“Orizzontale, 11 lettere: CARDIOLOGIA. L’avventura di un ricovero” di Casirio D’Adda

 

Sono le tre di notte e il mio cuore fa le bizze. Vivo da solo a meno di un km dall’ospedale Santissima Annunziata a Sassari, un edificio che per me fino a pochi giorni fa era un casermone piuttosto anonimo. Pur essendo cardiopatico di lungo corso, con un pizzico d’incoscienza, non mi ero posto il problema di gestire un’emergenza privo dell’immediato supporto di familiari, per inciso, tutti residenti, come me, in continente.

Chiamo il 118 e in pochi minuti l’ambulanza è sotto casa. Viene individuato il problema cardiaco, confermato poi al Pronto Soccorso.

“Abbiamo un posto!” mi annunciano con un incomprensibile entusiasmo medici e infermieri del PS e io mi chiedo il perché di tutta questa euforia. Lo scoprirò pochi minuti dopo. Non è così scontato trovare collocazione nel reparto di terapia intensiva cardiaca a Sassari. Riassumendo: la buona notizia è che il posto per il ricovero c’è, la cattiva è che bisogna arrivarci! Inizia, infatti, un vero e proprio slalom tra letti, brande, comodini, carrelli con farmaci o lenzuola, armadi zeppi di fascicoli medici. Il tutto accompagnato da una moltitudine di letti che, come vagoni in una stazione disadorna, ospitano pazienti, doloranti, assopiti, languenti o ciarlieri. Uomini e donne, giovani e vecchi tutti insieme in una vociare da piazza mediterranea.

Finalmente raggiungo la meta agognata. Constato che anche la terapia intensiva è sovraffollata, infatti nella camera per 4 letti ce ne sono 5. Posizionata la ‘branda’, inizia l’allestimento del monitoraggio con il solito via vai di cavi e allacci. Ma, causa affollamento, dove c’è la presa manca un campanello, dove c’è un’asta non c’è lo spazio per

l’elettrocardiografo. Ed è tutto, almeno questo sembra a chi come me vede il mondo da sdraiato, uno spostare, rubarsi strumenti, guadagnare centimetri. La rassegnazione, l’imprecazione, in alcuni casi lo sberleffo, serpeggiano nel popolo dei pazienti, e non solo.

Cerco una sedia per appoggiare i miei vestiti, ma non c’è nulla, arriverà dopo due giorni un comodino a tre ruote, precario come tutta la struttura che mi sta ospitando. Solo alla sera, frastornato da questa comunità brulicante scopro che ho passato gran parte della giornata sul lettino con cui sono arrivato dal Pronto Soccorso. Ho, purtroppo, sperimentato vari ricoveri ospedalieri, ma mai mi sono sentito così esposto, privo dell’ elementare privacy, nudo, non solo fisicamente, ma soprattutto psicologicamente.

Tuttavia, quello che conta, in queste prime ore, è che il team di medici e infermieri siano rassicuranti e preparati. Mi sento subito tranquillo: il mio caso è ben inquadrato, la terapia prontamente stabilita, il mio corpo reagisce e, un po’ più lucido, ho modo di apprezzare, accanto alla professionalità, l’umanità di tutto il personale.

Sempre dalla mia postazione orizzontale, e perciò del tutto soggettiva, mi pare che dottori e l’organico facciano mille volte di più di quanto sia possibile in questi locali obsoleti, disadorni e a tratti fatiscenti. Mettono l’anima nel loro lavoro e devono lottare con fili elettrici, servizi che non funzionano, luci che mancano o che eccedono.

Noto l’affanno e il senso d’impotenza generato da un rapporto pazienti/staff medico- infermieristico sproporzionato che inevitabilmente genera confusione. Per esempio: l’igiene personale si mischia alla distribuzione del cibo, la pulizia dei locali è precaria perché i ritardi accumulati in giornata prolungano oltre il dovuto la sistemazione delle camere, inoltre, la calca permette di lavorare solo su piccoli fazzoletti di pavimento libero da ingombri, idem per il riordino dei letti e le piccole, ma importanti, richieste di noi pazienti, che non possono essere evase con la prontezza attesa, creando ansia e frustrazione.

