Categoria : narrativa

 “Son luce e ombra” di Eliano Cau, recensione di Mauro Maxia   

Eliano Cau, Son luce e ombra, Condaghes, Narrativa ‘I Dolmen’ Cagliari  2016. pp. 229 € 18,00

 

Eliano Cau, nato a Neoneli nel 1951, fino a pochi anni fa ha insegnato lettere nelle scuole superiori di Sorgono dove risiede con la propria famiglia.

Il suo ultimo romanzo, Son luce e ombra, è stato pubblicato dall’editrice Condaghes a Cagliari alla fine del 2016. È un volume di 229 pagine con 35 capitoli e una “Nota storica” a pp. 231-237.

Prima di questo romanzo Cau ha dato alle stampe le seguenti opere di contenuto narrativo: Dove vanno le nuvole (S’Alvure 2001) storia di un’ossessione amorosa ambientata nel Barigadu del Settecento); Adelasia del Sinis (S’Alvure, 2004) romanzo storico su Adelasia di Torres); Per le mute vie (Aìsara 2008) racconto sugli anni Sessanta ambientato tra Oristano e Neoneli; Un giorno una vita (Ilmiolibro, Mondadori 2011), romanzo ambientato tra il 1970 e il 1971 a Torino. Un cenno a parte deve farsi per Deus ti salvet Maria (S’Alvure, 2005) che rappresenta un saggio antologico su Bonaventura Licheri, poeta e intellettuale neonelese del 1700.

Con Son luce e omba abbiamo di fronte un romanzo storico ambientato tra il 1769 e il 1770, una cinquantina d’anni dopo che la Sardegna era passata dal dominio spagnolo a quello piemontese. Teatro della narrazione è la Sardegna centrale tra l’Altopiano di Abbasanta, il Barigadu e il Mandrolisai. Personaggi principali sono il padre gesuita piemontese Giovanni Battista Varallo (in realtà Vassallo) e il prete Benedetto Loy del villaggio di Nole. Co-protagonisti di forte impatto emotivo sono il pedofilo Basile Femmineri e una innominabile indemoniata, detta “Quella” oppure Cudda in sardo. Il racconto poi è costellato da numerosi comprimari che vi giocano dei ruoli di diverso peso.

Qui non si possono anticipare, per ovvie ragioni, i particolari più significativi del racconto. Però possiamo dire che si tratta di un romanzo molto avvincente imperniato sulle esperienze di un personaggio realmente vissuto (il gesuita piemontese Giovanni Battista Vassallo) che offre l’occasione all’Autore per aprire degli squarci sulle storiche missioni dei Gesuiti in altre terre e, in modo particolare, nelle reducciones del Paraguay in cui essi furono perseguitati dal potere coloniale spagnolo.

Nel racconto Vassallo condivide una singolare esperienza, ricca di grande umanità, con un altro personaggio, volutamente più sfumato, che è Benedetto Loy, prete di Nole. I due personaggi danno vita a un’iniziativa caritatevole, una missione popolare che consiste nel prestare assistenza a un numero sempre crescente di derelitti la cui descrizione vale, da sola, la lettura del romanzo. Lettura che poi non è mai una fatica ma, anzi, è perfino piacevole. Il racconto infatti è ben concatenato e piuttosto avvincente e lega il lettore appassionandolo fino alla fine.

Vi sono degli spunti di particolare interesse. Qui ne accennerò soltanto qualcuno per non privare i lettori del piacere di scoprire altri non meno appassionanti. Intanto, trattandosi di un romanzo storico, il racconto è necessariamente ambientato in un teatro geografico. Inoltre, anche se il romanzo è diviso in capitoli, si articola idealmente in tre parti distinte che ora andiamo a vedere.

Mauro Maxia

I primi capitoli sono ambientati in una precisa località posta sulla riva destra del medio corso del Tirso. Si tratta del sito dove durante il 1700 sorgeva l’antico villaggio di Zuri. Ed è suggestivo il fatto che Cau ambienti una serie di vicende proprio in un villaggio e una chiesa (la celebre S. Pietro di Zuri) che né lui né noi abbiamo conosciuto in quanto questa località fu sommersa dalle acque del lago Omodeo nel 1925. La bellissima chiesa di San Pietro infatti fu smontata e ricostruita pietra su pietra tra il marzo del 1923 e il luglio del 1925 e rappresenta l’unico esempio di anastilosi in Sardegna (detto per inciso, è una fortuna che allora si lavorasse più seriamente di oggi e i 90 anni trascorsi da allora certificano che quel lavoro fu eseguito alla perfezione).

