«Mostrate la ragione della speranza che è in voi» (cfr. 1Pt 3,15). di Maria Cristina Manca scrittrice.

«Mostrate la ragione della speranza che è in voi» (cfr. 1Pt 3,15).

È una questione di gratitudine, anche quando quella speranza sembra di non averla più.
Ma la si è avuta.

Ed è impossibile non essergliene grati.

Diventa irrilevante persino l’averla persa.

Un giorno la si è avuta. Perciò la si può raccontare come un memoriale, sempre pronti, per gratitudine, «a rispondere a chiunque domandi ragione della speranza (cristiana) che è in noi» o che un giorno in noi è stata, lasciandoci un indelebile profumo nel cuore.

La speranza è un dono dolce del Signore, ci fa desiderare l’umiltà e la mitezza, dona limpidezza allo sguardo, forza amorosa al cuore.

Neppure la dolorosa delusione, soprattutto su sé stessi, che sopravviene quando la si perde, può cancellare la gratitudine verso questa grazia celeste assaporata un giorno.

Solo la tiepidezza può annientarla: è un veleno spirituale che spegne ogni entusiasmo, la tiepidezza; impedisce la conversione, ostacola la fede, blocca la carità, cancella la gratitudine, interrompe la speranza.

Eppure «niente è impossibile a Dio», proclama la Sacra Scrittura.

Gesù può liberarci anche dalla tiepidezza, dall’apatia, dall’accidia. Ma magari gli sarebbe più “facile” (mi perdoni l’Onnipotente) se in noi ci fosse almeno un microscopico desiderio di rispondere alla sua chiamata, se ci fosse una qualche lontana nostalgia di metterci in cammino verso la pienezza, se ci fosse una pur vaga spinta interiore a voler utilizzare i tanti talenti nascosti che abbiamo.

«La virtù della speranza – dice il n. 1818 del Catechismo della Chiesa Cattolica – risponde all’aspirazione alla felicità, che Dio ha posto nel cuore di ogni uomo; essa assume le attese che ispirano le attività degli uomini; le purifica per ordinarle al regno dei cieli; salvaguarda dallo scoraggiamento; sostiene in tutti i momenti di abbandono; dilata il cuore nell’attesa della beatitudine eterna. Lo slancio della speranza preserva dall’egoismo e conduce alla gioia della carità».

«Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1Pt 3,15).

Ma se nessuno domanda?

Impossibile.

Se un cristiano non percepisce attorno a sé e in sé questa domanda, vuol dire che è sordo o, peggio, è preda della irriconoscenza e della tiepidezza che gli chiude le orecchie del cuore, gli inietta torpore nella mente, lo porta a rifiutare la fede, a rinnegare la carità, a cancellare i ricordi delle gioie celesti; privo di speranza il cristiano diventa muto, cieco, incapace di vedere l’amore di Dio e di scorgere il proprio e l’altrui splendore che questo amore regala.

D’accordo, la domanda c’è; tuttavia che risposta, innanzitutto a sé stessi, dare?

La prima risposta che mi viene in mente è una Parola biblica: «Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero … gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione; il Signore ci fece uscire dall’Egitto». (Dt 26,5).

La speranza cristiana (la quale mai può essere disgiunta dalla fede e dalla carità) nasce sempre dalla Grazia divina ma si ravviva ed alimenta con il nostro grato ricordo della salvezza ricevuta dal Signore in tanti momenti della vita. Il Signore ci ha salvato, ci salva e ci salverà; e dopo il nostro cammino terreno, per alcuni impervio e doloroso oltre ogni dire simile a quello di Cristo crocifisso, riceveremo «la corona della gloria che non appassisce» (1Pt 5,4); avremo in dono «la corona della vita, che il Signore ha promesso a quelli che lo amano» (Gc 1,12); «venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo; perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi» (Vangelo: Mt 25, 34). «Sii fedele fino alla morte e io ti darò la corona della vita» (Ap 2,10). È una fedeltà d’amore.

