Il romanzo in lingua sarda “Marantoni” di Mauro Maxia’ di Angelino Tedde
Mauro Maxia, Marantoni, romanzu, Editziones NOR, colletzione Isteddos, Ilartzi, pp. 206, €.12; edizione digitale € 4,00.
Mauro Maxia, specialista di filologia e linguistica italiana oltre che di linguistica sarda, pur preso da un’intensa attività di studi linguistici, filologici e onomastici ˗ come abbiamo avuto modo di scrivere nel nostro sito di Accademia sarda di storia, di cultura e di lingua ˗ questa volta si è lasciato tentare dalla narrativa in lingua sarda. Per il vero non si tratta della prima volta poiché già nel 1976, quando era ancora un ragazzo, scrisse un romanzo in sardo (che però non ha mai pubblicato) oltre a un breve racconto segnalato una trentina di anni fa nel Premio Ozieri. Per questa sua prima opera edita l’autore si è servito della lingua del protagonista che, essendo originario del Barigadu, parla una lingua intermedia tra logudorese e campidanese.
La veste grafica del libro, multicolore e maneggevole (cm. 17 x 12), è davvero azzeccata per eleganza e per praticità. Ottima anche la nota sull’autore e sul contenuto del romanzo in copertina e in retrocopertina. L’opera è in vendita anche in formato digitale e questo aspetto innovativo la rende disponibile a una più vasta platea di lettori sia in termini di accessibilità immediata sia per il prezzo davvero modico.
Il romanzo si presenta in 40 capitoli in genere brevi, ma ve ne sono anche più lunghi, tutti di agevole e piacevole lettura dopo che il lettore si sia abituato ad una parlata che cambia, ma non tanto, rispetto a quelle del nord e del sud dell’Isola.
La fabula del romanzo segue passo passo l’esistenza del protagonista Marantoni che a diciotto anni, appresa l’arte del maistu de muru e fatto rifornimento dei ferri del mestiere e del poco corredo, saluta i familiari e dalla sua Neoneli, quasi ombelico dell’isola, procede verso il nord della Sardegna dove ha saputo del grande cantiere della diga del Coghinas. Ivi giunto, purtroppo senza la qualifica di maistu de muru a causa dell’ingenerosità dei muratori con i quali fino ad allora ha lavorato, chiede di essere sottoposto ad un esame pratico da parte del capocantiere e, data la sua abilità, viene promosso sul campo e subito assunto. Dopo la costruzione del diga del Coghinas il giovane trova lavoro nel cantiere della ferrovia Sassari-Tempio-Palau. Ma egli non si accontenta di lavorare, guadagnare e dormire nei pressi del cantiere. Ha bisogno di fissare un punto fermo e così elegge Perfugas come luogo di residenza, alloggiando nei primi tempi in una locanda a portata di mano. Deve pure inserirsi nel contesto sociale e allora il giovane ˗ grazie ai compagni di lavoro e alla messa domenicale, dove si possono guardare le fanciulle che Perfugas offre come future mogli ai propri giovani, alla festa di San Giovanni, dove si diventa abbastanza agevolmente compares e comares de fogarone saltando i falò notturni ˗ adocchia la sua futura sposa Cisca, diminutivo di Francesca. Sarà dunque Cisca la donna della sua vita, della quale chiederà la mano facendo intervenire da Neoneli i genitori per poi accompagnarla alla presentazione dei suoi parenti al paese natale. Tutto va a gonfie vele e Cisca, a due mesi dal fidanzamento, che in Sardegna allora era considerato quasi un matrimonio, dopo due mesi già attende un bimbo per cui è necessario sposarsi al più presto in chiesa. I due colombi, in attesa di costruirsi la casa ˗ non per niente lui è un muratore ˗ vengono ospitati dai genitori di lei che assegnano loro una camera della locanda. La vita continua con i figli che nascono, con la casa nuova che cresce man mano che le domeniche si succedono alle domeniche (le mattinate erano destinate alla casa da costruire). Si può dire che la vita sia bella e il ciclo proceda senza intoppi. I tempi certo non sono dei migliori perché sotto la dittatura fascista occorre prudenza a manifestare le proprie idee politiche e dove non arriva l’homo faber arriva il discernimento e il consiglio de sa pobidda Cisca per evitare episodi spiacevoli che, comunque, non mancano.