A Zuri, in locali di fortuna già appartenuti a una struttura conventuale, i due religiosi danno inizio alla loro missione popolare. Lì mettono in piedi un qualcosa che potrebbe definirsi un lazzaretto dove, a poco a poco, saranno accolti parecchi disperati. Qui, grazie all’esperienza maturata dal padre Vassallo con le medicine rustiche in precedenti missioni, alcuni malati saranno gradatamente recuperati mentre altri, come è normale, non riusciranno a sopravvivere ai mali di cui sono vittime. Tuttavia tutti trarranno dei benefici dall’assistenza, dalla cura e dall’amore dei due religiosi che in questa opera salvifica riusciranno a recuperare non solo i malati del corpo ma anche i malati dell’anima. Il riferimento è soprattutto a Basile Femmineri che diventerà un loro valido collaboratore.

La parte centrale del racconto, la seconda, è costituita dal trasferimento del gruppo formato dai due religiosi e dai malati che da Zuri si spostano lentamente lungo diverse tappe verso la destinazione rappresentata dalla chiesa di San Mauro di Sorgono. In proposito si può dire che questa chiesa e il vicino centro di Sorgono sono le sole località che nel romanzo conservano il loro nome reale. Tutte le altre località, che un lettore pratico dei posti può comunque identificare, hanno dei nomi di fantasia.

Nella lunga e sofferta trasferta da Zuri a San Mauro il protagonista non è questo o quel personaggio ma è la siccità. Una siccità disperante che emerge quasi in ogni pagina e che soltanto quando la comitiva raggiungerà i boschi del Barigadu concederà qualche tregua e un po’ di ristoro grazie a quei pochi torrenti che l’arsura non ha ancora seccato. Una siccità devastante nonostante si sia ancora nel mese di maggio. Una siccità descritta in un modo così efficace che ricorda la sconvolgente siccità, sempre di maggio, descritta da Salvatore Satta nel Giorno del giudizio. Eppure il romanzo inizia con l’immagine di un forte acquazzone estivo.

Un altro protagonista, sempre presente, è l’ambiente, il paesaggio. Eliano Cau è profondo conoscitore del paesaggio sia della Sardegna sia del Piemonte. Infatti per le sue descrizioni – sia quelle del tormentato percorso da Tzur a San Mauro sia quelle della Val d’Ala lungo la Stura di Lanzo – non basta la fantasia ma è necessaria la frequentazione diretta, anzi una capillare conoscenza dei luoghi. Conoscenza diretta che poi è elaborata e plasmata dall’Autore quando deve descrivere la fredda nebbia delle valli prealpine o quando descrive la secchezza delle foglie inaridite dalla siccità oppure riesce quasi a far sentire lo scroscio della pioggia portata da un violento temporale. Nella resa pittorica di tante tavolozze l’Autore si avvale delle sue innate doti di raffinato poeta bilingue. E difatti possiamo dire senza tema di smentita che la prosa di Cau è una prosa poetica che, proprio per questo, raggiunge un’eleganza che solo pochi scrittori possono esibire. Al narratore basta tendere l’orecchio per fare balenare con poche parole una scenografia animata; per esempio: “Dalle vie che portavano alla chiesa incominciava a giungere la polvere e il rumore di carri e animali” (p. 175).

