I monelli di via Garibaldi (1940-47) a Chiaramonti di Angelino Tedde
Eravamo un gruppo di nove ragazzini, in Chiaramonti, nel rione de Sa Niera: nei pochi metri quadrati di via Garibaldi 17, il più grandicello era Giuanninu mentre Angelinu, Ico, Faricu quasi coetanei; le ragazze: Margherita, Giannedda, Giuannina, Toiedda e Matteuccia, queste, mie sorelle. Si giocava insieme dalla mattina alla sera, scorrazzando tra la casa Grixoni e quella meno agevole dei fratelli Pisanu: Placida, Ottavio, Giulio, Toeddu. Corsa, bagliaroculos, imbrestia (gioco al sasso piatto) monteluna e le ragazze, a brucio, saltellando ad una gamba dentro i quadrati disegnati con la carbonella.
Spesso si sconfinava nella stradina a larghe scaline che portava in via Cavour, quasi dentro la casa di zia Lucia Tedde e più in là di zia Ziziglia, la più insopportabile insieme a zia Mariantonia, che vigilava da un piano sopraelevato, all’angolo, del vicoletto, che portava alla strada più alta de sa Niera. Non potevamo che stare insieme dal momento che Giuanninu, Ico, Margherita e Giuannedda erano figli di zio Peppeddu Biddau e di zia Leonarda Porcheddu che abitavano il piano sopraelevato al nostro di proprietà di zia Filomena Tedde, emigrata a Perfugas con zio Bachisio Ortu.
Sotto, in quella che era stata la casa prima di mio bisnonno Antonio e poi di mio nonno Matteo, stavamo noi, figli di Angelinu Tedde, senior, e di Serafina Linda Piras.
Nostri dirimpettai erano Giuannina e Faricu, figli di zia Marietta Succu e di zio Giuanne Tolis.
Quanto era silenzioso mio padre, altrettanto era chiassosa mia madre, di padre nulvese e di madre chiaramontese, educata per sei anni a Luras da cui aveva preso l’abitudine alla cordialità gallurese, spesso fraintesa dalle donne educate in Chiaramonti. Più chiusa zia Marietta e giovialissimo zio Giuanne. Scandaloso, sbracato zio Peppeddu che, suonando la fisarmonica, aspettava il sole dell’avvenire, mentre zia Leonarda Porcheddu sgobbava come una mula dalla mattina alla sera.
Zia Lucia Tedde era affettuosa anche se molestavamo la sorella Domenica alla quale il Signore non aveva voluto dare un minimo di comprendonio insieme al vicino di casa Giuseppe. Da monelli abusavamo della loro loquela confusa e del loro stravagante gesticolare ed agire. Condotta da riprovare severamente anche nei piccoli quando si comportano in modo disumano verso coloro che la natura ha voluto colpire così crudelmente.
Terribile per tutti la ploaghese zia Mariantonia, che penso passasse la giornata osservandoci, per sgridarci appena possibile, imprecando contro le nostre mamme. Sconfinando giù oltre gli scalini, in via Cavour, a destra, incontravamo talvolta assorto zio Giuannandria Tedde-Corda e zio Peppe Tedde-Birraldu, marito di zia Ziziglia, identica a zia Mariantonia alle porte della piazza del retrocaserma dove zio Federico Ruju, proprietario di una macelleria, al massimo ci esortava a fare silenzio e a tornare nella nostra strada in via Garibaldi 17. Nelle serate estive però non potevamo obbedirgli tanta era la passione per catturare i pipistrelli con le canne ricoperte in cima da stracci bianchi. Noi monelli non usavano pietà per questi bistrattati volatili. Altra riprovevole cattiveria.
I momenti eroici e tempestosi al tempo stesso erano quelli della trebbiatura del granoturco alla Croce. Quando si veniva a sapere delle dorate montagne di tutoli la tentazione di abbandonare il paese, attraversare la curva della sterrata provinciale, all’ombra dell’incombente bosco dei frassini, raggiungere la Croce e fare il pieno da quelle montagnole, era come conquistare l’America. Queste azioni audaci erano assolutamente vietate dalle mamme che, scoperta la gravissima trasgressione e pensando a ciò che poteva capitarci, ma che non ci era capitato, sfoderavano mani pesanti, punizioni severe e declamati incidenti a cui avremmo potuto andare incontro. Allora la piccola strada si riempiva di urla e di pianti trasformandosi in una valle di Giosafat. La sera, al rientro dei padri, ci attendeva il supplemento con minacce che, per fortuna, mai si trasformavano in punizioni, forse perché avevano la schiena rotta dalla fatica o forse perché in fondo apprezzavano le nostre audaci fughe alla ricerca della materia prima, per costruire il giocattolo più prestigioso: un paio di buoi, un carretto di canne, ruote di pale di fichidindia e conseguenti giostrate sui ciottoli imitando l’aratura da piccoli apprendisti contadini.
Verso Piatta de Litu c’erano le forche caudine dei fratelli Pisanu, delle sorelle Ruju e della loro madre zia Leonarda Cossiga, di zia Pietruccia Saba, mentre più sereno se ne stava zio Battista Scanu.
Piatta de Litu era il campo delle sfide a sassaiola e delle teste rotte, quando scoppiavano le risse a volte tanto agognate da noi, ma reppresse dalle mamme irate e dalla mano pesante.
