Si è spento un cranio: Umberto Eco ovvero della fama e della gloria di Ange de Clermont
Per sapere chi fosse Umberto Eco basterebbe leggere la sua lunga carriera di studioso nella voce wikipedia sicuramente compilata da lui medesimo. Non ho avuto la fortuna di conoscerlo di persona, ma tutto il mondo, calma, tutti i grandi intellettuali del mondo, dicono che fosse un cranio semiotico, uno scrittore massiccio, un saggista raffinato (e un pò spaccone) e assai contraddittorio: si era sposato con San Tommaso (il primo matrimonio gay della storia), ma aveva perso la fede; si era fidanzato col Medioevo, ma non l’aveva mai sposato, andava a letto col minestrone dello scibile umano, ma non ci aveva fatto mai l’amore.
La prima volta che ho visto un suo romanzo, mi pare il Pendolo di Foucault , per poco non svengo, dopo le dieci prime pagine astruse; ho visto il film “In nome della rosa” e sono rimasto scosso per tutto il fango gettato sui monaci pazzi. Per me, tutto sommato, Umberto Eco era un pendaglio da forca con sceneggiatura tratta dal film in nome della rosa. Era di un’erudizione soffocante, per cui difficile da leggere. Era un logorroico e affastellava un pò di tutto, quando scriveva. Si è occupato di più e di tutto. Forse è morto perché aveva esaurito le scorte. Mi spiace non averlo conosciuto e avrei piacere di sentire che cosa ne pensano i miei amici bolognesi, che tipo fosse anche se talvolta era urticante ed era capace di dire bene di tutto e male di tutto. Mi ha colpito il suo fraseggio ebete su internet e poi ha dichiarato che collaborava democraticamente a wikipedia. L’uomo era riuscito a farsi un nome nel mondo e questa posizione spingeva il figlio del commerciante di ferramenta a sputare sentenze contro o a favore di tutti e di tutto. Sinceramente tutte queste cose non hanno catturato la mia simpatia. Ora riposi in pace, se ci riesce, visto che il mondo era suo, tutti lo cercavano, tutti lo osannavano, tutti chi? Gl’intelletuali primedonne, del resto anche lui era una primadonna. Peccato che sia morto, dei tre vecchi tromboni Bocca, Scalfari e Eco, resta Scalfari che da quando è diventato amico del Papa deve sopravvivere per dire ogni tanto qualcosa di probabile. Tre guru, tre santoni, tre steariche come quelle che si usavano un tempo per fare testamento di notte, ma tutti e tre non costituiscono un solo raggio di sole.
Ora resta l’ultimo rito, il funerale laico: da giovane e dirigente nazionale di azione cattolica ad ateo, da estimatore di San Tomaso nella luce della giovinezza al buio di Satana: “Papè Satàn, pape Satàn aleppe”
Forse però era una posa la sua. Amava la libertà come Lucifero e come lui ha voluto gettare a mare la fede in Dio, perché forse in cuor suo si era fatto Dio.
No, forse era un buffone che si è svegliato una mattina e ha recitato per tutta la vita come il copione richiedeva e, adesso, roso dal male del secolo, è obito, non morto, obito. ché la morte non esiste. Aleggerà attorno a noi per qualche tempo, gli prepareranno qualche convegno e poi anche lui come tutti i grandi crani, spappolato dai vermi, giacerà nel cofano funebre conservando la lucentezza di quel cranio che ha contenuto un così grosso cervello: memoria di ferro, anzi di Pico, acutezza di Ceco Angiolieri, spirito di contraddizione da Bastian contrario, commediante, giocoliere tra i Grandi della storia, che sfotteva come fossero andati all’asilo insieme. Buffone di Corte e di cortile (da San Tommaso a Mike Bongiorno), presunto filosofo (non era Popper), scomunicatore di Papi e Cardinali (Papa Benedetto XVI non sapeva che cosa fosse il relativismo), Gran Custode della Terra di avantieri. La sua fine è come quella dell’Ulisse dantesco. Dirgli di riposare in pace sarebbe impietoso, augurargli l’Inferno sarebbe rallegrarlo, mandarlo in Purgatorio sarebbe come metterlo tra i poveri ignoranti pitocchi pescatori della Galilea, il posto migliore sarebbe spedirlo nell’abolito Limbo a lambiccarsi il cervello su Atto e Potenza, sulle Cinque Cause e altre quisquilie aristotelico-tomistiche, in attesa che finisca il mondo, per offrirci l’ultimo spettacolo. Potremmo definirlo uno stolido manipolatore della sua immagine, arricchita dalla gloria che passa: “eco (Eco) di tromba che si perde a valle è la potenza!” “Fumo di paglia che si perde a monte è l’umana scienza!”
