Categoria : archeologia, storia

“Viaggi per l’adilà : le cripte mortuarie della chiesa di San Paolo ad Olbia” di Marco Agostino Amucano

Il prof. Marco Agostino Amucano, noto archeologo di Olbia, su nostra richiesta ci ha offerto gentilmente questo contributo estratto dal libro collettaneo  Viaggi per mare viaggi per l’aldilà , edito ad Olbia, qualche anno fa. Per noi che da tempo andiamo indagando sull’argomento è un importante strumento di conoscenza sulle sepolture in Sardegna e in particolare in Anglona e in Gallura al fine di conoscere le modalità della sepoltura anche a Chiaramonti che fino al 1834 fece parte della diocesi di Tempio-Ampurias. Si tratta di un lavoro davvero interessante e illuminante sulle modalità di seppellimento ad Olbia quando era un paese di qualche migliaio di abitanti. Non ci resta che ringraziarlo (Tedde, Cascioni, Soro).

Amanti della perfetta uguaglianza (i Terranovesi, n. d. a.) non ammettono caste e ceti diversi fra le persone: però non è mezzo secolo tale distinzione era così marcata che la conservano, per voler dei supestiti, anche dopo la morte”.   “Fino al 1835 i morti si seppellivano nella parrocchia di San Paolo; i sacerdoti nelle cripte del presbitero (sic), i Putzu in quelli della cappella della Vergine delle Grazie; gli Usai e De-Sara e Azara in quella di San Giovanni Battista, i De Rosa in quella di Sant’Agostino; i Lupaciolu e gli Spano in quella del Purgatorio; Bardanzellu e i Brandanu in quella del Cristo Resuscitato; i De-Jana e i De-Serra, gli Astechene, i Careddu, i Tamponi e i Farina nella cripta esistente in mezzo alla chiesa.” (F. De Rosa, Tradizioni 30, nota 1).

Abbiamo voluto iniziare questo breve contributto, del tutto preliminare ed “informale”, con la citazione del passo di “Mastru Ziccu” De Rosa (così lo chiamavano un po’ tutti già nella vecchia Terranova a cavallo tra il XIX ed il XX secolo, quando scriveva queste osservazioni argute sui suoi compaesani), perché costituisce l’unica, preziosa notizia scritta sulle cripte mortuarie – e relative famiglie ivi sepolte – ispezionate recentemente nella chiesa di San Paolo Apostolo, parrocchia primanziale di Olbia. Nessuno altro se non questo maestro elementare morto povero, ma ricchissimo di cultura ed amore per la sua Terranova e la sua gente, si è premurato di riportare almeno in nota queste laconiche informazioni. A seguito delle notizie orali, ed alla memoria ancora viva circa questi ambienti sepolcrali fra i “vecchi olbiesi”, è stata questa breve notizia a fornire conferma e stimolo ad intraprendere una approfondita ricerca.

            All’illustre Dionigi Panedda, pure attentissimo a cogliere ogni minima notizia, anche marginale, nondimeno sfuggì come a tutti può capitare, questa noticina del De Rosa. Ad ogni modo lo stesso Panedda espresse una forte speranza, mista a rimpianto, nella sua ultima fatica dal titolo “Olbia e il suo volto”. In tale sede, riferendosi alla scomparsa chiesa medievale citata in un documento del 1455, egli così considerava: “Si sono perdute due occasioni primizie per un sondaggio atto ad appurare, attraverso lo studio di elementi superstiti, l’età a cui quella chiesa risaliva. Non tutto, infatti, deve essere stato demolito per per dar luogo al nuovo edificio sacro. La prima occasione perduta fu quando… l’attuale chiesa venne ampliata (negli anni a partire dal dicembre 1938, n,d,a.); la seconda, quando se ne è rinnovato il pavimento con lastre di granito levigato (anno1981, parroco Don Niccheddu Derosas, n. d. a. )”. Lo stesso Panedda così proseguiva poco più oltre: “… scaturiscono interrogativi che potranno avere adeguata risposta solo quando sarà sistematicamente esplorata tutta l’arca racchiusa dal padio su cui si leva la primaziale. Si potrà appurare, allora, se sotto le sudette cripte o sotto i muri del podio affiorino le fondamenta della precedente o di eventuali precedenti chiese; e se vi siano tracce di antriori seppellimenti…” (D. Panedda, Olbia e il suo volto, Sassari 1989, 93; 96).

