Categoria : memoria e storia

“Eugenio Scalfari (1924-2022) un laico radicalchic, un giornalista bravo nella forma, ma velenoso e senza misericordia nei contenuti, capopartito di Repubblica fino al 1995” di Fulgenzio Saetta

L’ultimo dei tre moschettieri del secolo scorso se n’é andato: faceva parte del trio Umberto Eco, Giorgio Bocca e Eugenio Scalfari. Con la penna ne hanno ucciso più che con la spada. Umberto Eco si dilettava con la semeiotica e coi romanzi eterni: un lettore finiva per buttarli via dopo 10 pagine, a volte 50, a volte 100.  Una barba che non finiva più. Il moschettiere  numero uno ebbe un successo mondiale da che gli statunitensi protestanti  misero su il gran polpettone In nome della rosa, decisamente  in funzione anticattolica da epoca medievale. Se qualcuno era tentato di pensare al grande patrimonio dell’antichità salvato dai monaci si è dovuto ricredere tanto è stato il fango gettato addosso a questa categoria di monaci che seguivano le orme  sia di Sant’Antonio Abate sia  di San Benedetto. Ma l’accademico scrittore ha scritto per suo gusto e diletto come afferma senza rendersi conto che col romanzo uccide a destra e a manca la storia della cristianità. La stessa spiritualità e in fondo la sua anima tragico-burlesca. Col film diventa mondiale, ma contrariamanete al Faust, che riesce a salvare la sua anima, lui la perde applicando i canoni del suo stesso romanzo.

Non si usa più il rogo, diversamente sarebbe stato bruciato vivo col suo romanzo cosparso ovviamente di molto veleno dagli stessi monaci che evoca dalla sua fantasia in fibrillazione..
Ma passiamo al secondo moschettiere : Giorgio Bocca che potrebbe dirsi riferendosi ad un verso di una  canzone romana che ha combattuto più battaglie la sua mente arcana che tutta la marina americana da fascista premiato a partigiano fanatico, passando per vari partitelli approda anche lui all’Espresso e a Repubblica. Pontificava da buon cuneese di più e di tutto e si è spento come un patriarca. Fattosi cremare si è fatto seppellire in Val d’Aosta.Si perché anche lui, incredibile ma vero, é morto nonostante si firmasse come arcitaliano. Si distinse quando si accarezzò l’idea di bloccare il Parlamento e procedere ad una nuova Carta Costituzionale insieme agli altri due sodali. Cose incredibili solo a pensarci.
Arriviamo a Eugenio Scalfari, mezzo laziale e mezzo sanremese, ma in fondo rimasto gentile e feroce come un calabrese. La sua camera ardente è ancora visitata per cui non stiamo lì a mettere in evidenza  i suoi difetti dal momento che un amico mi ha sempre suggerito de defunctis nisi bonum.
Diciamo allora che era un bell’uomo col viso incorniciato da una barba che lo faceva simile ad un patriarca biblico. Come imprenditore, infarinato di economia, ha avuto fortuna, Ha varato prima l’Espresso  e poi La Repubblica e si è comportato come dice Ugo Foscolo nei Sepolcri come il Machiavelli “temprando lo scettro ai regnatori e rivelando  di che lacrime grondi e di che sangue” il potere. Ha messo a nudo i giochi politici  del mondo nazionale e internazionale, in certi momenti anche al di là del dovuto. Con le sue lenzuolate di carta del primo Espresso  ha sputtanato mezzo mondo, gettando fango a piene mani sul potere democristiano prima e socialista poi e dimenticando forse la sua esperienza quinquennale di deputato socialista  e la sua vicinanza al potere in certi periodi, alla DC di De Mita e al PSI di Craxi per poi abbatterli entrambi e mettersi a venerare il PCI di Enrico Berlinguer tanto che nei suoi trenta giornali di periferia non entravi se non avevi la tessera del PCI reale o virtuale: l’esame dei tuoi articoli scrittti per diventare giornalista pubblicista diventavano una cartina al tornasole. Alunni asini calzati e vestiti al liceo o alle magistrali, ma comunisti son diventati direttori di giornali periferici: lo schifo dello schifo, altro che moralità.
Avanzò anche la proposta di dichiarare matto Francesco Cossiga che lui ben conosceva e al quale il sardo presidente seppe rispondere con molto brio. Il nostro, ormai passato a miglior vita,  passava dall’amicizia all’odio senza ritegno, Aveva da gestire il suo partito di carta che al contrario della sua stessa essenza non va d’accordo col fuoco, ma lui la fece diventare un partito di carta che brucia chi lo tocca. Seppe gestirla in progredere in modo egregio. Miliardi a destra e miliardi a manca se si pensa che, per cedere le  sue azioni all’ebreo in sonno, Carlo  De Benedetti,  pretese la modica  somma di 80 miliardi di lire.
Sazio di denaro e di glorie si dimise  da direttore di Repubblica per godersi un’onorata vecchiaia, ma no, continuò a scrivere di tutto: politica, filosofia, teologia, economia e per poco non si occupò di Freud e di Jung. Famosa la sua amicizia, speriamo  ininfluente sul nostro papa sudamericano, Francesco e i suoi dialoghi con lui tanto da pensare che nella  decisione di  processare  i cardinali non ci sia sotto lo zampino solforoso scalfariano che pur qualcosa gli avrà contato sul predecessore di Becciu, Mercinkus.
Il Cardinal Martini non ebbe fortuna morendo perché secondo Scalfari sarebbe  ricorso all’eutanasia.
Si può affermare che sia sia spento come Abramo sazio di giorni e di anni, di lodi smaccate dall’universo progressista  Non parliamo sazio di soldi  perché quelli se li mangeranno gli eredi, a meno che, non si sa mai che il Cielo ci sia, non abbia lasciato un grosso obolo per i poveri a Francesc0. Certo è che si ignora la consistenza del suo patrimonio.
I posteri più che noi giudicheranno i suoi saggi e il suo ruolo di capopartito di Repubblica di cui ha visto ormai il declino e il passaggio di mano ai poco amati Agnelli. Era, si fa per dire, in pensione da direttore dal 1995, circa 27 anni, troppi per le statistiche INPS che aveva calcolato la media delle dipartite dei pensionati dopo 15 anni. Non possiamo criticarlo su questo versante perché anche noi abbiamo oltrepassato i 15 anni e non vorremmo che l’INPS ci spedisse qualche ispettore iettatore.

 

 

 

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