Dopo aver pubblicato quanto sopra sto andando a cercare su internet, da imbecille, secondo la buonanima alcune tracce del sentimento che provavo a pelle sul costoso estinto. Eccovene l’esempio ed è del 2012.
“Eco, cattivo maestro dai testi di piombo
Marcello Veneziani – Lun, 06/08/2012 – 14:45
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L’Eco di quarant’anni fa torna a bussare in libreria. Lo ristampa Bompiani e viene riproposto col suo titolo anodino, Il costume di casa, e un sottotitolo allusivo: «Evidenze e misteri dell’ideologia italiana negli anni Sessanta» (pagg. 484, euro 10,90). Il libro è assai istruttivo, coincide con un’epoca cruciale che culmina nel ’68 e poi si intristisce nei cupi anni seguenti. È un libro coevo, per capire il clima, alla firma di Umberto Eco apposta al manifesto di Lotta Continua contro il commissario Calabresi, poco dopo ucciso su mandato dei medesimi lottacontinuai.
Pagine interessanti, non c’è dubbio, a tratti acute, da cui traggo quattro o cinque spunti utili per capire il presente. Parto da quel tempo. Negli anni Sessanta c’era in Italia una vera borghesia, dignitosa e ipocrita, come è poi la borghesia, che aveva senso del decoro e della morale, un discreto amor patrio, un reverenziale rispetto per le tradizioni culturali e religiose, anche se talvolta fariseo o filisteo. Le sue basi erano i costumi di vita ereditati, la buona educazione e le lezioni impartite dalla scuola del tempo. Eco demolisce quei santuari a uno a uno: il senso della tradizione e dei buoni costumi, il senso religioso e il legame con la morale comune, la meritocrazia e «l’illusione della verità». Auspica una «guerriglia semiologica» (in quegli anni erano parole di piombo), nega il rispetto del latino – «L’ossessione del latino è una manifestazione di pigrizia culturale, o forse di forsennata invidia: voglio che anche i miei figli abbiano gli orizzonti ristretti che ho avuto io, altrimenti non potranno ubbidirmi quando comando» – distrugge i buoni sentimenti e il suo alone retorico che promanavano dal libro Cuore, libro di formazione di più generazioni che servì a edificare un sentire comune dell’Italia postunitaria e che per Eco è invece «turpe esempio di pedagogia piccolo borghese, paternalistica e sadicamente umbertina»; elogia Franti il cattivo e vede in lui il modello positivo dei contestatori, anzi di più, lo vede come ispiratore di Gaetano Bresci, l’anarchico che uccise all’alba del ‘900 Re Umberto a Monza.
Capite che benzina Umberto Eco abbia gettato sul fuoco di quegli anni feroci. Il cattivo maestro Eco poi contesta il filosofo Abbagnano che elogia la selezione e il merito, sostenendo che la selezione sia solo una legge di natura da correggere con la cultura e la solidarietà e auspica «che non ci sia più una società dove predomina la competitività». Declassa la religione a fiaba e suggerisce non di avversarla come facevano gli atei dichiarati ma più subdolamente di relativizzarla presentandola come fiaba tra le fiabe. Giudica impossibile un Picasso che dipinga l’Alcazar fascista come dipinse Guernica antifascista; dimenticando il filone futurista e fior d’artisti fascisti (a proposito dell’uso politicamente ambiguo della pittura, cito l’esempio di Renato Guttuso che riprodusse un suo manifesto fascista antiamericano degli anni Quaranta in un manifesto comunista antiamericano degli anni Sessanta in tema di Vietnam. Riciclaggio ideologico).
