III. “Il paese che non c’è più di Carlo Patatu”, recensione di Ange de Clermont
Carlo Patatu Il paese che non c’è più. Usànzias, còntos, mestièris, buttègas e màstros de Zaramònte in su tèmpus passàdu (Consuetudini, racconti, mestieri e botteghe in Chiaramonti nel tempo che fu). Prefazione di Luisella Budroni, Grafiche Essegi srl, Perfugas, 2016 pp. 400 Offerto in omaggio dall’autore a richiesta.
Tutte queste riflessioni danno ampia spiegazione della discreta bibliografia degli scritti di Carlo Patatu tra cui prevale l’interesse per Chiaramonti in particolare nei lavori delle Cronache di Giorgio Falchi, della Scuola Chiesa e Fantasmi, e infine, di Il paese che non c’è più.
Questi tre lavori costituiscono l’ossatura dei suoi interessi, la passione della sua scrittura, il pascolo della sua memoria tenace e non ultimo del suo cuore di uomo che va alla ricerca della sua identità più profonda.
Nel primo volume citato, quasi 400 pagine, oltre ad illustrare il lavoro minuzioso di Giorgio Falchi, egli pare innamorarsi della sua statura di intellettuale, animato da passione civile, talvolta ostile ai chierici, gestori della cultura dominante. In Falchi, che dopo la laurea in Giurisprudenza non si mosse più dal paese, partecipando alla vita civica, ammira la passione per il buon funzionamento delle istituzioni laiche e religiose, la sua passione per la scuola e la cultura, il suo amor di patria con i suoi riti annuali della memoria degli eroi chiaramontesi morti in guerra, la sua costante inculturazione del pur “vil gentame”, svolta con la lettura del quotidiano in Piazza. In breve, il suo donarsi ad un popolo poco istruito, talvolta rozzo, ma suscettibile di miglioramento.
In quest’uomo penso che Carlo Patatu abbia trovato il suo modello da imitare sia pure in tempi ed ambienti mutati.
Il libro, donato a tutti i compaesani, ha voluto essere un momento didattico importante per l’oggi e per l’indomani. Credo che emerga da quello scritto la sua intima passione per essere ricordato come dispensatore di istruzione, di dibattito, di risveglio della coscienza., prima laica che religiosa. Se lui fosse credente si direbbe che esorti come fanno tanti intellettuali e operatori religiosi illuminati: prima educare e formare l’uomo e poi su questa base il cristiano.
L’onestà civica, il corretto rapporto con gli altri cittadini, con la cosa pubblica, con la libertà di pensiero:questo è il suo messaggio fondamentale.
Alla base di questo messaggio c’è anche l’esortazione a conoscere la storia del borgo, nel bene e nel male, ma sempre nel tentativo di rigenerarsi positivamente. Lo sguardo sociologico non tende ad essere equanime, ma sicuramente a favore delle classi disagiate in netta e rude opposizione ai detentori dei beni materiali e delle loro vere o soltanto percepite ingiustizie.
Le riflessioni fatte nella preparazione alla tesi di laurea sono qui confluite più come dato sociologico che storico del quale egli poco si voleva curare. Non vuol fare storia, ma riflettere sui cahiers de doléances di gente che si è sentita sfruttata e maltrattata.
Un contributo di parte, ma comunque un apporto alla sociologia dei borghi rurali che nel tempo potrà documentare percezioni e sentimenti e risentimenti rivolti dal mondo subalterno ai ceti possidenti e dirigenti.
Il secondo volume, più limitato, per dimensione: si tratta di circa 230 pagine, esposto in registro colloquiale, tratta di operatori religiosi e laici che hanno affascinato la sua crescita adolescenziale e giovanile, cattolica prima, ostentatamente laica poi.
Da questo mondo paesano, ancora profondamente religioso e contadino, emergono figure contrastanti tra loro: Suor Reverenda, Su Vicariu, Don Cristovulu, Don Masala, con pregi e difetti, da una parte; su Mastru, il Tenente dei Carabinieri, il signor Antonimo Falchi, l’ereo laico, quasi massone, che da filo da torcere ai protagonisti religiosi della vita del borgo, ma anche quella incredibile macchietta del salatore che si crede un grande uomo politico, felice di fare un comizio in trasferta.
