“Giornata della memoria 2022” di Fr. Gian Carlo Lucchi
A distanza di 81 anni, può dirsi che ebbe ragione il Generale Eisenhower, Comandante Supremo delle Forze alleate, dopo la sua visita ai campi di “concentramento” nazisti e l’incontro con le vittime superstiti, ad ordinare che si facessero molti filmati e altrettante foto, e che i tedeschi delle città vicine fossero accompagnati, volenti o nolenti, fino a quei campi e persino seppellissero i morti.
Ragione che lui spiegò così: “Che si tenga il massimo della documentazione, che si facciano filmati, che si registrino i testimoni perché in qualche momento durante la Storia, qualche idiota potrebbe sostenere che tutto questo non è mai successo!”
Primo Levi, internato ad Auschwitz, fino al ’45, autore già nel ’46 dell’indimenticabile “Se questo è un uomo”: “Non possiamo capirlo; ma possiamo e dobbiamo capire da dove nasce e stare in guardia. Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario”.
Il tempo, con la sua polvere fa sì che quel dramma inconcepibile corra il rischio di mutarsi in un atto puramente retorico, formale, celebrativo; alla base, forse, il bisogno di rimuovere dalla coscienza collettiva un’onta peraltro indelebile, proprio perché su vasta scala e non limitata al popolo tedesco.
Ricorre da parte di alcuni storici il tentativo di affiancare alla catastrofe della Shoah, altri drammi ed altre vittime della barbarie e stupidità umana (in testa Ernst Nolte – “la shoah è un evento terribile, ma non diverso da altri eventi di cui la storia è testimone”) quasi a quantificare un punteggio macabro di priorità dell’orrore… La conseguenza revisionista è che, di fatto, l’Olocausto è sopravvalutato. L’affiancamento ad altri eventi può esser corretto dal punto di vista etico, ma non lo è, dal punto di vista Storico.
La Giornata della Memoria, nasce per ricordare un evento “unico” nella storia dell’umanità, ma che accadde in un contesto generale di violenza e di terrore; mentre è noto che molti governi della civilissima Europa, già nel ’43, ’44, sapevano bene e tacevano. Quando alla fine del conflitto, un giornalista americano chiese al Papa Pacelli perché il Vaticano, parzialmente informato dì quegli eventi, non avesse fatto nulla per denunciarli, ebbe per risposta che non si era potuto farlo perché la Germania nazista era un paese profondamente cristiano-cattolico.
L’eleganza del termine biblico, “Olocausto” non fu coniata dalla vittime – come notava lo psicoanalista Bruno Bettelheim – ma dai biografi di quegli accadimenti che, per esser narrati,necessitavano d’essere decontestualizzati, con una parola tecnica non usuale, in maniera che il cervello umano, per realizzarne il significato, dovesse seguire un percorso intellettuale prima che emotivo. Se lo si chiama “assassinio di massa, genocidio” il rigetto è immediato. Richard Rubestein, filosofo ebreo, scrisse che il mondo dei campi di sterminio “rivela il lato oscuro della civiltà ebraico-cristiana” e che sarebbe un errore pensare che civiltà e crudeltà siano in antitesi. La Shoah è e resta l’applicazione di un progetto di eliminazione di massa che non ha precedenti nella Storia. Nel gennaio del 1942 venne approvata la “Soluzione finale” del cosiddetto “Problema ebraico” che prevedeva l’estinzione di un popolo dalla faccia della Terra; non con una motivazione territoriale, espansionistica o politica: il senso era che Il popolo ebraico non ha il diritto di vivere ed è terribile pensare che i carnefici fossero persone normali, rese criminali da un estremismo ideologico incondizionato. Una donna SS del campo disse a Primo Levi: “Hier ist kein warum” – “Qui non c’è nessun perché”.
Per tale ragione gli uomini ancora continuano a interrogarsi su quei fatti impossibili da credersi e più ancora, da tollerarsi. La Germania di Oggi ha evidenziato in maniera “fisica” il proprio rigetto di quell’orrore. L’11 maggio 2005 emblematicamente presso la Porta di Brandeburgo, vicino al Reichstag e dove sorgeva il famoso bunker di Hitler, è stato inaugurato il Monumento all’Olocausto, progettato dall’architetto di origine ebraica Peter Eisenman. Un labirinto di colonne quadrangolari in calcestruzzo altissime, esattamente 2.711, disposte a scacchiera, che creano un’atmosfera 2
di crescente inquietudine nel visitatore. Chi c’è stato può testimoniarlo. Eisenman ha lasciato questo messaggio alla posterità: “Non voglio che i visitatori si commuovano per poi andarsene con la coscienza pulita”. Per un sentimento di testimonianza e di “presenza”, già nel 2011 da noi, un gruppo di studenti al teatro Stolchi di Modena avevano scelto di leggere pubblicamente, in dieci lingue, ebraico compreso, una sintesi del libro di Primo Levi e resero pubblica una sua intervista del 1978 ad un giovane diciassettenne, Viglino, poi Magistrato, che aveva tentato di mettersi in contatto con lui. Nel corso di questa dice che i giovani del suo tempo, nonostante tutto, furono più fortunati, su scala europea, di quelli di oggi, perché c’era il sogno, la speranza, la volontà di un futuro migliore, mentre da noi, negli anni ’80 si ha una “giovinezza parcheggiata e depressa”.
Ma al binario 21 della Stazione Centrale di Milano, voluto dalla provincia, col concorso di una lunga sottoscrizione privata, fra i primi, cinque scuole, nasce il Memoriale della Shoah. Da quel binario partivano i convogli della morte degli ebrei milanesi deportati nei campi di sterminio. L’appello è partito dalle colonne del Corriere della Sera, il 6 gennaio 1978. È un segnale positivo perché esclude alcuna risposta; perché una piaga così immensa non può chiudersi con un punto, che non c’è, come disse l’SS a Primo Levi. Ma permane il peso della domanda, come un punto interrogativo arrugginito e dolente nel cervello dell’uomo.
È nel cuore e non nel cervello della gente che quella Memoria può perpetuarsi, perché il cuore rigetta quella indicibile vergogna, che duole. Fatti che non riguardarono solo gli ebrei, ma i rom, i polacchi, i sinti, i malati di mente, i portatori di handicap, gli omosessuali, i prigionieri o dissidenti politici, i Massoni (che nei campi di sterminio, per riconoscersi e poter comunicare fra loro, inventarono il “non ti scordar di me”) e che ne siamo consapevoli o meno, Noi.
Fr. Gian Carlo Lucchi