Umberto Eco poi si allarma, come Pasolini e altri, perché cresceva agli inizi degli anni Settanta la cultura di destra in Italia, con nuovi autori ed editori (Il Borghese, Volpe, la Rusconi diretta da Cattabiani). E le dedica uno sprezzante articolo, confondendo volutamente pensatori e picchiatori, «magistrati retrivi» (allora le toghe erano considerate protofasciste) e riviste culturali. Particolare l’acredine verso il suo concittadino alessandrino Armando Plebe, all’epoca approdato a destra ma di cui Eco nega perfino la provenienza marxista (Plebe fu invece l’unico filosofo italiano vivente a essere citato come marxista nell’Enciclopedia sovietica). Eco disprezza autori come Guareschi e Prezzolini, Evola e Zolla, Panfilo Gentile e «il risibile pensiero reazionario». E fa una notazione volgare: «la nuova destra rinasce soltanto perché un certo capitale editoriale sta offrendo occasioni contrattuali convenienti a studiosi e scrittori, alcuni dei quali rimanevano isolati per vocazione, e altri non sono che arrampicatori frustrati». Un’analisi così rozza e faziosa non l’abbiamo letta neanche nei volantini delle Brigate rosse. Fa torto al suo acume. È come se spiegassimo la cultura di sinistra con i soldi venuti dall’Urss o le firme de l’Espresso-La Repubblica con i soldi di Carlo De Benedetti… Sarebbe volgare, falso o almeno riduttivo.
Eco avverte i suoi lettori che «il capitalismo come entità metafisica e metastorica non esiste». Al fascismo, invece, Eco attribuisce entità metafisica e metastorica elevandolo a Urfascismo: il fascismo come eterna dannazione. Sul rapporto tra cultura e capitalismo la considerazione becera fatta sugli autori di destra si inverte quando invece si tratta di un autore «di sinistra»: anche se «ha un rapporto economico con i mezzi di produzione» lui non ne dipende, perché conta «il rapporto critico dialettico in cui egli si pone con il sistema». Traduco: se la cultura di destra trova investitori è asservita al Capitale e lo fa mossa solo dai soldi; se la cultura di sinistra è finanziata dal Capitale, invece usa gli investitori ma non si fa usare e ha scopi nobili… Può vivere «di prebende largite da chi detiene i mezzi di produzione» perché quel che conta è «la presa di coscienza» (io direi ben altra presa…). Loro prezzolati, noi illuminati.
Il testo è utile perché rivela la matrice di Eco: prima che semiologo è ideologo. Mascherato. Traspare quell’ideologia illuminista radical che traghetta la sinistra dal comunismo al neocapitalismo, spostando il Nemico dai padroni ai fascisti, dal Capitale ai reazionari, in cui Eco include cristiano-borghesi e maggioranze silenziose. L’antifascismo assurge a religione civile, a priori assoluto nella lotta tra Liberazione e Tradizione, che sostituisce la lotta di classe.
Questo testo mostra le origini colte della barbarie odierna e della relativa intolleranza. Se viviamo in un’epoca che rigetta la cultura classica, l’amor patrio, le buone maniere, le buone letture, la meritocrazia, la scuola selettiva, forse non è frutto semplicemente del berlusconismo… Infine il testo di Eco dimostra che la destra è demonizzata anche quando non si riduce al rozzo cliché dei picchiatori o dei prepotenti o, mutatis mutandis, dei leghisti o dei berluscones. Ma si accanisce sprezzante anche sulla destra colta, i suoi libri, i suoi editori, scrittori e filosofi, oggi da cancellare ieri da eliminare; come accadde a Giovanni Gentile, prototipo dell’intellettuale out. Un assassinio pensato in seno alla cultura e nutrito col fiele dell’ideologia. Il passato, a volte, echeggia.”