Altra evasione era il sentierino che ci conduceva all’ombra della torre del mulino a vento, dove abitualmente si andava a depositare le incombenze susseguenti ai pure magri pasti. Tutti in fila, uno accanto all’altro, col solito rito, mentre, le mosche, di variopinto colore, provvedevano a smaltire i nostri caldi depositi. Non si perdeva tempo pure in quei momenti, data la crescita dei gambi di margherite selvatiche che offrivano verdura fresca ai nostri palati come in primavera avveniva per i tarassi (pabanzolu) lungo i sentieri dell’ombreggiante pendio di Codinarasa.
Altri adulti che s’incrociavano nella via erano la nerboruta nulvese zia Domenica Posadinu, la buona e dolce zia Nannedda Uneddu, la problematica zia Leonarda Cossiga e il paziente padre zio Chicu. Spesso transitava carica di frutta prelibata, rossa in volto come un peperone, la fedele domestica dei Grixoni, che si sarebbe fatta uccidere piuttosto che allungare una mano, per offrirci le mele o le pere, che crescevano presso la campagna della Croce e che, in autunno, scaricava nelle cantine del maestoso palazzo, destinate a marcire.
I nove monelli di via Garibaldi, li ricordo così, Giovannino Biddau, alto e buono, fungeva da nostro santo protettore e paciere, Ico ed io eravamo le teste calde della situazione; Faricu, sempre sorridente, era buono e solidale. Le ragazzine, a cominciare dalla maggiore, Margherita, la mia prima innocente innamorata, tra i cinque e i dieci anni, è rimasta tale nei miei ricordi. Giovannetta sensibilissima: si spaventava alla vista di una goccia di sangue. Giovannina, allegra, rideva come un maschiaccio e scherzava sempre. Mia sorella Antonia, mangiava in continuazione, collaborava per gli assalti allo zucchero dell’ultimo cassetto del cantarano, salvo andare a riferire tutto a mia madre che naturalmente aveva le mani pesanti e leste quando doveva insegnarmi a non rubare lo zucchero. Un discorso a parte poi meriterebbero le minacce di Sant’Andria Mozzalimani. Matteuccia era un po’ la piccola di tutti, l’ultima nata e la più ben voluta dal gruppo. Superprotetto dalle sorelle fece qualche volta la comparsa Zenone Ruju.
Passando in Via Garibaldi (oggi via Leopardi) dove quasi tutte le porte sono chiuse e disabitate, salvo la casa dei Pisanu e delle sorelle Ruju, vado spesso ripensando agli adulti che se ne sono andati uno dopo l’altro.
La casa di zia Nannedda Uneddu è rimasta aperta e spesso il vento fa sbattere la porta e la finestra. Quando salgo al cimitero vedo ancora lo sguardo tra arcigno e bonario di zia Pietruccia Saba, quello dolce e remissivo di zia Leonarda Porcheddu e ancora, in attesa del sol dell’avvenire, lo sdegnato volto di zio Peppeddu, il suonatore di fisarmonica che bene o male si è conquistato un dignitoso loculo, avendo disdegnato spesso lo sfruttamento padronale per dedicarsi alla pesca nei fiumi della piana di Ozieri.
Gli altri sono stati seppelliti senza una foto, ma rimangono nel mio ricordo come se ancora fossero vivi. Come farei a dimenticare il volto pallido di zia Marietta Succu e quello bonario di zio Giovanni Tolis che, morto in Belgio, è seppellito in Chiaramonti?
Dove siete finiti in questo cimitero popolato di cipressi centenari, zia Lucia, zia Ziziglia, zio Peppe, zio Giovannandrea, zia Mariantonia, zio Chicu, zia Nannedda?
I primi ad andarsene, in una fosca mattina di febbraio furono i miei e con loro sia pure vivi, ma con i cuori trafitti, lasciammo quella strada della nostra fanciullezza io e le mie due sorelle.
I nove monelli che, passeggiando solitario alle prime luci dell’alba di tante mattinate estive, rivedo, sono emigrati lontano: Ico, che ha sposato mia sorella Antonia, è vissuto in Belgio è gia passato al di là del confine della vita e riposa nel cimitero di Tertre (Mons). Giovannino, il buono, trascorre i suoi giorni ugualmente in Belgio e così è stato di Faricu e di Giovannina. Margherita, dopo tante vedovanze, è tornata a Torino dove ha trascorso la maggior parte della sua vita. Giovannetta vive nel Lazio, sempre saggia e disponibile verso tutti i suoi fratelli e sorelle. Mia sorella Matteuccia vive non lontano da Sassari e così anch’io. I nove monelli di via Garibaldi 17 hanno lasciato tutti il paese. Qualcuno, come capita a me, a Faricu, a Giovannina torniamo per questi ricordi dolce-amari della nostra fanciullezza.
Guardiane dei ricordi restano ancora in via Leopardi (oggi), già via Garibaldi ieri, Placida Pisanu, le sorelle Giuliana e Maria Ruju, d’estate si unisce a loro Lalla. Le altre due vivono in paese, ma, sposate, hanno cambiato strada.
I Grixoni ad uno ad uno se ne sono andati con la loro domestica fidata che pietrificava con uno sguardo i monelli ai quali veniva in bocca l’acquolina per assaggiare una mela o una pera destinata a marcire.
Vivano a lungo gli ancora viventi e riposino in pace i defunti di quella che fu, che oggi non è più, Via Garibaldi, nel rione de sa Niera di Chiaramonti, il più bel paese di collina che abbia mai conosciuto e che ovunque io vada continua a commuovere il mio cuore con i ricordi della più dolce fanciullezza di strada.
Articolo già pubblicato sul sito Ztaramonte di Carlo Moretti.