Davanti a noi c’è il Paradiso, non il nulla.

È la Rivelazione del Risorto, è la fede della Chiesa, nella quale viviamo attraversando comunque dubbi, nebbie, tempeste, smarrimenti, sofferenze, paure, oscurità, prove persistenti contro la fede; però al contempo ricevendo una misteriosa ma attendibile fiducia in Colui che ci ama, che ha dato se stesso per noi, che durante tante nostre ore terrene abbiamo incontrato come Padre, Fratello, Spirito d’Amore, Amico, Liberatore, Alleato, Salvatore, donatore di perdono, di misericordia, di significato e di eternità.

La seconda risposta che vorrei porgere nonostante la mia estrema povertà, è uno sguardo (pur se ancora cieco) sul mistero della sofferenza.

La speranza non esime dall’afflizione, dalla fatica, dal disorientamento, dalla morte.

Neppure Gesù ne fu esente. Egli scelse, per amor nostro, di non esserne esente. Al punto che «pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2, 6-8).

Gesù nella sua natura umana (non ovviamente nella sua natura divina) conobbe afflizioni, oltraggi, umiliazioni, tradimenti, rinnegamenti; nell’orto del Getzemani conobbe solitudine, tristezza, paura, angoscia simile all’annientamento psicologico tanto da sudare sangue: «La mia anima è triste fino alla morte … restate qui e vegliate con me … poi  si allontanò da loro quasi un tiro di sasso, si prostrò con la faccia a terra e pregava dicendo: Padre mio, se è possibile passi da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà; gli apparve allora un angelo dal cielo a confortarlo; in preda all’angoscia, pregava più intensamente; e il suo sudore diventò come grumi di sangue che cadevano a terra. » (cf. Mt 26, 38; Lc 22,42); durante la via crucis conobbe ogni genere di dolore fisico; nel supplizio della crocifissione dovette assistere allo strazio della Madre che lo guardava (e alla quale proprio in quel momento chiese di prendere noi come figli, ciascuno di noi come figlio prediletto, e a noi chiese di accoglierla in casa nostra come Madre); infine sulla croce Gesù  sperimentò addirittura la sensazione di essere abbandonato da Dio (pure se morì affidandosi a Lui, dopo avergli chiesto di perdonarci perché incapaci di capire l’enormità del peccato).

Certo Gesù «il terzo giorno risuscitò da morte. Ascese al cielo e siede alla destra di Dio Padre Onnipotente» (Credo Apostolico).

Ad ogni modo qui sulla terra volle essere del tutto «simile a noi, eccetto il peccato».

Conobbe sia la gioia della nostra condizione umana, sia il dolore. Ebbe una vita felice perché impregnata d’amore, ma al contempo il suo cammino terreno fu travagliato perché quando l’amore è davvero autentico (e l’amore di Gesù è l’autentico per antonomasia) ha sempre qualcosa del travaglio del parto: «La donna, quando partorisce, è nel dolore, perché è venuta la sua ora; ma, quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più della sofferenza, per la gioia che è venuto al mondo un uomo» (Gv 16,21).

L’amore genera vita. Gesù ci ha donato la sua vita, perciò anche noi già ora sulla terra possiamo assaporare le primizie della sua Risurrezione.

Tuttavia vorrei soffermarmi ancora un attimo sul Getzemani. Innanzitutto per rinnovare la mia gratitudine a Gesù avendo fiducia di poter così confortare almeno un pochino quei suoi momenti di tristezza in cui chiedeva la veglia degli amici.

Inoltre per poter consolare il nostro cuore sussurrandogli di non sentirsi fallito ed imbarazzato dalla vergogna quando la paura e l’angoscia lo assalgono a causa di dure vicissitudini esistenziali e il tormento gli fa sembrare di aver perso la speranza.