 

Per quanto attiene ai “bisogni personali” degli allettati, una delle preoccupazioni più assillanti di noi degenti, in reparto si fa il possibile per conservare dignità, ma non è un obiettivo facile in stanze sovraffollate e senza paraventi adeguati. Scoprirò che, guadagnando in autonomia, si può arrivare al bagno, laggiù nel corridoio, cioè ai servizi igienici ambitissimi, per altro, ma unici, perciò con un via vai costante di persone. Il comando è perentorio: “Non chiudersi a chiave”, ma il “piantone” dell’infermiere non è garantito al 100% visto il grande bisogno in reparto così chi è alla toilette deve stare vigile sperando che il suo spazio privato non venga infranto. Nel bagno manca il comfort e perfino il porta asciugamano; il lindore, inoltre, risulta difficile da garantire, visti i numerosi fruitori.

Passa qualche giorno e improvvisamente vengo trasferito – letto e comodino zoppo, – nel corridoio, non sarà l’ultima metà del gioco dell’ oca dei letti. Con la nuova assegnazione ho perso anche quel poco di identità datami dalla scritta “letto n. 12” che mi garantiva, almeno, di essere un numero facilmente identificabile. Ma il corridoio – mi dicono gli esperti pazienti bighellonanti nell’andito – ha i suoi vantaggi: “Ora sei libero e puoi muoverti”. Vengo così lasciato, armi e bagagli, in una posizione super privilegiata: davanti all’ingresso dei bagni e quindi posso godere del controllo, a soli 10 metri, dell’unica presa elettrica dove degli assistiti dove ricaricare il cellulare che mi permette un legame con i familiari che risiedono a 650 km di distanza.

In realtà, riposare è davvero difficile in queste condizioni e si ha la percezione che sia impossibile seguirci tutti, cosa in realtà smentita da una funambolica capacità di dottori e personale infermieristico di reperirci e assisterci con i medicinali e altro, nonostante i continui spostamenti.

A questo punto, trascorsi alcuni giorni, sono ormai a un passo dalle dimissioni, e decisamente più presente. Posso dedicarmi allo studio dei diritti dei malati e scopro che al numero 8 c’è “il diritto al rispetto di standard di qualità”. Mi tuffo alla ricerca dello standard nella carta dei servizi di questo ospedale, anch’essa -come noto nel sito- in manutenzione straordinaria, come tutto il resto. Mi colpisce la frase: “Nel reparto di degenza al paziente verrà assegnato un letto, un comodino e un armadio per riporre il vestiario e gli oggetti personali”, un minimo purtroppo non garantito.

In conclusione, per quello che può valere il parere di un degente steso su un lettino orizzontale, se è davvero encomiabile la disponibilità dei medici di accettare in reparto tutti i pazienti bisognosi di cure, anziché lasciarli al Pronto Soccorso, addirittura privandoli del diritto costituzionale alla salute, risulta inaccettabile la convivenza con problemi logistici e strutturali così macroscopici, specie in un reparto, come quello cardiologico, dove occorre agire con il massimo tempismo. Viene da pensare quanto la corda possa tendersi prima che si spezzi, prima cioè che quell’equilibrio fondamentale tra cura, risorse economiche e bene comune produca un fuggi fuggi alla ricerca di luoghi più dignitosi e certamente profittevoli per la speculazione privata, facendo così perdere alla Sardegna, e al servizio sanitari nazionale, capitale umano, sensibilità e accoglienza preziose e abbondanti in questo reparto così strategico.

Sassari,21 marzo 2024

Ci pare giusto presentare il personale e la performance di questo reparto (la Redazione)

Carissimo, mi è sembrato di leggere il passo di un romanzo che mi ha fatto rievocare il mio ricovere per la biopsia al fegato nel 1991. A letto con un rotolo di asciugamano con cui dovevo premere il punto in cui mi era stata infilazato il fegato. Un comodino a 4 zampe. L’armadietto a dieci passi vicino alla finestra.

