“Dorgali nel 1894” di Donato D’Urso
Amedeo Nasalli Rocca, Memorie di un prefetto,
Casa Editrice Mediterranea, Roma, 1946.
Amedeo Nasalli Rocca (1852-1926), funzionario del ministero dell’Interno, apparteneva a famiglia aristocratica di Piacenza. Nel corso della lunga carriera viaggiò in lungo e in largo per l’Italia, cosicché poté conoscere e giudicare realtà diversissime, da nord a sud. Nel 1946 fu pubblicato, postumo, un suo libro di ricordi, di grande interesse. Anche per lo stile piacevole e spesso ironico, esso è uno dei testi migliori per comprendere la classe prefettizia del tempo, le dinamiche dell’amministrazione pubblica, i vincoli e condizionamenti imposti ai funzionari dai vertici politici, i più gravi problemi sociali del tempo. Il rilievo, rivolto dalla storiografia ai prefetti dell’età liberale, d’essere stati succubi e innanzitutto agenti elettorali del governo, ha un fondamento di verità e tuttavia le singole personalità rendono ai nostri occhi ogni curriculum vitae simile e insieme diverso da tutti gli altri.
Nel 1894 Nasalli Rocca fu mandato in missione presso la sottoprefettura di Dorgali, temporaneamente senza titolare, per presiedere la sessione del consiglio di leva. Le osservazioni del nobile piacentino su quell’esperienza in Sardegna meritano d’essere ricordate, sia per il bel racconto dei luoghi e degli uomini, sia per l’esternazione di pregiudizi verso la popolazione locale. Nasalli Rocca non era e non fu il primo uomo del settentrione che, catapultato al sud, ne sottolineò, prima di ogni altra cosa, alcuni aspetti negativi, tanto da desiderare di ripartire al più presto, però, al di là di ciò, il lettore non troverà inutili queste pagine. Per ragioni di brevità, alcuni passi sono stati omessi.
Durante il tragitto in ferrovia, assai pittoresco e interessante, fra Golfo Aranci e Cagliari, un cortese compagno di viaggio mi illustrò i luoghi attraversati, nei quali erano frequenti i famosi “Nuraghes” preistorici: indicandomi una ben coltivata pianura mi disse, fra l’altro, che in tempi non lontani era colà una foresta rimasta nota nella tradizione come impenetrabile rifugio di briganti, e celebre per il modo alquanto risoluto con il quale costoro ne furono snidati. Un marchese di Villamarina viceré dell’isola, non riuscendo a sgombrare altrimenti il paese dai banditi, fece accerchiare la foresta dalla truppa, e vi pose fuoco da tutte le parti. I briganti, per non morire tra le fiamme, dovettero uscirne, e man mano che si presentarono furono uccisi a fucilate dai soldati. Il sistema, primitivo ma efficace, rimase nella memoria popolare col nome di “rimedio di Villamarina”.
I tempi progrediti non consentono più l’uso di tali rimedi; la moderna gentilezza di costumi preferisce che molti innocenti periscano per mano di assassini, anziché il contrario.
In quell’anno 1894 un feroce bandito, tale Sedda, era il terrore della regione di Cagliari. Condannato per omicidio, era riuscito ad evadere, e s’era dato la coscienziosa missione di sterminare pazientemente ad uno ad uno tutti quelli che, chiamati quali testimoni al suo processo, avevano deposto contro di lui. Nei giorni del mio arrivo in Sardegna aveva appunto eseguito la settima vendetta nella persona di una povera vecchia, alla quale aveva già ucciso il figlio. L’aveva incontrata mentre per via cavalcava un asino, recando in groppa un nipotino; le ingiunse di scendere, e le spiegò le ragioni per cui egli aveva colpito il figlio ed avrebbe or ora ammazzato anche lei. L’infelice donna negò, pregò, supplicò piangendo. Il dibattito durò a lungo, alla presenza del fanciulletto, ed infine il Sadda appoggiò lo schioppo al petto della sventurata e la fracassò.
Pochi giorni prima era avvenuta un’altra notevolissima impresa brigantesca ad Araxis.