Gli sproloqui del caro estinto dove a capirci è solo lui e non il “popolo”. Anche questo era Umberto Eco, l’incompresibile.
Dall’Espresso
“Così Eco legge ‘Cuore’
Franti cattivo? No, piuttosto incarnazione dell’umile che rialza la testa. Torna in libreria il saggio del grande semiologo su De Amicis. E su un eroe rivoluzionario
di Umberto Eco
Dieci anni fa avevo scritto un Elogio di Franti, in cui “Cuore” veniva individuato come turpe esempio di pedagogia piccolo borghese, classista, paternalistica e sadicamente umbertina. Pound, che biograficamente era fascista, scrisse un tipo di poesia che Hitler, se l’avesse conosciuta, non avrebbe potuto fare a meno di bruciare; De Amicis, che era socialista ed ebbe le lodi di Turati, scrisse un libro in cui tutte le tare del costume italiano prefascista (e spesso protofascista) venivano magnificate e proposte ad esempio ai giovinetti. L’ ideologia di un libro non è mai necessariamente quella dell’autore. In quel mio saggio non potevo dunque che identificare nell’opera un solo personaggio positivo, Franti, la cui grandezza morale e le cui ragioni sentimentali e sociali emergevano a dispetto dell’acrimonia con cui l’autore e il suo piccolo diarista filisteo ce lo presentavano. Su questo mio commento non ho ora da tornare perché Luciano Tamburini, nella sua approfondita esegesi einaudiana di quel manuale dei languori, lo usa con equilibrato dosaggio, avanzando persino tra le righe le ipotesi che quella mia e altrui lettura non fosse soltanto una distruzione di “Cuore”, ma l’avvio per una lettura più costruttiva (da cui forse ormai non sarà più assente il sospetto, magari infondato ma tutto sommato eccitante, che De Amicis lo volesse letto anche così).
Tamburini, a cui il mio narcisismo è debitore, giudica il mio Elogio come «massimo punto di tensione nella valutazione di “Cuore”». Riflettendoci bene mi pare però che il massimo punto di tensione sia ancora a venire. Perché la società italiana, formatasi sul modello di “Cuore”, ha continuato a fare del libro una guida per l’azione anche quando non lo leggeva più; in altri termini, l’Italia ha continuato a scrivere “Cuore”; e rileggere la storia italiana recente come una appendice al libro non è affatto divertimento gratuito.
In finale del mio saggio io avanzavo l’ipotesi che Franti, simbolo di un’Italia subalterna e umiliata, spinta fuorilegge dal perbenismo di classe, si riscattasse all’alba del secolo esercitando col nome d’arte di Gaetano Bresci. Ma la storia non si è fermata lì.
Nel 1966, Franti faceva una riapparizione gloriosa con la “Lettera a una professoressa” dei ragazzi di Barbiana: «Ci respingete nei campi e nelle fabbriche e ci dimenticate»…Franti capiva che non era né cattivo né stupido, e si rifaceva a una scuola a misura di subalterno, rifiutava Enrico come un Pierino oppressore e veramente diventava l’eroe positivo (ma questa volta a tutto tondo) del nuovo “Cuore”, modello – speriamo – ai ragazzi italiani di domani.
