“Il salvadanaio di papà” quasi un racconto per Natale di Effeò
Effeò oltre che un bravo studioso è anche un narratore nato anche se si sa che carmina non dant panem. Auguro a Effeò la fortuna di Sarah Savioli che dopo aver pubblicato qui dei racconti, oltre 50, da me “rubatile” da Facebook ora con la pubblicazione di ben tre gialli con investigatori animaletti, è una star di Feltrinelli Editore. Conosco i luoghi qui descritti dall’autore. Il Montiferru con nel cuore il parco della Madonnina e in mezzo ad essa una delle più prodigiose fucine culturali-religiose dell’intellighenzia sarda e continentale che è stata per me, per mia moglie e per i miei figli una tappa essenziale della mia vita. Tutte le cime del Montiferru sono state da me e da un gruppo di una ventina di studenti e studentesse esplorate, raggiunte e con momenti di meditazione per tre anni consecutivi. I grifoni sotto cura, poi lanciati verso Alghero, la fontana fredda de sos elighes buttiosos, gli studi televisivi de Badde Urbara con la selezione delle immagini che arrivavano da Monte Argentario e poi lanciate in tutta l’Isola, ma soprattutto illustri personaggi da Francesco Manconi a Cesaraccio, dal regista Ciacinto Ciaccio a don Giussani e cento altri sotto la direzione di quel grande animatore e geniale direttore che fu don Giuseppe Budroni.
Ho letto con commozione questo racconto che è quasi un romanzo, una saga familiare, che suggerisco all’autore di sviluppare e di spedirlo ad un editore. Si tratta di “carne” della nostra storia, di gente povera, ma eroica. Mi auguro che lo spirito di Giovanni Corona da Santulussurgiu, ora scoperto e inserito tra i poeti italiani del Novecento, dia fortuna allo scrittore del racconto di questa povera ma eroica gente. (Angelino Tedde)
Il salvadanaio di papà
Un giorno, riordinando un cassetto, mi è capitata tra le mani una vecchia scatoletta metallica, un po’ graffiata, un po’ arrugginita. In origine era il contenitore delle Pasticche del Re Sole, che un tempo si vendevano come rimedio contro la tosse al prezzo di “lire 122,50 più I.G.E.”. L’aveva acquistata il mio nonno paterno, fumatore di sigari e poi era diventata il salvadanaio di mio padre, allora ragazzino. Per me è la scatola dei ricordi.
Papà ogni tanto raccontava qualcosa della sua infanzia a Cuglieri, il paese in cui era nato e del quale erano originari anche i genitori e i fratelli. I suoi racconti procedevano per frammenti, per istantanee, erano brevi e non abbondavano di particolari. Forse perché non era un gran chiacchierone, papà, o forse, più semplicemente, perché la sua memoria non teneva più i ricordi cuglieritani in una forma chiara e nitida, ma ormai sfumata e tale da non consentirgli di focalizzare i dettagli e di fare scorrere generosamente il racconto.
Era ancora un ragazzino quando andò via dal paese, ché un giorno suo padre decise di portare via da lì la famiglia. Mio nonno era un contadino e venne il momento in cui il gramo frutto del suo lavoro non gli consentì più di mantenere la famiglia in condizioni di vita dignitose. C’era stata la Grande guerra, lui era andato al fronte nel penultimo anno del conflitto e aveva conosciuto la disastrosa rotta di Caporetto: – Quando andrai a scuola e studierai la storia e incontrerai il nome di Caporetto, ricordati di nonno – mi diceva, seduto nel cortile di casa, sotto il grande albero di fico, con me piccolino sulle sue gambe. Eh sì nonno, mi sono ricordato delle tue parole e ho pensato a te.
La sola cosa di cui andava fiero, della drammatica esperienza bellica, era di non avere mai sparato contro nessuno; in aria, nel vuoto, ma mai contro un essere umano. Al ritorno a casa, aveva trovato una miseria ancora più nera di quella lasciata, perciò aveva preso la decisione di abbandonare Cuglieri e andare giù nell’Iglesiente, per cercare occupazione nella miniera di Sa Duchessa.