Due inglesi erano giunti a Dorgali per fare importanti acquisti di alberi di noce. Avevano scelto come interprete e come guida un maestro di scuola, il quale non esitò a condurli con facile inganno in luogo appartato, dove furono catturati dai briganti. Il maestro, catturato per finta insieme con gli stranieri, fu subito liberato perché servisse di messaggero del ricatto, e recasse di ritorno la forte taglia imposta dai banditi. Ma le autorità non credettero alla innocenza del maestro e lo arrestarono come complice, mentre, preoccupatissime di un possibile incidente diplomatico, misero in moto gran numero di carabinieri e di truppa per rintracciare sequestrati e ricattatori. Ma ogni ricerca, ogni indagine, ogni perlustrazione fu vana: nessuna traccia di nessuno, né notizie di sorta. Finalmente il prefetto comm. Bacco, esperto cacciatore e conoscitore dei luoghi, scese in campo di persona. Per mezzo di altri cacciatori del paese, già compagni di escursioni venatorie e suoi fidati, riuscì ad avere un incontro con un bandito, al quale consegnò seimila lire, ottenendone la promessa che gl’inglesi sarebbero stati subito liberati. Dopo due o tre giorni, fra bandito e prefetto ebbe luogo un secondo colloquio: gli inglesi erano già liberi in qualche montagna non lontana, e sarebbero arrivati in un qualunque villaggio avessero incontrato per via. Il brigante, dopo tale assicurazione, porse un pacchetto, che il prefetto prese e con grande stupore osservò: erano le seimila lire della taglia! Che era avvenuto? Il…buon ladrone spiegò che aveva ottenuto lo scopo senza alcuna spesa, solo con la minaccia di rappresaglie da parte dell’Inghilterra: se gli stranieri non fossero stati liberati immediatamente, la potente nazione avrebbe fatto bombardare le coste dalle sue navi e compiuto successivi sbarchi e fucilazioni. Cosicché il denaro veniva restituito tal quale dal fedele bandito, che ritornava ai suoi monti a fare il latitante irreperibile.
Intanto gl’inglesi, effettivamente abbandonati liberi in un luogo solitario e montuoso, dopo una lunga marcia e molti stenti pervenivano a Dorgali, stanchi, affamati, laceri e scalzi: narrarono di essere stati tenuti fra i boschi, in grotte celate da scogli e da sterpi, in vicinanza della forza pubblica, senza mai essere stati scoperti.
Il cortese compagno di viaggio cui ho già accennato, durante la lenta corsa del treno, ebbe agio di farmi le esposte narrazioni, e di darmi indicazioni assai interessanti sui paesi attraversati, sulla mentalità e costumi degli isolani. Era uomo assai colto, intelligente, ed amantissimo della sua Sardegna.
Mi spiegò fra le altre cose le differenze più caratteristiche fra i vari dialetti, vestiari, e tipi fisici dei sardi, differenze corrispondenti alle diversità delle razze originari dalle quali le varie popolazioni discendono. Alcune derivano dai saraceni, altre dai greci, altre dagli spagnuoli. In generale, aggiunse, il popolo sardo, in seguito a malgoverni, sventure ed asprezze del suolo, si trovava in condizioni di vita difficili, disagiate, che avevano mantenuto e rafforzato antichi sistemi di vendetta, violenze, ribellioni alle leggi.
Molti piccoli proprietari, ritenendosi troppo gravati dalle imposte fondiarie, avevano cessato senz’altro di pagarle. Se l’esattore trovava conveniente contentarsene, bene; se invece eseguiva atti di esproprio, la procedura, giunta alla esecuzione dell’asta, immediatamente s’incagliava, per la semplice ragione che nessun offerente si presentava. A presentarsi v’era imminente rischio della vita. E allora, dopo mille formalità, il fondo espropriato passava di nome al demanio; ma di fatto restava a chi era sempre restato, perché nessun funzionario demaniale si sentiva di andare sul luogo a prendersi, invece delle rendite, una fucilata. L’abusivo possesso passava in eredità di padre in figlio, insieme col vecchio schioppo, che non soleva bruciare la polvere invano. In tali modi il demanio aveva la proprietà di moltissimi terreni sardi, sui quali non solo non riscuoteva un centesimo di rendita, ma nemmeno le imposte, e tanto meno quella di successione. […]
Nel quinto giorno dalla mia partenza dovevo ancora fare circa dieci ore di viaggio per giungere finalmente a Dorgali, con una ferrovia secondaria inaugurata soltanto qualche settimana prima. Però il concorso dei viaggiatori non doveva essere grande, a quanto pareva, dal momento che il numero d’ordine scritto sul mio biglietto era solamente 44. In quest’ultima tappa era seduto di fronte a me un sardo di età matura, vestito alla buona, con accanto due grosse bisacce da cavalcatura, piene, a quanto mi disse, di viveri diversi. Parendomi un tipo interessante, secondai il suo desiderio di attaccare discorso. Notai che il treno faceva un’infinità di giri e rigiri attraverso i monti, salendo ripide erte e precipitando per scoscese pendenze; pareva uno scolaro che andasse a scuola per la via più lunga, con la speranza di non arrivare mai. Il mio compagno, ammiccando con aria astuta, mi disse che il percorso della ferrovia era stato tracciato in base al concetto di aumentare il più possibile il sussidio chilometrico. Forse si trattava di una malignità, perché la Sardegna è talmente montuosa quasi tutta, che una linea ferroviaria semplice e diritta non è possibile. Dai discorsi che il sardo mi fece intesi che doveva essere un grosso proprietario e, nonostante le dimesse apparenze, una persona notabile; fra l’altro era stato sindaco di un importante comune, ed aveva avuto molto da fare, in vario modo, con l’autorità politica, a proposito di malefatte brigantesche e di conseguenti tentativi di catture […].