Ormai alla fine dei suoi anni, le ambizioni scientifiche del “professore” vanno colte più che altro come un’esortazione ed una prospettiva per chi lo avrebbe seguito, una sorta di lascito testamentario nel suo stile di uomo interamente dedito agli studi sulla sua città. Come il Panedda, dietro il Panedda, e Panedda alla mano, anche il sottoscritto non si è posto dunque il “problema cripte” pregustando l’improbabile, necrofilo, infantile piacere proibito di rimestare forsennatamente sotto i cumuli di ossa umane. Chi scrive, nei frequenti colloqui tenuti insieme al suo parroco’ ed all’amico P. Danilo Scomparin (autore del volume: Olbia cristiana. San Semplicio e la Diocesi di Civita, Olbia 2000), ha cercato solo di tenere sempre presente la possibilità, se capitata (e c’è capitata), e se consentito (e ciò è avvenuto), di utilizzare qualsiasi lavoro di bonifica o di riprestino all’interno della chiesa di San Paolo per ricavare preziose informazioni storiche ed archeologiche.

            Un’area non come le altre, questa di San Paolo, posta nel cuore dell’abitato antico. “Luogo alto”, acropoli, sito sacro per eccellenza della città punica, romana, medioevale-giudicale e moderna. Duemilaquattrocento anni della storia sacra e religiosa di Olbia stanno concetrati in questa modestissima altura di poco più di dodici metri sul livello del mare, che ogni studioso, sia esso archeologo, storico, urbanista dell’antichità punica, romana, mediovale, moderna, o architetto, o storico dell’arte o dell’architettura, o del cristianesimo in Sardegna, non può non sperare di indagare per ricavarne delle esenziali conoscenze sulla “città felice”. Qui e il cuore religioso, pulsante, sempre vivo, della città. Nei secoli gloriosi di Civita-Terranova, capitale del piccolo regno di Gallura, il Panedda vi collocava la cappella palatina dei Giudici, adiacente alla curia regni ipotizzata sotto l’attuale Palazzo della Finanza.

           È ormai fatto acquisto, grazie particolarmente agli studi di R. D’Oriano, identificare nell’area il tempio punico di Melkart-Ercole, arcaico civilizzatore dell’Occidente nella mitografia greca, e divinità tutelare della colonia punica e del municipium romano. E proprio da quest’area cominciano ad apparire timidamente le prime tracce di una frequentazione greco arcaica.

Ecco dunque le affascinanti prospettive di ricerca che si presentavano; ovviamente poi, ognuno vedrà questi sforzi in misura di ciò che sa vedere ed apprezzare (nota 2). Finita la premessa, passiamo ora direttamente all’argomento annunciato dal titolo.

            Fatta indirettamente a scopo di studio, la prima ispezione “ufficiale” di due ambienti sepolcrali capita nel 7 gennaio 2002. grazie ad una preziosa foto scattata ne 1981 dal capomuratore della primaziale sign. Gino Guddelmoni in occasione della ripavimentazione della chiesa in lastre di granito, vengono aperte a colpo sicuro ed ispezionale due botole affiancate.

Le sottostanti cripte (fig. 1), sono ora da identificarsi con le cripte del presbiterio citate dal De Rosa (nota 3).
Le botole d’accesso,ubicate al centro dell’aula, o meglio del corridoio di passaggio tra i due ordini di banchi, fra le cappelle laterali del Sacro Cuore e della Madonna del Carmelo (l’Altare de Sas Animas della tradizione), erano volutamente antistanti i due gradini del presbiterio settecentesco, che fino al dicembre 1938, allorchè iniziarono i lavori di ampliamento per volontà di Mons. Francesco Cimino, era ubicato subito dopo l’ultimo arcone dell’aula centrale originaria4 (figg.2;3).

            Le cripte del presbiterio rivelano una concezione progettuale assai semplice, eseguita attraverso l’iniziale creazione di un unico, lungo vano rettangolare disposto traversalmente rispetto all’aula centrale, corrispondente in larghezza alle due cappelle suddette, ed in lunghezza allo spazio compreso fra due gradini d’ingresso alle medesime, in corrispondenza dei quali il lungo vano termina, obliterato bilateralmente ai due esterni da spessi muri in blocchi di riuso (fig. 4).

Una volta eseguito questo unico vano trasversale, coperto con volta a botte di conci granitici “a filaretto” dall’ineccepibile tenuta statica (fig. 4), la distinzione delle due cripte si ottenne successivamente con un terzo, spesso muro mediano, cui le botole si appoggiano. L’ingresso alle sottostanti cripte è garantito da una serie di gradini di discesa. I due vani misurano ognuno m 2,7×3,2, l’altezza è al momento valutabile in circa due metri dal livello della pavimentazione.

