“Biancaneve e i sette nani contro l’orso russo” di Fulgenzio Saetta
Biancaneve sarebbe il presidente dell’Ucraina che viene attaccato soltanto per il desiderio dell’orso russo di allargare i suoi domini contro i sette nani della Nato, ciarlieri e grandi affabulatori. Nessuno vorrebbe scatenare una guerra a colpi di bombe atomiche e nucleari più o meno calibrate perché i lanci si ripercuoterebbero a seconda del vento contro gli stessi lanciatori.
Certamente le forze visibili e invisibili del male godrebbero a vedere questo mondo andare in frantumi. Abbiamo goduto mano mano di un certo benessere dopo la disastrosa guerra mondiale e all’improvviso per le foie di un nano mongolo che si traverse da orsacchiotto ci ritroviamo nel peggiore dei mali: la guerra. Basti pensare al numero dei morti e alla distruzione della potentissima Germania per avere solo un pallido confronto con quello che centuplicato potrebbe succedere domani. Quando l’uomo è preso dalla foia diventa cieco e non ragiona più ed è quello che sta succedendo all’orso nano russo Putin e al suo gruppo dirigente, clero compreso, da secoli sottomesso al potere politico e orante per le nefandezze che qusri politici privi di senno vanno facendo, oggi con 87 bombette che gli costano le mutande e domani non si sa con che cos’altro.
Quegl’impuri di ucraini si sono permessi i casini a pagamento, l’accettazione dei sodomiti, l’eutanasia e cento altre peccaminosità che i greco-ortodossi vedono come il fumo negli occhi, mentre non vedevano il commercio delle loro donne negli alberghi dove si dilettavano i turisti occidentali. con valigie piene di mutandine e reggiseni, blues geen e altri prodotti dal costo proibito per le donne russe. Miserie. che nascono dalle miserie materiali e spirituali.
Gli ucraini impudichi vanno perciò puniti senza misericordia mentre le loro donne inviate in occidente a far soldi, gli uomini oziavano in patria ad eccezione dei coltivatori di grano e di mais da vendere appunto allo stesso occidente. A noi non resta che rimpiangere il bel tempo passato e temere per il futuro dei nostri figli e nipoti. Non basta l’inquinamento dei cieli e degli oceani, delle foreste e delle città ci voleva pure questa guerra per farci tremare e aver paura di cose ancora peggiori. Quest’inverno faremo la prova dell’illuminazione e del riscaldamento, mentre stiamo facendo la prova del pane e di tutti i generi alimentari e degli ortofrutticoli. Vediamo ridurre i nostri stipendi e le nostre pensio0ni; vediamo tanti giovani che vivacchiano per mancanza di lavoro con reddito di cittadinanza, mentre con le pensioni dei nonni sbevazzano nei bar dalla mattina alla sera.
Che cosa dobbiamo fare noi che solo indirettamente per ora entriamo nelle conseguenze nefaste di questa guerra? Gli anziani e i vecchi debbono forse desiderare di affrettare l’obito per non vedere cose peggiori?
Non ci resta che rivolgerci al buon Dio e invocarlo perché cambi il cuore degli uomini e cessi l’odio e l’invidia, visto che nonostante la sua piccolezza su questo mondo con la pace non c’è che da star meglio tutti.
Chi fu colui, che per primo inventò le terribili armi?
Quanto malvagio e feroce quello fu!
Allora nacquero le stragi a danno del genere umano, allora sorsero le guerre,
allora venne aperta una via più breve alla terribile morte.
Eppure quell’infelice non ebbe alcuna colpa, noi abbiamo volto a nostro danno quello,
che egli ci aveva dato contro le bestie feroci.
Questo è colpa del ricco oro, e non vi furono guerre
finché una tazza di legno di faggio era posta davanti ai banchetti.
Non vi erano fortezze, non bastioni,
e il pastore si addormentava senza preoccupazione tra pecore di vari colori.
Dolce sarebbe stata allora per me la vita, Valgio, e non avrei conosciuto
le funeste armi, né avrei udito la tromba con il cuore palpitante.
Ora sono trascinato a forza a combattere, e già forse qualche nemico
produce dei dardi destinati a configgersi nel mio corpo.
Ma patri Lari proteggetemi e salvatemi: voi stessi mi avete allevato,
quando ancora bambino correvo qua e là.
E non abbiate vergogna di essere fatti di antico legno:
così voi abitaste le sedi dell’antico avo.
Allora con più sincerità (gli uomini) mantenevano la parola data, quando con scarso ornamento
il dio stava in una modesta nicchietta.
Questo era soddisfatto, sia che qualcuno avesse fatto libagioni con uva
sia che qualcuno avesse offerto una corona di spighe alla santa chioma:
e colui che è padrone di qualcosa offriva delle focacce
dietro di lui come compagna la piccola figlia offriva un favo intatto.
Tenete lontano da noi, Lari, i dardi di bronzo
e avrete come rustica vittima una scrofa del mio porcile pieno.
Io stesso col capo cinto di mirto accompagni questa con una veste disadorna
e porti canestri ornati di mirto.
Così io possa piacere a voi: sia pure un altro valoroso nelle armi,
e atterri col favore di Marte i comandanti avversari,
in modo che mentre sto bevendo un soldato possa raccontarmi le sue imprese
e disegnare col vino gli accampamenti sulla mensa.
Che pazzia è mai quella di chiamare a sé con la guerra la nera morte?
La morte ci sta sopra e segretamente arriva con passo silenzioso.
Non campo coltivato v’è nel mondo sotterraneo, non vigna, ma l’audace
Cerbero e il turpe nocchiero delle acque dello Stige:
ivi una pallida turba con le gote dilaniate e i capelli arsi
erra presso le nere paludi.
In quanto è più da lodarsi colui che coglie la sua tarda vecchiaia
nella sua umile capanna in mezzo ai suoi figli!
Egli stesso conduce al pascolo le pecore, il figlio invece gli agnelli,
e la moglie prepara l’acqua calda al marito stanco.
Possa anch’io esser così e mi sia concesso veder sul capo divenir bianchi i miei capelli
e vecchio raccontare i fatti della giovinezza.
Frattanto la Pace coltivi i canti. La Pace ha insegnato
a condurre sotto i gioghi ricurvi i buoi per arare:
la Pace ha sostentato le viti e ripose il succo d’uva,
perché l’anfora di terracotta del padre versasse il vino puro:
durante la pace brillano il bidente e il vomere, la ruggine
ricopre le funeste armi dell’insensibile soldato nei nascondigli.
Orsù vieni a noi, benefica Pace, e terrai una spiga