Arrivando in vista di una grossa borgata, giù in fondo ad una valle, quasi atterrito dall’aspetto selvaggio di quelle casacce orrende, mi compiacqui che non potesse trattarsi di Dorgali, perché il treno stava percorrendo altra direzione. Ma … girando e rigirando per quelle coste montane, scendendo scendendo, ecco che il treno mi portò precisamente in quella lurida borgata: ero arrivato a destino!
Per recarmi alla sede della sottoprefettura percorsi l’unica via brulicante di maiali piccoli, grigi, irti di setole come cinghiali: la popolazione sostava all’aperto guardandomi appena al passaggio: lunghi capelli disordinati, lunghe barbe, aspetto rustico; uomini e donne tutti nel noto costume isolano, che all’occhio d’un profano pare quasi uguale in tutta l’isola, mentre per il conoscitore è diverso da luogo a luogo. Ogni uomo porta la cintura di cuoio ben munita di polvere, piombo, capsule, acciarino. Vestono sopra il costume una sorta di pastrano di pelle di montone, senza maniche, col pelo di fuori o di dentro a seconda della stagione. Pittoreschi e spesso ricchi i vestiari muliebri.
Prima cosa, giunto al mio ufficio, scrissi ad un amico al ministero raccomandandomi di essere destinato altrove appena terminata la missione di leva per la quale ero stato mandato, poiché non avrei mai potuto tollerare come stabile una tale residenza.
Verso il mare, distante quindici chilometri in linea retta e il doppio per ferrovia, grandi paludi ammorbavano l’aria, diffondendo le febbri terzane in tutta la regione: al consiglio di leva ne vidi gli effetti. Mai mi era capitato di vedere un tal campionario di tanti brutti figli di Eva in costume adamitico. Piccoli, gialli, sparuti, senza muscoli, alcuni tremanti di febbre, segnati spesso da deformità per cadute o per bruciature, e più spesso da cicatrici di ferite.
Però quasi tutti avevano una energia e resistenza fisica molto superiore alle apparenze: molti avevano percorso, per venire al capoluogo da paesetti e casolari sperduti fra i monti, cinquanta o sessanta chilometri a piedi, senza riposo; solevano poi ballare tutto il giorno il “duro-duro” al ritmo di una melanconica invariabile nenia: mangiavano qualche fetta di anguria, poi riprendevano la lunga via del ritorno senza riprendere fiato.
Si vide poi nella grande guerra quel che vale il soldato sardo: brutto ma sobrio, resistente alle fatiche, fedele, rispettoso, serio, e, quel che più importa, valoroso fino all’eroismo, del quale diede famose prove.
La coscrizione militare in Sardegna ebbe tuttavia, nei primi decenni dell’unità, alcune inaspettate conseguenze: importò nell’isola la mala pianta del ricatto, mentre sembra che dianzi vi fosse ignota; i giovani soldati impararono a conoscerla in Sicilia.
Inoltre i briganti sardi, apprezzando i vantaggi della disciplina militare, la introdussero senz’altro nelle loro organizzazioni ed imprese. Non bisogna pensare a numerose bande permanenti; generalmente si trattava di bande radunate volta per volta per determinate imprese, compiute le quali si dileguavano. […]
I carabinieri della Sardegna, per ragioni sanitarie e di linguaggio, erano quasi tutti nativi dell’Isola. Era molto pretendere che quei giovani, di solito bravi ed onesti, compissero il loro difficile dovere nei rapporti con le canaglie del loro paese; eppure generalmente essi lo compivano con gran coraggio e fedeltà, e spesso ne restavano vittime.