All’interno di entrambe le cripte giacciono dei cospicui cumuli di ossa, generalmente in discreto stato di conservazione, ed i alcuni casi gli scheletri più superficiali paiono ancor parzialmente composti; il che ne suggerisce la possibile giacitura primaria (fig. 5).

            L’individuazione delle restanti cripte è avvenuta recentissimamente (settembre 2002), durante gli interventi di bonifica e di ripavimentazione ancoramin fase di cantiere mentre scriviamo (nota 5). Tali lavori, oltre a sanare il sottosuolo dal problema dell’umidità affiorante causato dallo spesso strato di terra di riempimento settecentesco, riprodurranno fedelmente l’originaria pavimentazione del XVIII secolo in ottagoni di ardesia ed inserti quadrati di marmo bianco, che solo nel caso della prima cappella a destra per chi entra (S. Giuseppe), si è reparita integralmente. Poiché la fase preliminare di cantiere prevedeva l’asportazione di uno strato sottopavimentale di circa cinquanta centimetri, è stato giocoforza l’individuazione delle bottole di accesso alle altre cripte.

            Otto gli ambienti sepolcrali così individuati: sei piccoli laterali (uno per ogni cappella) ed altri due grandi, affiancati e posti centralmente, subito dopo l’ingresso principale alla chiesa, che appaiono del tutto simili a quelli “dei presbiteri” sopra visti, per progetto, misure, tecnica costruttiva e relative botole affiancate.

Una delle botole dei cjapitti del Cimitero vecchio ottocentesco

Riepilogando, dunque, dieci cripte in tutto, di cui quattro grandi centrali e sei piccole laterali. Col settembre 2002 l’obbiettivo di localizzare ed ispezionare le cripte di San Paolo ricordate dal De Rosa può finalmente dirsi raggiunto, sempre consapevoli che lo studio di queste non può e non deve essere svolto in maniera isolata e fine a se stessa, ma – si ribadisce – va fatto  rientrare in un ampio ed articolato progetto d’indagine del sottosuolo in prospettiva storica, archeologica ed architettonica. In tale progetto gli scavi argheologici guidati dalla Soprintendenza Archeologica per le Province di Sassari e Nuoro nel novembre 2002, interessati la parte destra del  transetto, costituiscono un primo, fondamentale, rivoluzionario capitolo, anzitutto metologico: la speranza che fu di Donigi Panedda comincia a concretizzarsi, e non può essere delegata ad un unico, solitario studioso, ma può deve essere il frutto di un complesso lavoro d’equipe, che finalmente i tempi hanno fatto maturare”(nota 6).

Una delle cripte laterali di San Paolo, in base di scavo anno 2002

Soffermandoci un attimo sulle due grandi cripte centrali antistanti l’ingresso, da ultimo indagate, si è rimasti alquanto sorpresi nel notare non tanto che esse sono due e non una, come riportava erroneamente il De Rosa (che dunque non le potè visitare in quanto già sigillate dal pavimento), quanto che al loro interno vi siano pochissimi resti di sepolti, peraltro calcinati. Ci saremmo dovuti aspettare molto di più, considerando che stando al De Rosa – gli ambienti erano destinati alla sepoltura dei componenti di ben otto famiglie (DeThori, Giua o Jaa, Spensatellu, De-Serra, Astghene, Caredddu, Tamponi e Farina), peraltro vissute in cui… la televisione era concausa del calo delle nascite. Questa povertà di disposizioni, potrebbe far concludere che i presbiteri abbandonassero a tal punto, nella parrocchia primaziale della piccola Terranova, da superare in maniera esponenziale i componenti di ben otto famiglie, sepolti dal 1747, data di costruzione della chiesa, al 1835, data ufficiale di abbandono delle sepolture all’interno della chiesa.