Tuttavia all’università Don Milani non c’era, e Franti tenta nuove maschere nel 1968, all’università di Torino: il discorso di chiusura dell’anno accademico viene steso da Franti su “Quaderni Piacentini” sotto il nome d’arte di Guido Viale. Meno equilibrato del discorso dei Franti di Barbiana, senz’altro meno costruttivo e più iconoclasta. Ma l’Italia trema. Franti ora occupa le assemblee e impone la sua presenza. Il fatto che ora Franti avesse l’eloquio di Derossi e l’enfasi filantropica di Garrone pose il paese in serie angustie: l’alleanza tra Franti e il Muratorino passava sopra la testa del maestro, anzi richiedeva come rituale fondante che al maestro fosse gettato, da tutta la classe, un calamaio in faccia.
Occorreva correre ai ripari. Dimostrare che Franti faceva scivolare sulle bucce di banana la maestrina dalla penna rossa. Ci riuscì il provocatore, Nobis-Freda, e la borghesia italiana riuscì a crearsi un nuovo Franti sulla sua misura. Rileggetevi la stampa del Sessantanove, confrontate gli stilemi, fate sinossi di De Amicis e dei quotidiani indipendenti: il nuovo Franti è emaciato e torvo, e torvamente zoppica; amato visceralmente da una madre grigia e spettinata e da una zia piangente, scavezzacollo anarchico, non tira palle di neve ma fa il ballerino, il che è peggio. Gli identikit lo accusano, i tassisti lo inchiodano alle sue responsabilità. Si chiama Valpreda. E, come nel capitolo del 6 marzo di “Cuore”, «dicono che non verrà più perché lo metteranno all’Ergastolo». Franti non riappare più nel libro perché né l’autore né Enrico più ce lo vogliono, deve sparire. Esulta il padre di Coretti «coi suoi baffetti aguzzi e un nastrino di due colori all’occhiello della giacchetta», gode il padre di Robetti «capitano di artiglieria». Enrico, in pio pellegrinaggio col padre, va a rivisitare in campagna il vecchio maestro in pensione Julius Evola. L’Italia è salva, “Cuore” ancora una volta trionfa.
Enrico restaurato, non c’è che da purificare la scuola: ci penserà il numero chiuso, e l’aula non più sorda e grigia sarà ora abitata solo da Derossi, Enrico e Nobis, ammessi per tempo. Oh, lo sapeva bene De Amicis: «Ecco il mio libro…un’opera per tutti, di una sincerità irresistibile, piena di consolazioni, di insegnamenti e di emozioni, che faccia piangere, che rassereni e dia forza, una tesi indiscutibile, da doversi subire per forza da tutti… Ah, la vedranno i fabbricanti di libri scolastici coma si parla ai ragazzi poveri e come si spreme il pianto dai cuori di dieci anni, Sacro Dio!». Franti ora è fuori dalla scuola. Non è morto, studia sui fogli della controinformazione. Sinché l’ultimo capitolo di “Cuore” non sarà scritto, il nemico sarà sempre Enrico, che studia sui libri di testo bugiardi ciò che non ha capito Carlo Marx.
Il testo è stato scritto nel 1973, ed è tratto da “Il costume di casa. Evidenze e misteri dell’Ideologia italiana negli anni Sessanta”, un libro firmato da Umberto Eco, in questi giorni in libreria per i tipi di Bompiani, e che raccoglie gli articoli dell’illustre semiologo, pubblicati su questo settimanale (con aggiunta di interventi su altre riviste) nei Sessanta e fino ai primi Settanta. Per la verità, il libro, è a sua volta una riedizione fedele, compresa l’introduzione, del medesimo volume, apparso 39 anni fa. Ma allora, ha senso tutta questa operazione? E perché “l’Espresso” lo consiglia e lo raccomanda ai suoi lettori? La risposta è: perché quei testi non solo fanno capire il “metodo Eco”, fin dai suoi albori (leggere la realtà sociale a partire dall’analisi del linguaggio e dalla sua normalità apparente, smontando e rovesciando gli stereotipi), ma perché sono di attualità stringente. Come è appunto, la lettura di “Cuore”. Ci rimandano infatti a una stagione di grande creatività unita all’uso delle armi della critica. Come potrebbe essere l’autunno che ci attende. W.G.