Il sito minerario, dal quale si ricavavano quarziti e altri metalli, era sulla bocca di tutti per la sua floridezza e richiamava lavoratori da tutta l’isola, tanto che il vicino paese di Domusnovas, ripopolato dai nuovi arrivati, da piccolo borgo qual era, diventò infine quasi una cittadina. Nonno non trovò lavoro come minatore, ma come guardiano notturno degli impianti. Non era un lavoro facile, ma permetteva di guadagnare più che a lavorare la terra e garantiva una paga sicura. Finché durò l’attività estrattiva, lui fece il guardiano. Quando la miniera chiuse, tornò a fare il contadino a tempo pieno, però al servizio di un prinzipale, che possedeva un grande orto nelle campagne di Domusnovas.
La nuova condizione di salariato lo soddisfaceva. A Cuglieri non tornò mai più.
Anche mio padre, divenuto adulto, non tornò a vivere a Cuglieri. Raggiunto a Domusnovas dalla chiamata per la leva miltare, partì per la Liguria, dove mise la divisa da aviere. Poi fece domanda per essere raffermato e la sua destinazione fu la Scuola per allievi marconisti di Peschiera Borromeo, vicino Milano. A Peschiera, qualche anno più tardi, conobbe mia madre, si sposarono e mi misero al mondo. Papà veva deciso che la sua vita doveva cambiare in meglio, anche se questo significava separarsi dalla Sardegna, dai genitori e dai fratelli per molti anni.
Il paese natale gli aveva dato poco, troppo poco per pensare di potervi tornare, un giorno. A Cuglieri papà aveva compiuto il corso degli studi elementari e post-elementari dai gesuiti, nel Seminario pontificio regionale, che allora era anche la sede della Facoltà teologica della Sardegna. Diverse famiglie cuglieritane preferivano quel rinomato istituto educativo, allora vanto del paese, alla Regia scuola elementare. Quanto i cuglieritani tenessero al loro seminario, lo testimonia una delle “istantanee” di papà. In paese si raccontava di un fatto accaduto durante gli ultimi anni del secondo conflitto mondiale, probabilmente nel 1943. Si diceva che un gruppo di aerei americani avesse di mira l’abitato di Cuglieri, ma i piloti, resisi conto della presenza del Seminario, ben visibile per via della grande bandiera vaticana dipinta sul tetto dell’edificio, decisero di sganciare le bombe altrove. Gli abitanti non potevano sapere quali fossero i piani di quei bombardieri, né quali obiettivi dovessero colpire, eppure erano convinti che il Seminario avesse salvato Cuglieri dalla distruzione.
A quanto sembra, mio padre, scolaretto, si distingueva nella materia della religione; così indicano tre medagliette che gli furono conferite durante gli studi. Una riporta la dicitura “III Premio Dottrina cristiana”, le altre due, un pochino più grandi, “II Premio Dottrina cristiana”. Sulla faccia opposta a quella recante l’indicazione del premio, ciascuna medaglietta ha, in leggero rilievo, l’immagine di Gesù attorniato, credo, dagli apostoli. Anche queste medagliette ho ritrovato nello stesso cassetto, ma dentro una diversa scatoletta, fatta di plastica trasparente e a forma di trifoglio.
Terminato il corso, il piccolo licenziato era stato chiamato a contribuire per il possibile alle poche entrate della famiglia. E lui si diede da fare, soprattutto come aiutante nelle botteghe di qualche artigiano, falegname oppure fabbro ferraio. Diventò presto bravo a lavorare il legno, sapeva realizzare dei giocattoli, gli piaceva fare soprattutto le trottole. Guadagnava pochi soldi, quelli che riusciva a tenere per sé li raccoglieva dentro una scatoletta metallica, proprio la scatoletta di cui ho parlato all’inizio di questo racconto. Quando papà partì in assolvimento degli obblighi militari, la scatoletta restò a casa e nessuno ne toccò mai il contenuto. Tornato a Domusnovas grazie alla prima licenza, mio padre ritrovò tutte le sue monete. Non che gli servissero, dato che ormai era pagato dal Ministero della Difesa, ma posso immaginare la sua soddisfazione nel ritrovarle e potere contrapporre ad esse i fogli delle nuove banconote repubblicane; alla vita povera della fanciullezza, la vita dell’uomo ormai fatto, che era riuscito a guadagnarsi una condizione economica e sociale di cui andare fiero. E lo immagino sorridente, di uno di quei larghi sorrisi così rari a vedersi sul suo viso, dentro la sua divisa tirata a squadra, intento a godersi l’ammirazione di genitori e fratelli.