Compagna altrettanto fedele di Marantoni nei suoi primi venti anni di lavoro è l’inseparabile bicicletta, con la quale compie faticosissime trasferte oggi impensabili per qualunque lavoratore. Sembra quasi di vedere un operaio ciclista che per raggiungere il cantiere di lavoro compie tragitti anche di sessanta ˗ settanta chilometri e, nel caso del primo contratto, addirittura 130 chilometri per raggiungere Oschiri da Neoneli. E quando i tratturi non consentono l’uso della bicletta, allora non resta che andare a piedi, alzandosi alle due del mattino per raggiungere il cantiere dopo cinque ore di marcia.
La vita procede serena pur tra le difficoltà di quasi ogni giorno: nascono Giovanni, Elisabetta, Angelo, Andrea e Caterina. Ma quando la navigazione sembra procedere tranquilla e il ciclo della vita sembra seguire quello del tempo ˗ e direi come il ciclo liturgico che va dalla nascita, allo smarrimento, alla cattura e passione morte e risurrezione di Cristo ˗ anche per Marantoni e per Cisca arrivano le amarezze. Una tragedia dopo l’altra li sconvolge proprio quando, ormai superato il mezzo secolo di vita, il percorso si auspica più sereno.
Il protagonista del romanzo muore ormai vecchio seguito pochi giorni dopo dalla moglie Cisca. La generazione eroica si è spenta dopo aver attraversato gli anni Venti e Trenta, le ripercussioni della seconda guerra mondiale e la presenza tedesca, il boom economico della ricostruzione, le temperie sessantottesche e il mutamento radicale di una mentalità ancorata ai primi del Novecento.
Passando a trattare dalla fabula all’intreccio di questo breve (quasi 370 mila caratteri, spazi compresi), ma grande romanzo in lingua sarda, le curiosità sono tante. Infatti, l’escamotage messo in pratica dall’autore ˗ il monologo di un defunto che rivisita come in un flash-back non solo la sua intera esistenza, ma anche quella dei suoi familiari e congiunti ˗ ha il sapore di una saga familiare. Oltre ai brevi riferimenti ai tempi della guerra e della politica, che appaiono e scompaiono come fantasmi, grande spazio vien dato alla vita quotidiana, a quella dei luoghi (in primis Perfugas e Neoneli ma anche altri villaggi sardi), alle vicende paesane e alle dicerie non sempre benevole.
Il teatro delle vicende narrate, pur avendo in questi due centri i propri fulcri, si apre all’improvviso su situazioni inattese come quelle che hanno visto Marantoni o suoi congiunti trascorrere più o meno lunghi periodi in Africa e nell’America Latina, ma anche in Emilia oppure in Umbria. Alla fine le località citate nel romanzo sono oltre quaranta e in alcuni casi costituiscono dei veri e propri quadretti come nel caso del nascente abitato di Palau e dell’abitudine delle sue poche signorine di uscire a passeggio tutte le sere.
Da un punto di vista geografico questa opera si potrebbe anche definire il romanzo di un’isola e tre continenti. Da un punto di vista storico, invece, rappresenta non solo la storia di un uomo ma di una intera comunità che a tratti è quella del villaggio ma a tratti diventa la storia della Sardegna tra l’epidemia di peste spagnola e l’endemia malarica che fanno strage d’innocenti, tra due guerre rovinose e una società che comunque si evolve grazie a grandi infrastrutture come gli sbarramenti artificiali e le nuove ferrovie. Non una controstoria dell’Isola, ma comunque un’altra storia che difficilmente si coglie nei libri di testo proprio per il fatto che è animata dai problemi e anche dalle angustie di tante persone che nel romanzo a volte sono proposte in primo piano e altre volte si vedono sullo sfondo di una rappresentazione colletiva.
Dunque, non la solita storia che nasce e finisce nel passato di un qualunque villaggio sardo, ma un insieme di situazioni che spesso si collocano fuori dell’orizzonte isolano. In questo contesto, pur nella semplicità d’animo del protagonista, al lettore attento non sfugge la sofferenza e il tormento che lo accompagnano in alcuni momenti cruciali della propria esistenza. Così come non sfuggono le pennellate con cui, seppure attraverso una prosa che a tratti potrebbe apparire scarna, vengono descritte le personalità di vari personaggi (artigiani, impiegati, preti, ciabattini, muratori, poeti, negozianti, industriali) che popolano il racconto.