Un altro aspetto in cui Cau padroneggia la materia sono i personaggi. Qui davvero si ha a che fare con un’immaginazione che riesce a calarsi nella realtà dei secoli addietro. Ne nascono personaggi straordinari di cui l’autore riesce a descrivere magistralmente sia i caratteri fisici sia le sofferenze oppure le ossessioni che li posseggono. Ecco la bambina Reinedda, gli sfortunati Fifinu e Antiogu su ’Etzu, Innatzia Mùrtina, Don Boele parroco di Tzur, Loisa, Pilima Tzerchi detta Boboeddos, Batore il ragazzo bruciato, Cozone il campanaro di Nughes, Chiccheddu Callentura, Efes su Soddu, Micheli Ergu, Conca ’e Sorighe, Itriedda Duas Caras, Toni Susuncu, Grallinu Manosùna, la dissoluta marchesa torinese Eugenia, la diabolica Alene-Inghenia, Sùrbiu Meurrinu, Mauru s’eremitanu, Balente Nieddu, Loisu Erriccu, Violedda, le venditrici di ciliegie Màngela e Columba. Tutti nomi che l’Autore si guarda bene dal tradurre lasciandoli nella stessa forma in cui erano pronunciati.

Ma la ricca galleria di esseri viventi non si limita a decine e decine di personaggi, quasi figuranti di un dramma collettivo. Il racconto coinvolge perfino i cani, anche essi dotati di un’anima e di un nome: Liliedda (138), Misesfidele (144), Oghinìe (207), il cane tigrinu di Gavoi (168) ma soprattutto Apalaspùnghes che da p. 158 a p. 168 diventa quasi un co-protagonista del racconto.

Tornando alla trama, l’Autore dà una dimostrazione del suo talento innestando fin dall’inizio una storia nella storia che, a partire dai capitoli 13 e 14, tiene legato il lettore fino all’ultima pagina prima attraverso il racconto di Sarbadore e poi attraverso la narrazione in presa diretta. Possiamo parlare quasi di un regista, per come la materia è trattata. Preferisco non entrare nei particolari, davvero appassionanti, di questa storia nella storia per non privare i lettori della suspence che il racconto produce. E mi chiedo, a questo proposito, che cosa Eliano Cau abbia da invidiare alla tanto declamata “scuola sarda del giallo” di cui il quotidiano “La Nuova Sardegna” proprio oggi ha iniziato la distribuzione di alcuni romanzi.

Non solo Cau innesta un thriller nel suo romanzo ma lo ambienta in un ambiente sociale e in un periodo lontani da noi tre secoli. Questo significa che, prima di innestare il giallo nel suo racconto, l’Autore ha compiuto un lavoro di scavo e di ricerca che possono dare una misura sia del lavoro sia del talento che distinguono la sua opera. E, sempre a questo proposito, vorrei aprire una brevissima parentesi sulla situazione degli scrittori sardi in lingua italiana che un circolo più ristretto da una quindicina d’anni sembra voler monopolizzare nell’ambito della cosiddetta “nuova letteratura sarda”.

Ora però è giusto parlare di Eliano Cau e del suo nuovo romanzo. Intanto diciamo che la seconda parte del racconto si chiude idealmente presso la chiesa de S’Angelu, a breve distanza da Nole. Qui la processione dei derelitti fa tappa proprio in occasione di una tempesta. Che tuttavia non vince la siccità ma ben si associa alla cupa atmosfera demoniaca che aleggia intorno.

La terza parte del romanzo è ambientata a San Mauro di Sorgono dove, durante la novena che precede la grande sagra di fine maggio (quella che nella zona chiamano Santu Maru erricu), la comitiva di disgraziati è sistemata alla meglio in alcuni locali dei muristenes che circondano il santuario. Qui l’Autore produce un intreccio magistrale che tiene uniti diversi fili. Ricordiamo che nell’ordito il filo principale è rappresentato dalla missione dei due religiosi. Anche a San Mauro non manca un episodio drammatico rappresentato dall’agonia e dalla morte di uno dei derelitti che si sono aggrappati al padre Vassallo e a Benedetto Loy.

Un altro filo è aggiunto dall’ambiente di San Mauro, vero santuario federale, dove giorno dopo giorno cresce l’afflusso di pellegrini da tutti i villaggi dei dintorni. In questo quadro, che Eliano dipinge come una tavolozza vivente, vi è modo per assistere a vivaci scambi di opinioni come quello della giovane venditrice di ciliegie di Nole con un baldo pretendente di un altro villaggio.

Un filo ulteriore, anzi un doppio filo intrecciato, è quello che narra da un lato la vicenda del vecchio bardaneri Loisu e, dall’altro, la vicenda, a tratti spigolosa, vissuta da Taniele nei dintorni di Paùle presso il dissoluto proprietario Sisinniu Pasteri.