Più che un valore affettivo, quelle monete non potevano avere; credo proprio che il loro corso legale fosse terminato già da parecchio tempo. Alcune erano vecchissime già allora, negli anni 1950. Una, del valore di 5 centesimi, risale addirittura al 1842, vigente ancora il Regno di Sardegna; un’altra, da 10 centesimi, riporta l’anno 1894 e il volto baffuto di Umberto I. Forse le aveva guadagnate il padre di mio nonno. Ci sono pure diverse monete coniate durante l’era fascista, negli anni Trenta e primi Quaranta. Queste erano state sicuramente il frutto del lavoro di papà, garzone dai dieci ai dodici anni.
L’arruolamento gli aveva permesso di cambiare il volto della sua esistenza, ma la vita militare non era la sua meta. L’aveva abbracciata perché, in quei tempi difficili, non gli si offriva altra concreta occasione di un lavoro che lo strappasse al bisogno e gli permettesse di emanciparsi e cercare la sua strada. Il suo vero obiettivo era di proseguire gli studi per diventare un perito industriale e trovare subito un buon impiego nella Milano del miracolo economico. Aveva quindi preso a frequentare un Istituto tecnico della metropoli lombarda; seguiva le lezioni al mattino, svolgeva i suoi turni di lavoro nel resto della giornata, studiava la notte, dormiva niente. Col tempo questo ritmo di vita cominciò a pesargli gravemente. Le sue richieste di ottenere turni che gli consentissero di fare almeno qualche ora di sonno a notte, si infransero contro la poca sensibilità di un duro capo- servizio. Il suo rendimento scolastico cominciò a calare, superò a fatica gli esami del terzo anno, ma era determinato a non cedere. Finché un brutto collasso nervoso lo fermò.
Dovette lasciare la scuola ad un passo dall’agognato diploma. Fu militare fino alla pensione.
Mio padre aveva due fratelli e due sorelle, tutti più grandi di lui. Uno dei fratelli se lo portò via la tisi, che era ancora un ragazzo; così, non l’ho mai conosciuto quello zio sfortunato. Delle sorelle, una lasciò Domusnovas per seguire il marito a Cagliari, mentre l’altra, trasformatasi da massaia ad operaia in un calzaturificio di Iglesias, ché la piccola pensione del padre non bastava alle spese della famiglia, non si sposò e restò accanto ai genitori fino alla loro morte.
Il fratello primogenito era stato destinato agli studi superiori. Anche lui, nove anni prima di papà, era entrato nel Seminario, ma in realtà non compì il ciclo scolastico superiore per intero, perché questo mio zio aveva accettato di buon grado l’idea di studiare, ma non altrettanto quella di studiare per diventare sacerdote. Non era entrato in seminario per seguire una vocazione che non aveva, anche se qualcuno si aspettava proprio questo da lui. Questo qualcuno era il fratello di nonno, sacerdote a Bosa, che io ho sempre sentito nominare soltanto come “lo zio prete”. Doveva avere una posizione di rilievo nella Chiesa bosana, forse (per quanto io ricordi) in quegli anni 1920-30 era il canonico del duomo. Influente e rispettato, la sua parola era percepita come legge in seno alla famiglia e quando chiese al fratello di iscrivere il figlio primogenito al seminario, per studiare da sacerdote, nonno acconsentì senza contraddirlo affatto.
Fu però mio zio a disobbedire. Fattosi un giovane uomo, sentiva che la vita seminariale cominciava a stargli stretta, che la prospettiva di seguire la stessa strada dello zio prete non gli piaceva. Vedeva la vita del mondo scorrere fuori da quelle mura e diventava sempre più irrequieto. Lanciava dei bigliettini sulla strada prospicente il seminario, sperando che qualche ragazza, mentre passava nelle vicinanze, li vedesse, li raccogliesse, li leggesse. Cosa scrivesse di preciso sopra quei pezzetti di carta non l’ho mai saputo.