Quanto arduo fosse il loro compito è chiaro, se si pensa alle difficoltà gravissime di ogni specie che dovevano superare, date le speciali condizioni della guerra contro il brigantaggio sardo. I banditi, sempre pronti a scomparire in un prossimo nascondiglio impenetrabile fra macchie, caverne e dirupi, vedono da lontano i carabinieri vestiti nel modo più inadatto ed assurdo, assai prima di esserne visti, ed hanno tutto il tempo di dileguarsi o di appostarsi nel modo migliore per colpire al sicuro. Si rifletta inoltre che all’infelice carabiniere è vietato sparare per il primo…..È una sorta di cavalleria alla rovescia che stupisce, ma è così. Se il bandito spara, il carabiniere può sparare a sua volta per … legittima difesa: non prima. Soltanto è da dire che il bandito non spara mai o quasi mai inutilmente, e che se non è in condizioni di assoluto vantaggio di numero e di luogo, non è pari.
Se qualche volta si riesce a catturare qualche brigante, ciò avviene di solito per il concorso di suoi nemici personali, o rivali che vogliono guadagnare una taglia, o vittime che hanno una vendetta da compiere.
Storie di briganti e storie di caccia: non d’altro si parlava a Dorgali. La più eletta trattoria del paese era di un napoletano, tale don Federigo, stabilito colà per matrimonio. Per avere un’idea della civiltà di questa trattoria, frequentata da ufficiali dell’esercito, dalle autorità e funzionari governativi, basti dire che per entrarvi bisognava servirsi di una scala a pioli come si trattasse di salire in un soppalco o in un fienile; però entrati nella cosiddetta stanza da pranzo, vi si trovavano in piena libertà le capre ed i soliti maialetti grigi e setolosi aventi libero accesso, senza scale di sorta, per una apertura sulla costa del monte cui quella sorta di fabbrica era addossata.
Vista la presenza delle autorità, in tempo di caccia proibita Don Federigo chiamava piccioni le pernici che serviva, ottime, abbondantissime nella regione e non care, poiché costavano appena quaranta centesimi ciascuna cotte e portate a tavola! Ci erano persino venute a noia: era il caso di dire:”toujours perdrix!”.
Al consiglio di leva, quando venne la volta del Comune di Araxis, nessuna autorità comunale si presentò. Sorpreso, ne chiesi la ragione ai numerosi astanti, dai quali seppi che quasi tutti i consiglieri comunali, il segretario ed anche il maestro erano sì presenti a Dorgali, ma non potevano venire perché stavano in carcere quali sospetti di complicità nel ricatto degli inglesi.
Però – osservai – il sindaco non è in carcere, tanto è vero che ci sono qui i recenti documenti degli iscritti alla leva con la sua firma.
Non è in carcere – mi risposero – ma teme di andarci; un impiegato del Comune sa dov’è, e gli porta le carte da firmare … in campagna.
E l’assessore?
Fa come il sindaco.
Volendo sapere con precisione come stavano le cose, mi procurai un incontro con questo sindaco latitante, e non fu cosa difficile, perché egli si fidò della mia parola. Mi spiegò che si teneva al largo, non per timore di un arresto, ma per non essere interrogato dai carabinieri o dal giudice istruttore circa l’affare degli inglesi, sul quale doveva saperne molte….
Capirà – mi disse – non voglio compromettermi. Si fa presto a prendersi una fucilata.
Non appena finite le operazioni di leva, mi affrettai a farne relazione, e a spedirla al Ministero, avvertendo che, esaurita la mia missione a Dorgali, ne partivo senza altro; esposi in pari tempo che, secondo il mio parere, era indispensabile ed urgente assegnare a questa sede un sottoprefetto stabile, che provvedesse particolarmente ai gravi problemi della pubblica sicurezza.
Però non tardai un’ora a scapparmene, con l’idea che potesse venire in mente a qualche superiore di farmi rimanere; e presi la via del ritorno mutando l’itinerario, recandomi cioè a Siniscola, vicina stazione costiera dove ogni settimana faceva scalo un piroscafo per il continent