Infine, un certo spazio viene riservato alle tradizioni popolari liete e tristi, a eventi di progresso e a tradizioni sulla via del tramonto.
Qui, apparentemente, pare non ci sia un filo che giustifichi i passaggi tra un personaggio e l’altro, ma nella realtà, cautamente, l’autore entra in quel genere letterario della memorialistica che tanto successo ha avuto nel passato e continua ad avere nel presente. Il filo che tiene uniti i personaggi e gli eventi lieti o tristi, quelli alquanto misteriosi è la memoria. L’io narrante è quello dell’autore che osserva, giudica, assolve o condanna, a volte sbeffeggia personaggi e cose.
Non mancano i riferimenti allo sport e ad usi più o meno giocosi, ma anche alle improvvise tragedie paesane. Un borgo che certamente non può dirsi esente dalla pratica di eventi di cui porta il blasone; un po’ manigoldo e d’abitudine malavitoso, in maniera omertosa: una sezione del mondo barbaricino fuori della Barbagia dove l’abigeato e il furto è avvenimento ordinario e l’uso dei killer, specie nelle campagne de Sos Sassos (de Giosso e Altu) è all’ordine del giorno. La vendetta, secondo il detto, la si deve servire fredda come la pastasciutta (che.i.sos maccarrones).
Tzaramontesu a ogni ojada colpu ‘e balla, mi disse prima dell’esame di Statistica il prof. Tommaso Antonio Castiglia.
In questo contesto non mancano le pratiche del comparatico sul fuoco né i fiori o la paglia alle fanciulle sussiegose. La magia bianca e la magia nera la si pratica, ma non si dice, e quando non possono le preci, un misto di superstizione e preci vanno anche bene nella pratica de s’abba de s’oju per ottenere la guarigione.
Veniamo, finalmente, all’ultima fatica di questo filone, quello che secondo noi, è il più originale e legato al discorso già iniziato nel secondo volume.
Del “Paese che non c’è più” si può dire che è propriamente un Amarcord, per dire: ar record= io ricordo. Potremmo chiederci, se non si tratti del film di Fellini, certamente no, in un certo senso (non è Fellini che ricorda) ma si, per altro verso.
L’ar record, l’io ricordo, è di Carlo, che vogliamo pensare, all’imbrunire, quando le donne si riuniscono nei crocchi, per raccontare cose vere e cose false, passa in punta di piedi per le vie del centro storico, dove, a parte qualche casa, la maggior parte di esse è muta, anzi morta, senza vita. Non ci sono più lampade o luci accese, né si sentono voci da case in cui origliare, come usava fare un tempo, eppure dalla memoria dell’autore, prendono corpo, vita e parole, personaggi veri che un tempo hanno respirato, vissuto e lavorato nel borgo. Eccoli, ad uno ad uno gli operatori del corpo umano e del corpo animale: i medici, i barbieri, i becchini, i carrulanti, gli ospiti dell’albergo della luna di Cunventu, i fabbri.
Sfilano, queste ombre, a tratti fredde e paurose, a tratti liete e sorridenti, il più bravo dei medici, Stefano Catta, con la sua borsa, sì, nell’ombra, ma con la sua borsa:
– Dottore, dove va?-
Gli verrebbe la voglia di chiedere, ma l’ombra scompare in un vicolo, dove abita un ammalato che lo ha mandato a chiamare.
Gli verrebbe la voglia di rincorrerlo, ma il medico, sì, proprio lui, deve correre da un altro ammalato!
Si dà un colpo in fronte e sussurra:
-Che medico esemplare! Ma è scomparso!-
Ar record, io ricordo.
Carlo si trascina lento, assorto dai suoi pensieri, nell’erto sentiero che conduce al Camposanto.
-Eccolo, è lui, su Duttoreddu, sempre impettito, glaciale. Entra nel cancello, incontra il becchino che gli sussurra:
– Custu quadru est totu su ostru!-
Sorride, amaro, su Duttoreddu!
-Ora gli parlo.-
No, Carlo, è un ombra che svanisce dietro un cipresso. Ar record, io ricordo!
Si ode un frastuono: è il rumore sinistro, nella notte, del carrulante. Il cavallo procede, le ruote girano, la frusta fischia. Carlo chiama:-Tiu…ma chi è? Ne abbiamo avuto tanti. Nella penombra, aguzza la vista, ma il carro e il carrulante non ci sono più. Ombre: ar record, io ricordo!