Un giorno, elusi tutti gli sguardi, uscì dal Seminario per non tornarvi più. Ora poteva correre libero incontro al mondo, ma il mondo non lo accolse con braccia benevole. Lo aspettavano l’arruolamento, la guerra, la deportazione, il campo di concentramento nazista, la fuga rocambolesca e il rientro in Sardegna, a Domusnovas. Qui si sposò e avviò con soddisfazione un bar tabaccheria, che gestì con l’aiuto della moglie. Dal matrimonio nacquero un maschio e una femmina, i quali però non sopravvissero ai genitori. Il resto della vita dei miei zii fu segnato profondamente da questo fatto doloroso.
Ho visitato Cuglieri per la prima volta soltanto pochi anni fa. Non era mai capitato, infatti, che mio padre mi portasse a vedere il paese dov’era nato.
L’imponente complesso del Seminario è sempre là, in posizione elevata, con il suo aspetto medievaleggiante, austero e un po’ cupo. Ben stagliato al di sopra del groviglio di viuzze del paese vecchio, che si distende ai piedi di Santa Maria della Neve, il complesso seminariale non ospita più le scuole dei gesuiti né la Facoltà teologica, traslocata a Cagliari nel 1971. Dopo essere stato della Regione, ora quegli edifici appartengono al Comune, ma sono quasi interamente chiusi al pubblico, per motivi di sicurezza. I pochi spazi rimasti fruibili ospitano di tanto in tanto eventi musicali e altre manifestazioni ricreative.
La via principale, intitolata ad Umberto I, attraversa il paese serpeggiando da nord verso sud, poi esce dall’abitato per scendere verso il mare di Santa Caterina. Nonostante la distanza, ben oltre i dieci chilometri per almeno due ore di marcia, tutte le estati di molti anni fa un gruppetto di ragazzini percorreva a piedi quella strada per raggiungere la spiaggia; tra loro c’era anche papà. Mi raccontava che scarpinare su quella strada al mattino, in discesa, era tutto sommato abbastanza facile, quasi un gioco, un divertimento che faceva da prologo a quello dei tuffi, degli spruzzi, dei salti fra le onde. Ma al ritorno cambiava tutto, il gruppetto si trovava davanti l’erta arroventata dal sole, immersa nella calura soffocante del tardo pomeriggio. Mi sembra di vederli quegli intrepidi, mentre rientravano alle loro case sudati, sfiniti. Però felici e pronti a vivere un’altra e un’altra ancora di quelle giornate luminose, chiarissime, inebrianti per gli intensi profumi della vegetazione costiera e del leggero vento di mare. L’appuntamento quindi era indiscutibilmente per l’indomani mattina, le scuse stavano a zero: tutti presenti, mi raccomando… e buona notte.
Guardando dal Seminario verso est, la strada sale e corre attorno al vasto massiccio del Montiferru, piazzato con le sue cime più alte sopra le terre di Cuglieri e Santu Lussurgiu. Anche il nome di questa montagna faceva parte dei racconti di mio padre. Mentre me ne parlava, io avevo l’idea che “Montiferru” fosse una vivente e prodigiosa forza della natura, che faceva e disfaceva a suo piacimento il tempo dei luoghi tutti intorno. Così, creava certi inverni freddissimi e con tanta neve, che dalle vette via via scendeva e arrivava a coprire tutto il suo paese. E creava certi violenti e paurosi temporali estivi, annunciati da pesanti nubi dal colore grigio-giallo, che sembravano emergere dalla grande montagna e che rapidamente immergevano Cuglieri nel buio di una specie di notte anticipata, per poi restituirlo alla luce abbagliante di luglio.
Se avessi guardato Cuglieri come un visitatore qualunque, che per anagrafe o storia personale non abbia legami né radici nel luogo, non avrei mai potuto intravvedere in esso anche il paese del passato, quel borgo dalle poche luci, dalle rare automobili, dai carretti trainati dagli asini e dalle stradine gremite di ragazzini che giocavano con le trottole di legno.
Ho potuto, invece, perché l’ho guardato con gli occhi di chi non c’è più.