Ma il filo più avvincente è quello parallelo, innestato dall’inizio, che ora volge verso un epilogo inatteso quanto sorprendente. Come un’abile regista l’Autore presenta in successione un drammatico scontro durante l’omelia all’interno della chiesa di San Mauro gremita di fedeli tra il prete Loy e una giovane posseduta dal demonio. All’episodio segue un lungo e snervante esorcismo sulla giovane in questione da parte del padre Varallo. Infine, giunge il crollo morale di prete Loy. Un epilogo che giunge inatteso ma che, a ben vedere, è preparato con sapienza dall’Autore nella terza parte del romanzo.

Questa è l’estrema sintesi del racconto. Gli spunti per approfondimenti in varie direzione sono tanti. Per esempio, tornando per un attimo agli scrittori sardi in lingua italiana, è davvero interessante l’impiego a piene mani che Eliano Cau fa delle strutture sintattiche del sardo. Anche se è scritto in italiano, questo romanzo potrebbe definirsi un racconto bilingue. Basta leggere il passo a p. 188 della ragazza di Nole che offre le sue ciliegie ai novenanti di San Mauro:

“Diceva la giovane venditrice, rivolgendosi agli acquirenti, con voce più mielata della frutta che vendeva: “Si de Nole cheressia chereis, lompìe a sa posada ’e ’idda mia, bastet chi duos soddos mi lasseis, ca s’isposa est ancora ’agadia”. Un passo che l’Autore neppure traduce e che presuppone che il lettore capisca perfettamente il sardo.

Ascoltiamo questa altra frase: “Non c’era anima nelle strade, e su ‘entu ‘e susu, la tramontana, sembrava un cavaliere scomunicato, uno dei currillos sul cavallo del diavolo”.

Sono molte le parole sarde che Eliano Cau semina lungo tutto il racconto senza preoccuparsi di tradurle: deleaos, su gabbanu, cherrìgu, aposentu, fogulone, foghile, mortores, corzos, fumadigu, currillos, su ‘entu ‘e susu, pinnetu, crivazos, thia, cartzones, sas ambisùs, a làcana, coccois, pane pintau, massajos, curadoria, cosinzos, cungiaos, accabadoras, bruxas, muristenes, istrupiaos, tullìos, òmines reos, barracellos, bardaneri, s’aùrra, s’eremitanu, disamistade, balentìa, unu frore, istreggiari, balente, istrumpa, camminantes, su puntore. Ma ci sono anche frasi intere scritte in sardo: “Paret s’erriu nostu in ierru”, “S’Angelu meu bellu!, Intendo sonos in sos padentes, òmines bonos bi sunt presentes”, “Custa est essia de s’iferru!”, “Tuc’a largu, Oghinìe!”.

Del resto il romanzo si chiude proprio con una frase in sardo che rimarca ancora una volta questo senso di appartenenza:

«Pius forte de unu tronu / su coro mi tremiat / cando chi m’apariat / cussa figura. / Umana criadura / chi forte apo amadu, / pro iss’apo pecadu / e nde so reu. / Perdonu Deus meu».

Insomma, viene da pensare che se un lettore non conosce il sardo potrebbe incontrare qualche difficoltà a cogliere pienamente il significato di numerosi passi del racconto. Questa scelta, che in qualche passo potrebbe ricordare l’italiano-siciliano dei gialli di Camilleri, aggiunge fascino a una trama che è già coinvolgente di suo.

Un’avvertenza finale. Il lettore che si accosta a questo romanzo, per poterne godere appieno, deve tenere conto che Eliano Cau ha alle spalle lunghi studi sulla vita e le opere di padre Bonaventura Licheri, uno dei maggiori protagonisti della cultura sarda del 1700, anche egli nativo di Neoneli. È consigliabile che la lettura sia preceduta almeno da uno sguardo sul saggio intitolato Deus ti salvet Maria pubblicato dall’Autore nel 2005. Buona lettura, dunque.

Perfugas, 21 aprile 2017

Mauro Maxia

 

 

 

 

 

 

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