La notte avanza, tutto tace, ma all’improvviso ecco udire, a metà Piatta, un battere ritmato di martello sull’incudine. Carlo si avvicina alla porta:- Mastru Miche’! Mastru Miche’!-
Mastru Micheli con in faccia il parascintille batte sull’incudine il ferro arroventato e non risponde, anzi il ferro rovente s’incendia di più e Mastru Micheli in un alone di scintille scompare.
Carlo si batte la mano sulla fronte, guarda l’orologio… sente i rintocchi che vengono dal campanile, è mezzanotte, occorre tornare a casa. Allunga il passo, lascia Piatta, saluta Tiu Pedru Pola, che taglia carne speciale e non risponde,e corre verso il barbiere parigino antichiesa della chiesa.
Ah, tiu Paul’Antoni che manovra le forbici come se stesse suonando una marcia funebre sui tasti di un pianoforte. Gli sorride, sotto i baffi, finalmente una sosta.
Ma che sosta, la porta è chiusa, il buio avanza.
Carlo è quasi preso dallo spavento, si gira, ecco, ah finalmente tia Minna, piccola, occhi penetranti, furbi, quasi diabolici. Ha le carte in mano, si ferma e le smazza, le poggia sul primo gradino della chiesa, e fa:
-Carlo, ah, vieni che ti faccio le carte, Ah! Ah! Ah!-
Carlo fa un passo, abbassa la testa, occorre guardare dove si mettono i piedi. Fa due passi verso tia Minna, alza gli occhi, l’ombra de tia Minna si dilegua, tia Minna è scomparsa e le carte con lei!
Carlo corre a precipizio verso s’Istradone dove non c’è nessuno, respira affannosamente, si sveglia, è a letto, in casa sua! Chiama:
-Tonina! Dove sei?-
Tonina gli tocca il braccio, è accanto a lui, a letto,
Carlo est unu jottu ‘e suore , esclama quasi per rinfrancarsi:
-Accidenti che incubo!-
Poi esclama:-Ar record, io ricordo!-
E potrei continuare a dirvi del libro e di tutti i personaggi, decisamente scomparsi, che ricorderete e che vi turbano all’apparire, alcuni fanno ridere, altri piangere. Siamo nel regno dei passati, rimasti nella memoria, di quel borgo le cui case sono ancora lì, ma gl’inquilini, se volete incontrarli, almeno in fotografia andate a trovarli al Camposanto, anzi, al borgo ottocentesco dei morti.
Il volume, preziosamente illustrato da fotografie d’epoca, lungo quasi 400 pagine, non finisce qui.
Troverete i luoghi ricreativi e i nuovi mezzi di comunicazione di massa nascenti: su cinema. su ballu, sa televisione, i comizi elettorali.
E infine, delle tradizioni popolari. potrete seguire la cartomanzia, sa promissa, s’abba ‘e s’ojou, compares e comares, andamus a i scultare, sa chena de sos mortos.
Aggiungetevi infine, le calamità, Caddura, e infine, l’ultimo amarcord: Piluchi.
Un addio toccante alle radici materne, al nonno Pulina, alla nonna Murgia, al mondo quasi favoloso che ha nutrito le sue tre infanzie, dalla nascita ai nove anni, ma anche più in là, l’adolescenza e, infine la giovinezza e i primi passi nella professione d’insegnante.
Quel mondo contadino, quella società della zappa e della falce, dei carri da buoi, della mietitura e dei covoni di grano, dei calzolai, dei falegnami e dei carpentieri, dei fabbri ha chiuso i battenti.
L’arrivo della televisione, delle macchine delle contese politiche, dei partiti democratici e dei comizi, dell’alfabetizzazione generalizzata ha celebrato i funerali di un mondo che adagio adagio se n’è andato.
Suonate pure il Tango delle Capinere, tiu Peppe’, suonate senza sosta, se non potete far risorgere quel mondo scomparso, forse potreste, con le note della fisarmonica, consolarlo.
Una lacrima solca il volto di Carlo: l’addio ai tempi de sa pitzinnia val bene una lacrima!
(III. Fine)
Chiaramonti, III Domenica d’Avvento 2016.