“I benefici della pace augustea non potrebbero essere anche quelli della pace tra fratelli greco-ortodossi?” di Albio Tibullo
Chi fu colui, che per primo inventò le terribili armi?
Quanto malvagio e feroce quello fu!
Allora nacquero le stragi a danno del genere umano,
Allora sorsero le guerre,
Allora venne aperta una via più breve alla terribile morte.
Eppure quell’infelice non ebbe alcuna colpa,
Noi abbiamo volto a nostro danno
Quello che egli ci aveva dato contro le bestie feroci.
Questo è colpa del ricco oro, e non vi furono guerre
Finché una tazza di legno di faggio era posta davanti ai banchetti.
Non vi erano fortezze, non bastioni,
E il pastore si addormentava senza preoccupazione tra pecore di vari colori.
Dolce sarebbe stata allora per me la vita, Valgio, e non avrei conosciuto
Le funeste armi, né avrei udito la tromba con il cuore palpitante.
Ora sono trascinato a forza a combattere,
E già forse qualche nemico produce dei dardi
Destinati a configgersi nel mio corpo.
Ma, patri Lari, proteggetemi e salvatemi: voi stessi mi avete allevato,
Quando ancora bambino correvo qua e là.
E non abbiate vergogna di essere fatti di antico legno:
Così voi abitaste le sedi dell’antico avo.
Allora, con più sincerità, gli uomini
Mantenevano la parola data, quando con scarso ornamento
Il dio stava in una modesta nicchietta.
Questo era soddisfatto, sia che qualcuno avesse fatto libagioni con uva,
Sia che qualcuno avesse offerto una corona di spighe alla santa chioma:
E colui che è padrone di qualcosa offriva delle focacce,
Dietro di lui come compagna la piccola figlia offriva un favo intatto.
Tenete lontano da noi, Lari, i dardi di bronzo
E avrete come rustica vittima una scrofa del mio porcile pieno.
Io stesso col capo cinto di mirto accompagni questa
Con una veste disadorna, e porti canestri ornati di mirto.
Così io possa piacere a voi: sia pure un altro valoroso nelle armi,
E atterri col favore di Marte i comandanti avversari,
In modo che, mentre sto bevendo,
Un soldato possa raccontarmi le sue imprese
E disegnare col vino gli accampamenti sulla mensa.
Che pazzia è mai quella di chiamare a sé con la guerra la nera morte?
La morte ci sta sopra e segretamente arriva con passo silenzioso.
Non campo coltivato v’è nel mondo sotterraneo, non vigna,
Ma l’audace Cerbero e il turpe nocchiero delle acque dello Stige:
Ivi una pallida turba con le gote dilaniate e i capelli arsi
Erra presso le nere paludi.
In quanto è più da lodarsi colui che coglie la sua tarda vecchiaia
Nella sua umile capanna in mezzo ai suoi figli!
Egli stesso conduce al pascolo le pecore, il figlio invece gli agnelli,
E la moglie prepara l’acqua calda al marito stanco.
Possa anch’io esser così, e mi sia concesso
Veder sul capo divenir bianchi i miei capelli
E vecchio raccontare i fatti della giovinezza.
Frattanto la Pace coltivi i canti. La Pace ha insegnato
a condurre sotto i gioghi ricurvi i buoi per arare:
la Pace ha sostentato le viti e ripose il succo d’uva,
perché l’anfora di terracotta del padre versasse il vino puro:
durante la pace brillano il bidente e il vomere, la ruggine
ricopre le funeste armi dell’insensibile soldato nei nascondigli.
Orsù vieni a noi, benefica Pace, e terrai una spiga.