Cimitero vecchio di Olbia foto 2001

 

La perplessità si è subito sciolta analizzando le piccole cripte laterali. Pur presentando, nei casi più elganti, incassi per la chiusura (lignea e/o in terracotta) delle bottole (ad es. cripta degli Usai e De-Sara, nella capella del Sacro Cuore, ex S. Giovanni, vedi (fig. 6), esse furono ricolmate di terra, e quindi sigillate dalla stessa pavimentazione settencentesca in ardesia e marmo bianco di Carrara, di cui restava forse una certa quantità avanzata di lavori e depositata. Questo antico intervento di bonifica avvenne in tempi che supponiamo immediatamente successivi alla costruzione delle cripte e della chiesa. Due cripte in particolare, quella dei Bardanzellu e Brandanu, ubicata nell’attuale cappella di S. Rita (già S. Giovanni), sottoposte al parziale svuotamento del riempimento nel settembre 2002, hanno appurato la totale mancanza di deposizione al loro intern, ed è plausibile che altrettanto sia avvenuto per le restanti cripte laterali (nota 7).

San Paolo, cripta del presbiterio.

Quanto riscontrato può esser interpretato senza troppi sforzi come segue. In un periodo immediatamente successivo al 1747 si decise di svuotare completamente le sei cripte laterali, trasferendo i resti nelle due cripte del presbiterio. La causa di ciò può essere spiegata in primis con le dimensioni assai piccole, che resero presto insufficienti le cripte laterali per capienza, obbligando a frequenti e poco gradevoli svuotamenti periodici, sia col fatto che essendo quelle rivestite di un copatto stratto di intonaco anche sul fondo (pertanto non assorbente), i miasmi all’interno della chiesa dovetterenderla presto impraticabile.

Navata di San Simplicio Olbia

Se questa fu causa presumibile per la dismissione delle sei cripte laterali, non altrettanto può dirsi per quelle delle grandi cripte centrali, delle otto famiglie, i cui ambieti furono svuotati quasi del tutto forse in un momento finale, presumiamo in occasione dell’abbandono “ufficial” delle sepolture all’interno della chiesa nell’anno 1835, data riportata dal De Rosa e confermata dai registri parrocchiali adesso in restauro – per iniziativa del parroco e del Lions Club di Olbia – presso il monastero benedettino di San Pietro in Sorres. Il conclusivo trasferimento dei resti mortali nelle due cripte dei presbitri è interpretabile stavolta con motivazione profondamente radicate nel credo cattolico: la chiesa militante si unisce misticamente alla chiesa purgante, e trionfante, in maniera quantopiù prossima e partecipe, anche fisicamente, al quotidiano Sacrificio sull’altare principale, mentre l’atare “de San Animas” sulla destra, garantisce i derivati, ulteriori, suffragi.     

Stendardo di una Confraternita della Santa Croce

Circa il metodo di sepoltura impiegato nelle grandi cripte non è il caso di soffermarsi troppo; le salme, avvolte in genere in un semplice sudario e fissate ad un semplice supporto ligneo, venivano speditivamente introdotte, e quasi (o neanche quasi) lasciate dagli addetti e dai cogiunti, con un passamano velocissimo attraverso le botole. L’aria interna alle cripte, anche adesso irrespirabile per l’umidità e l’anitride carbonica, doveva essere talmente insopportabile per le esalazioni delle precedenti (di quanto?) sepolture, da costringere gli addetti a depositare la salma in apnea. Pertanto ovvio che l’operazione doveva eseguirsi in pochi secondi.

            Come già accennato, gli archivi parrocchiali ci informano che l’abbandono ufficiale delle sepolture “in ecclesia Sancti Pauli” avviene nel 17 agosto 1835. come nessuno si sarebbe auspicato nella piccola Terranova, è purtroppo un bimbo di soli nove mesi, Giovanni Maria Bardanzellu, nello strazio dei genitori Giuseppe e Lucrezia Spano, che chiude mestamente un’epoca. Chi lo segue nell’elenco, certo Ramondo Palitta di anni 38, morto il 18 settembre 1835, verrà invece sepolto “in cimeterio” (sic). Siamo cosi informati della cessazione “ufficiale”del sistema di sepoltura all’inerno delle chiese anche per Terranova, e con notevole ritardo rispetto al decreto di San Cloud del 1804 (applicato in Italia due anni dopo)., che finalmente stabiliva come luoghi di sepoltura i cimiteri esterni agli abitanti.

           

Confratelli della Confraternita della Santa Croce

Sapiamo da varie da varie fonti dell’ostinata resistenza che i sardi mostrarono a rendera esecutivo il “nuovo” uso funerario (che tuttavia già la civiltà classica pagana era norma indiscutibile ). presumibilmente fu l’avanzamento delle conoscenze medicoscentifiche a scalfire la proverbiale “costante resistenziale sarda”, per citare la definizione felicissima del Lilliu. Proprio in quegli anni apparivano nondimeno le prime ipotesi scientifiche che intuivano la trasmissione di molte malattie causata dai microrganismi patogeni. L’ipotesi dovrà aspettare ancora qualche tempo per essere dimostrata dalle riceche mediche di laboratorio, ma i tempi erano ormai maturi per far si che una pur millenaria pratica di sepoltura passasse in secondo piano al cospetto dei rischi per la salute pubblica.