No, la speranza non è persa neppure allora; vive sotto la cenere dell’amore messo alla prova; esiste di vita propria dentro i Sacramenti che riceviamo, c’è all’interno della Grazia ordinaria e straordinaria di Dio che di continuo riceviamo; cresce nel nostro amore per Lui, per gli altri e per noi stessi nonostante non riusciamo più a percepirlo ma che essendo in comunione con il Dio della vita sta di sicuro, nel travaglio doloroso del parto, generando vita.

Se dunque anche Gesù, ripeto, ha avuto paura, perché vergognarci noi di averla? Donde, se non da rigida superbia, proviene tale vergogna?

Sentirsi afflitti non significa aver perso la speranza.

Pure Maria Santissima sentì afflizione sotto la croce del Figlio.

«Abramo ebbe fede sperando contro ogni speranza» (Rm 4,18-25).

I santi conoscono spaventose notti di oscurità e di dubbio.

Non confondiamo la superba impassibilità con la fede, l’apatica rassegnazione con la speranza, la distaccata filantropia non la carità fraterna.

Cerchiamo quindi, noi piccolini nella fede, miserelli fratellini dei santi, di non drammatizzare e non vergognarci in modo superbo se, quando, l’afflizione ci assale, ci sentiamo smarriti. Perché tale drammatizzazione e vergogna vengono dalla presunzione, dalla superbia, dal desiderio di vanagloria.

Ricordiamoci inoltre che «Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio» (1Cor 1,27-28); «perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato» (Lc 14,11).

L’importante, quando l’afflizione ci assale, è correre subito tra le braccia colme d’amore di Dio nostro Padre, rifugiarci al più presto nel Sacro Cuore misericordioso di Gesù Crocifisso e Risorto, ed invocare senza indugio di vergogna l’amore infinito dello Spirito Santo che “tutto dispone per un nostro bene maggiore”.

E se proprio siamo in fase di capricci da dolore, e vogliamo fare gli offesi col Signore che in apparenza non ci ha aiutati, facciamo almeno come Lui ci ha detto: «Venite, discutiamo» (Is 1,18). Meglio una sana discussione col Signore, della serie: «Non ti importa che moriamo?» (Mc 4,38), molto molto meglio questo sano atteggiamento piuttosto che scegliere il gelido o imbarazzato mutismo con Dio, con noi stessi e con gli altri.

Infatti sinché con il Signore discutiamo, siamo a posto; vuol dire che crediamo nella sua esistenza, nel suo amore, nelle sue promesse, nella sua capacità di aiutarci; vuol dire che ci fidiamo ancora, che ancora abbiamo speranza, che ancora siamo vivi. Il brutto è quando facciamo i duri, gli impassibili, i tronfi, i muti o i parolai privi di umanità. Sì, il brutto è quando ci viene il mutismo; non il silenzio benefico, fecondo, rispettoso e necessario, ma il mutismo.

Per concludere, dico una ovvietà: la sofferenza è insita nella nostra natura umana, sia che siamo credenti o atei. Altrettanto ovvio è che tutti sperimenteremo la morte. La differenza sta nella speranza. La speranza dà un senso alle cose. Certo un senso escatologico, ma grazie al quale acquista senso anche ogni nostro oggi.

Coraggio, quando i nostri giorni terreni saranno conclusi e l’amore del Dio della vita ci porterà nella gloria del Paradiso, conosceremo la felicità piena preparataci da Dio nostro Padre.

«Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è» (Bibbia: 1Gv 3,2).

Maria Santissima «Madre di Cristo, Madre nostra, Madre di misericordia, Madre del buon consiglio, Sede della Sapienza, Santa Maria del cammino, Consolatrice degli afflitti, Rifugio dei peccatori, Salute degli infermi, Aiuto dei cristiani, Regina della pace, Stella del mattino, Porta del cielo», prega per noi peccatori!

«Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi peccatori; prega per noi adesso, e nell’ora della nostra morte».

«Siam peccatori, ma figli tuoi; Ausiliatrice, prega per noi».

E noi, pellegrini sulla terra, aggrappiamoci al Suo manto materno.

Grazie dell’attenzione.

Maria Cristina Manca.

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