“La fortezza prenuragica di Punta Corrales e l’omonimo Nuraghe” di Angelino Tedde
Due muri maestri semiellittici, due enormi massi come stipiti per la porta e infine tre enormi lastroni sul tetto, Si tratta di materiale del posto, trachite e basalto. Una cosa da bambini che si divertoneo a fare le capanne. Il fatto è che i massi pesano quintali e di certo non sono stati collocati dalle braccia di un solo uomo. La teoria sarebbe che mano mano che si andava costruendo si collocava accanto ai muri perimetrali un grande ammasso di terra e poi col sistema di una grosso tronco, magari con ali, si gira la ruota con qualche supporto che permetteva di prelevare i massi ciclopici e metterli a piacere dove si voleva.
Ma questa teoria sarà vera? E chi lo sa. Quando ti avvicini alla protostoria sarda ci devi andare in punta di piedi e cercare di far funzionare il cervello su cose che sembra che cervell non abbiano. La nostra attrezzatura mentale non è forse cambiata rispetto a cinque secoli orsono. N’è passata di acqua sotto i ponti. Panta rei dicevano i greci tutto scorre oppure tutto è essere. Tra Parmenide e Anassagora nei secoli se ne son dati cazzotti. Non parliamo del fuoco e dell’acqua, dell’aria e della terra.
Che dire dei sofisti che facevano apparire storto ciò che era dritto e dritto ciò che appariva storto.
Ma perché tediarsi a mettersi questi problemi visto che anche un bambino piccolo costruirebbe una capanna, fortezza, quello che volete con dei sassi mentre gioca nella sua strada sopra l’acciottolato. E allora stiamo zitti e contempliamo. Non ci resta che tacere, guardare intorno i sugheri schierati in cerchio con tante altre pietre e ascoltare semmai la voce del vento che urlava a mio padre mentre seminava tra un sasso e l’altro quel benedetto grano che sarebbe diventato farina e pane per i nostri denti di ragazzi vivaci e a tratti turbolenti nelle viuzze del nostro paesello d’infanzia.
Postiamo le foto di questi monumenti perché chi legge le contempli, penso faccia silenzio oppure prenda un martello e si pesti le mani o i piedi. Non suggerisco la testa per evitare che il cervello finisca di funzionare.
Tutta questa chiacchiera insensata come premessa per narrare l’impresa rischiosa di ieri quando la testa andava per conto suo e il corpo da un’altra parte. Superbo e orgoglioso per la Gepp del mio primogenito continentalizzato mi ero proposto di recarmi da tempo nei pressi della fortezza prenuragica di Punta de s’Arroccu dove si può giungere comodamente in macchina, fare forse duecento passi , tra i sassi giusto de su Sassu e raggiungerla e osservare di là il monte che scende verso Tula e che offre lo sguardo su quello che viene detto Su Campu de Otieri.
Questi gl’intendimenti. M’ero dato l’appuntamento alle 8,30 nei pressi della casa di Mario, la nostra guida eccellente, per raggiungere la località. Quando ci si sveglia alle 4 del mattino finisce che alle 7 ti riaddormenti. Così è stato fino alle 8, 3o quando il cellulare squillando mi sveglia da un dolcissimo sonno. Eravamo in ritardo. Che fare? Mi lavo alla gattesca, scendo in cucina, prendo tre albicocche e via col figliolo verso la casa di Mario che dalla finestra spiava il giorno e anche noi. Si sale in macchina e via fuori Chiaramonti. Davanti ad un cancello di ferro e non più di legno, Mario scende e fa posteggiare la macchina. Davanti a noi si apre il solito spettacolo contemplato da bambino: un bosco di sughere e la sterpaglia arata dai cinghiali. Non parlo, ma penso che ci stiamo dirigendo verso la località Sas Coas dall’alto. Questo mi rincuora , ma al tempo stesso mi chiedo quale via traversa avremmo trovato per raggiungere Punta de s’Arroccu, in realtà ci stavamo dirigendo verso Punta de Corrales. Dirvi la fatica di trascinarmi addosso 94 chili di ciccia ondeggiante non è cosa facile, al punto che a metà strada mi viene una tacita disperazione, mentre il cuore si gonfia e l’infarto si affaccia con qualche conato di vomito. Il cuore parla con lo stomaco o col braccio sinistro. Roba da Elisoccorso, Forse questo è l’ultimo dei miei giorni, dicevo tra me. Attaccato al braccio di mio figlio e di Mario procedo e finalmente ecco il Nuraghe che si staglia sonnolento da secoli nella brughiera.
II sole picchia sulla testa e le gambe sono appesantite dalla corpulenza della parte centrale. La poca acqua di Mario me la tracanno io. Sono senza colazione e senza medicine. Ma chi me lo ha fatto fare! Mi trovo nella vita da vecchio nelle stesse situazioni di fanciullo, quando senza chiedere permesso lasciavo casa e me ne andavo alla Croc dove nell’aia mi si diceva c’era una montagna di tutoli di granoturco strumenti necessari per imbastire un carretto da buoi e giostrare sull’acciottolato. Fatto il bottino tornavo indietro senza pensare che dopo la stretta sterrata del bosco di frassini avrei udito prima e poi visto mia madre che mi attendeva con una corda pronta alla punizione educativa, Già allora l’educazione consisteva nell’abbrustolire il sederino ai piccoli che avevano bagnato il letto e nel dare colpi di corda alle spalle o alle gambe ai più grandetti. Mi stava succedendo la stessa cosa da vecchio. Sempre azzardato!
Arrivati, finalmente un pò di riposo accanto alla grossa costruzione prenuragiva.Fotografie di rito e poi il ritorno. E come il mio angelo custode ha voluto, rimproverandomi sempre della mia sventatezza giungemmo nei pressi della macchina. Via a casa a narrare dell’azzardo compiuto alla consorte e a sentirmi dire:-Ti conosco da ormai sessant’anni, ma non cambi mai.Ma quando mai devi andare in quei posti selvaggi senza prendere le medicine e senza fare colazione e senza portarti appresso almeno una bottiglia d’acqua. Non sei più un bambino, stai vivendo se ci pensi bene i primi tuoi cinque della decina dei novant’anni! Peggio per te! –
Già, peggio per me, e sempre colpa mia, lo so. Un’altra volta ci penserò e per ora è andata, mi sono salvato!
Vedrete che a quest’età metterò la testa a posto? Non lo so, so soltanto che vivere è osare, non per niente la mia agrodolce metà nel suo cellulare per segnare il mio contatto ha scritto “Ulisse”.