologia e famiglia in Sardegna. Rassegna di studi e ricerche (1980-1989), Delfino Editore, Sassari 1997 (in stampa).

[3] A. TILOCCA SEGRETI, I contratti di encartament ad Alghero tra il Cinque e il Seicento, in “Revista de l’Alguer” 1990, vol. 1, pp.167-183

[4] “Annali di storia dell’educazione delle istituzioni scolastiche”, 1994, 1, 1995, 2, 1996, 3. Oltre agli ormai noti studi sulla famiglia della rivista francese “Annales. Economies, Sociétés, Civilisations”, 1972, 4-5, p. 799, si vedano: PH. ARIÈS, L’enfant e la vie familiale sous l’ancien régime , Plon, Paris 1960; E. SHORTHER, The making of the modern family, Basic Book Inc., New York 1975; J. L. FLANDRIN, Familles, parenté, maison, sexualité dans l’ancienne société, Librairie Hachette, Paris 1976; L. STONE, The family, Sex and Mariage in England 1500-1880, Weindefeld and Nicolson, London 1977; G. DELILLE, Famille et proprieté dans le Royaume de Naples (XV eXIX siècle), Ed. École française de Rome, Rome-Paris 1985.

[5] Cfr. R. SANI (a cura di), Chiesa, educazione, società nella Lombardia del primo Ottocento, Centro Ambrosiano, Milano 1996; L. PAZZAGLIA (a cura di), Chiesa e prospettive educative in Italia tra Restaurazione e Unificazione, La Scuola, Brescia 1994.

[6] Si vedano in proposito: G. SOTGIU, Storia della Sardegna dalla grande guerra al fascismo, Laterza, Bari 1990; F. COLETTI, L’educazione dei giovani delle classi lavoratrici e medie e il fenomeno dell’occupazione parziale o disoccupazione parziale nell’economia sociale della Sardegna, in “Primo Congresso Internazionale per la lotta contro la disoccupazione”, Tip. degli Operai, Milano 1906, pp. 1-8.

[7] M. C. SOTGIA, Il problema degli esposti nella provincia di Sassari dall’Unità alla Grande Guerra , cit.

[8] A. TEDDE, Per una storia dello sviluppo urbano in Sardegna, Ed. Diesse, Sassari 1989. Cfr. A. BOSCOLO et alii, La Sardegna contemporanea, Della Torre, Cagliari 1974; G. SOTGIU, Storia della Sardegna dalla grande guerra al fascismo, cit.; M. GUIDETTI (a cura di), Storia dei Sardi e della Sardegna. L’età contemporanea dal governo piemontese agli anni Sessanta, Jaca Book, Milano 1990; M. BRIGAGLIA (a cura di), Enciclopedia della Sardegna, Della Torre, Cagliari 1982-1987, vol.III.

[9] S. SOLDANI (a cura di), L’educazione delle donne, Franco Angeli, Milano 1991. Per la demografia, cfr. F. CORRIDORE, Storia documentata della popolazione di Sardegna (1479-1901), Torino 1902. Per la storia urbana vedi A. TEDDE, Per una storia dello sviluppo urbano in Sardegna, cit.; G. BROTZU, La Sardegna, in Atti del congresso internazionale di studio sul problema delle aree arretrate, Giuffrè, Milano 1954, pp. 621-630 e G. ALIVIA, Economia e popolazione della Sardegna settentrionale, Gallizzi, Sassari 1931.

[10] A.TEDDE, G. NUVOLI (a cura di), Psicologia e famiglia in Sardegna. Rassegna di studi e ricerche. (1980-1989), cit.

[11] A. TEDDE, La famiglia nella storia sarda , in A. TEDDE, G. NUVOLI, Note sulla famiglia in Sardegna, Editrice Diesse, Sassari 1978; G. ORTU, La donna nella società sarda, Fossataro, Cagliari 1975.