Volendo trovare un fil rouge che innerva il racconto, si potrebbe intravedere nel dramma lacerante rappresentato dalla morte violenta dei figli che coinvolge non solo il protagonista ma prima di lui anche suo padre, il cui primogenito scompare a seguito di un oscuro episodio di abigeato. La modernità del racconto, poi, emerge ripetutamente nell’attenzione rivolta al lavoro, alle sue problematiche costituite ora dalla durata della giornata lavorativa ora dalle scarse misure di sicurezza ora dalle inesistenti, o quasi, coperture assicurative e previdenziali.
Trattandosi della storia di un maistu de muru, particolare attenzione è rivolta ai caratteri edilizi delle costruzioni ma anche a certe consuetudini come quelle legate al matrimonio e alla morte. Una serie di curiosità rendono avvincente la lettura del romanzo che il nostro esperto filologo sa maneggiare con maestria. Per farla breve, la lettura non conosce soste se non forzate da fattori esterni. Marantoni, ottimo lavoratore dotato di bonomia, di fronte alla parola data, pur richiamato da Cisca su certi calcoli non perfetti relativi alla costruzione di un palazzo, preferisce non guadagnare nulla piuttosto che venir meno a un malinteso senso del valore attribuito alla “parola data”. Il denaro non è tutto. L’uomo serio deve possedere l’etica del dovere, dell’impegno assunto, del lavoro, della lealtà, del rispetto delle persone come quello delle tradizioni civili e religiose. Se si vuole trovare un elemento sottostante all’azione del protagonista e nella complessiva trama lo si può certamente individuare nella duplice interazione del dovere e della volontà con gli affetti, mai esibiti ma che riemergono quasi in ogni pagina.
Siamo ben lontani dall’ottuso e dannato Mastro Dongesualdo di Verga, dal fatalismo senza scampo di Grazia Deledda e più vicini all’uomo che in qualsiasi circostanza, tragica o lieta, deve salvaguardare la propria dignità senza dare spazio ai sentimentalismi di qualunque genere siano. Il lavorio antropologico-culturale del primo e del secondo Novecento va sfociando lentamente nella società dei diritti, certamente, ma secondo Marantoni pure dei doveri.
La lingua. Al primo approccio, abituati come siamo ciascuno alla parlata del proprio paese, magari la lettura può richiedere un minimo di adattamento a lettori non proprio adusi a leggere dei testi in sardo. Ma se ti abitui subito a po per pro, maistu per mastru, bisongiu per bisonzu, traballae per trabagliare, fàere per fàghere, geo per deo, seus per semus, cecìu per sètzidu, pobidda per muzere, figiu e figia per fizu e fiza la lettura fila via senza la minima incertezza. Una certa sorpresa magari la provi quando per tutto il romanzo il gerundio lo trovi con le antiche desinenze latine che a prima vista potrebbero anche sembrare italiane: traballando, faendo, finindo. Insomma, dopo la lettura delle prime dieci pagine ti rendi conto che anche quello è il tuo sardo, variegatissimo, che si muove e vive con un volteggiare diverso, ma grazioso, con una musicalità a volte più dolce o più acuta, ma è sempre la tua amata lingua sarda ˗ che nel suo ballo tondo tiene a braccetto la parlata logudorese e quella campidanese ˗ certamente quella più vicina al linguaggio del monumentale Codice di Eleonora d’Arborea. Qua e là, tuttavia, nel contesto di situazioni specifiche emergono sporadiche citazioni nella parlata perfughese e, almeno in un caso, pure in gallurese. Anche dal punto di vista linguistico, dunque, l’Autore si mostra coerente dall’inizio alla fine con i personaggi e le vicende narrate oltre che con le sue solide competenze.
Mauro Maxia con questo romanzo si pone decisamente come caposcuola, non solo teorico ma anche pratico, di una nuova fase della lingua sarda che va al di là delle ataviche divisioni da chentu concas e chentu berritas. Forse dovremmo risvegliare un po’ l’attenzione per la nostra bella lingua isolana da parte dell’anglofilo presidente della Regione Sarda Francesco Pigliaru che, se la madre Rina non avesse avuto il polso e la lungimiranza per richiamarlo in patria, ce lo saremmo trovato ancora tra gl’illustri sardi inglesi.