Alla mia destra il sig. Tizio che si gonfiava come una rana e la cui moglie gli passava sulla fronte forse un olio miracoloso, invano, perché l’ammalato tendeva a gonfiarsi perché il fegato non assorbiva nessun liquido. A sinistra un maestro picchiapitre di Sassari il miglior scalpellino, ridotto ad uan lucertola, tutto verde e doloroante. Cade la notte. Il poveretto cerca di alzarsi dal letto e dirigersi verso l’unico bagno oltre il corridorio. Mantre scende cade a terra e in contemporanea si piscia addosso inzuppandosi. Chiamo col mio campanello le infermiere. Arrivano, lo prendono di peso e lo gettano dentro il letto. Sollevno le spopnde e se ne vanno. Dicono che dovranno pensarci le infermiere del prossimo turno. Il poveretto si lamenta inzuppato di piscio. La mia generosità mi spinge a fregarmene del tappo al mio fegato. Mi levo dal letto e prendo un asciugamano che prima inzuppo di acqua calda e poi stringo per liberarlo dall’acqua. Vado dal poveretto, abbasso la sponda e comincio ad asciugarlo dal piscio che aveva addosso. Prendo dal suo armadietto un pigiama pulito e dopo avergli tolto il pigiama inzuppato di piscio lo rivesto con suo grande sollievo. Elimino anche il lenzuolo pisciato. Mi sorrise nella luce ombreggiata del camerone. Torno a letto e al mio tampone. La mattina non arriva nessuno del personale, ma lui mi sussurava:- Grazie Angelino.- Le sue condizioni pegioravano. Ogni mattina il cappellano veniva a portarmi la Santa Comunione.
Il poveretto mi racconto’ che dai 20 anni aveva lasciato di credere in Dio dopo che, essendo militare non l’avevano lasciato andare a dare l’ultimo saluto alla madre. Ora chiedeva di confessarsi e di ricevere la Comunione. Feci chiamare il cappellano che vedendolo in difficoltà gli disse, chieda perdono a Dio dei suoi peccati. Quello riusci a dire sì. Il cappellano gli diede l’assoluzione e lo comunico’. Sorrise per un po’ il poveretto e nella notte mori. Vennero i suoi parenti testimoni di Geova, ma mi lasciarono fare. Recitati l’ufficio dei defunti davanti al suo cadavere e lo salutai per sempre con un bacio sulla fronte.
Lascia l’ospedale con questa diagnosi:epatopatia  con moderata evoluzione cirrotica. Si prescrive un anno di iniezioni sottocutanee, a giorni alterni, con interferone. Feci la cura a giorni alterni con conseguente febbre a 38, 39. Alla fine dell’anno, niente di nuovo. Comprai il testo degli studenti sulla patologia epatica, mi feci questa diagnosi: cirrosi latente compensata e mandai al diavolo i medici. Lessi le controindicazioni francesi sulle biopsie, lo scritto di un premio nobel , mi pare Duisberg, che sosteneva l’inesistenza del Virus C. Insomma per farla breve. Sette anni fa Domitilla mi porto’ da certo dr. Zaru che con INCLUDE, ossia papaverina con ribaverina, in tre mesi 28 pastiglie al mese, fece scomparire e bloccare la cirrosi epatica e il Virus C dall’RNA. Sono ancora vivo mentre mi divoro gli 88 anni da 3 mesi. Per finire, conosciuti i nostri mali e fat le debite cure ci abbandoniamo a Dio e poi faccia Lui il resto.
Tu, grazie al Cielo sei ancora vivo, fa’ quanto ti hanno consigliato perché ora non puoi andartene mentre ti arride ad Alghero il convegno e una discreta mangiata di crostacei al Macchiavello, nel centro storico di Alghero. Grazie a Dio la tua affettuosa mamma col cuore malmesso e col trapianto l’ha tirata per 80 anni. Riposo, prudenza e governati nel migliore dei modi.
Il tuo pezzo di romanzo potrà continuare con miglior trattamento di ricoverato.
Un forte abbraccio e grazie per la cronaca.
Ange de Clermont

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