[12] P. ATZENI, Il corpo, i gesti, lo stile:lavori delle donne in Sardegna, Ed. CUEC, Cagliari 1988; G. MONDARDINI MORELLI, Spazio e tempo nella cultura dei pescatori. Studi e ricerche in area mediterranea, Editrice Pisana, Pisa 1988.

[13] F. COLETTI, La mortalità nei primi anni d’età e la vita sociale della Sardegna, Fratelli Bocca, Torino 1908.

[14] E. TOGNOTTI, La malaria in Sardegna, Franco Angeli, Milano 1996; G. BROTZU, La Sardegna, cit., pp. 651-674.

[15] Cfr. A.TEDDE, L’attività sociale delle Dame della Carità nel primo Novecento a Sassari. La Casa Divina Provvidenza (1910-1967), Torchietto, Ozieri 1994; E. BRUNO, V. ROGGERONE (a cura di), La donna nella beneficenza in Italia, Botta, Torino 1913, vol. IV; A. TEDDE, Per una storia della donna nella beneficenza in Italia dopo l’Unità , Editrice Diesse, Sassari 1989.

[16] A. TEDDE, “La Carità” (1923-1934) di G.B. Manzella, in P. BELLU et alii, Cattolici in Sardegna nel primo Novecento, Associazione Alcide De Gasperi, Sassari 1989.

[17] F. SANNA RANDACCIO, L’infanzia cenciosa e l’istruzione popolare, Muscas di Valdés, Cagliari 1898; F. CHESSA, Le condizioni economiche e sociali dei contadini dell’agro di Sassari, Roux e Viarengo, Torino 1906.

[18] F. COLETTI, La mortalità deni primi anni d’età e la vita sociale in Sardegna, Bocca, Torino 1908

[19] I. CONDELLO, L’infanzia a La Maddalena dal 1850 al 1950. Le istituzioni educative e le strutture assisteznziali,

tesi di laurea, Università degli Studi di Sassari, Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di laurea in Scienze dell’ Educazione, a. a. 2001-2002, rel. A. Tedde, p. 122.

[20] Ci si riferisce in particolare al convegno e alla mostra fotografica su “Il diritto all’infanzia e la conquista dell’ alfabeto” organizzato dallo scrivente il 24-25 maggio 2001 preso la Camera di Commercio di Sassari.

[21] Per l’Italia, si vedano: F. CALANDRA, Storia della società italiana dall’ Unità ad oggi, Utet, Torino 1982; F. DELLA PERUTA (a cura di), Malattia e medicina, in Storia d’Italia, Annali 7, Einaudi, Torino 1984. Per la Sardegna, vedi F. COLETTI, La mortalità nei primi anni d’età e la vita sociale della Sardegna, Fratelli Bocca, Torino 1908.

[22] G. SOTGIU, Storia della Sardegna dalla grande guerra al fascismo, cit.

[23] Si rinvia in proposito alle specifiche voci del Dizionario degli Istituti di perfezione, diretto da G. PELLICCIA e G. ROCCA, Ed. Paoline, Roma 1975. Vedi anche A. TEDDE, L’attività sociale delle Dame della Carità nel primo Novecento a Sassari. La Casa Divina Provvidenza 1910-1967, cit.; A. TEDDE (a cura di), Iniziative sociali di G.B. Manzella e delle congregazioni religiose in Sardegna nel Novecento, Il Torchietto, Ozieri 1996.

[24] E. CATARSI, G. GENOVESI, L’infanzia a scuola. L’educazione infantile dalle sale di custodia alla materna statale, Juvenilia, Bergamo 1985; G. GENOVESI e C. PANCERA (a cura di), Momenti paradigmatici di storia dell’educazione, Corso Editore, Ferrara 1993.

[25] A. TILOCCA SEGRETI, I contratti di encartament ad Alghero tra il Cinque e il Seicento, cit.; G. NUVOLI, L’infanzia abbandonata ad Alghero tra il Cinque e Seicento, cit.; M. C. SOTGIA, Il problema degli esposti nella provincia di Sassari dall’Unità alla Grande guerra, cit.

 


 

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