San Simplicio-Olbia

Sotto il regno di Carlo Felice anche Terranova trarrà vantaggio di alcune provvidenze, tra cui la prima scuola elementare, avviata nel 1827 ed ubicata nella chiesa di S. Croce, e finalmente si comincia a parlare anche della costruzione di un cimitero (cfr E. TOGNOTTI, breve storia della città di Olbia, Olbia 1999, p. 29). La scelta dell’area cadde, certo non a caso, nei pressi della cattedrale ormai quasi in disuso di S. Simplicio (poco dopo, nel 1839, veniva soppressa l’antica Diocesi di Civita), in un rialzo granitico compreso all’interno di più importante area cimiteriale già paleocristiana, sorta intorno alla tomba del santo martirizzato sotto l’imperatore Diocleziano, ed ora, come nel 1835, Patrono di Terranova, della Diocesi e della Gallura. Più che un cimiterocome lo pensiamo ora, il “cimitero vecchio” (così è oggi comunemente chiamato) è architetonicamente una vera e propria chiesa a tre navate, con altare in gesso ancora ben conservato (fig. 7), ed ingresso centrale.

            Come già avvenne nel cantiere del S. Simplicio circa sei secoli prima, il “cimitero vecchio” venne costruito smantellando allegramente un tratto delle antiche mura della colonia cartaginese ancora in piedi. Lo desumiamo osservando i blocchi punici riusati nella facciata, soffocata vergognosamente da un palazzo lasciato costruire decenni orsono a pochi centimetri di distanza. Sotto il pavimento delle navate laterali, per quasi la lunghezza dell’edificio, sono due lunghe cripte con ampie botole quadrate di accesso (due per ogni cripta). Insomma, cambierà luogo di sepoltura (fuori dall’abitato). Ma non le modalità: si continuerà a gettae le salme in fretta e furia, senza bare e quasi sempre avvolte in un semplice sudario. Anche l’edificio, nella tipologia chiesastica con richiami settencenteschi nell’altare, servi “diplomaticamente” ad addolcire l’abbandono – traumatico, non dubitiamo  – di un’abitudine millenaria, smorzandone in qualche maniera la scandalosità, soprattutto per i più semplici e i più attaccati alle tradizioni degli avi. “È comuncue anche quella una chiesa!” sarà stata forse più usata dalle autorità per persuadere la parte del popolo più restia ad un rivoluzionario cambiamento per lustri. Ma i segni dei tempi erano validi anche per la piccola Terranova, ancora raggomitolata entro il perimetro delle vecchie mura pisane, quasi a difendersi dalla storia e dal mare, con i suoi apporti positivi, ma anche coi suoi pericoli, ancora freschi nella mente dei più.

            Torniamo ora brevemente alle cripte di San Paolo, o meglio alle famiglie ivi sepolte. Per quanto in larga parte diffusissimi a tuttoggi, gli archivi parrocchiali documentano che quei diciotto cognomi non esauriranno la popolazione di Terranova nel 1747, attestata intorno ai 1100-1200 abitanti. Di contro, se verrebbe naturale pensare che “il privilegio di sepoltura” (in verità poco… “nobile”, come sopra rilevato) riguardasse famiglie comunque rappresentative all’interno della comunità, forse ci pare più realistico esprimerci per un “privilegio” conquistato non soltanto con le offerte in denaro per la costruzione della chiesa, ma anche con prestazioni d’opera dirette, oppure con la donazione di materiale da costruzione, o magari la cessione di aree per il prelievo di enormi quantità di (ottima!) terra di riempimento sottopavimentale, che gli scavi archeologici hanno appurato essere di quasi due metri di spessore. Tale è infatti il notevole innalzamento che la chiesa mostra rispetto a precedenti situazioni a cielo aperto al momento del cantiere settecentesco. Se non possiamo dimostrare che ciò sia avvenuto dappertutto, questo è comunque quanto riscontrato nella porzione di scavo archeologico svolto nell’autunno 2002 nella parte destra del transetto, e confermato grosso modo dalla quota di fondo delle cripte, esecutivamente contemporanee alle fondazioni della chiesa. Che poi le cripte accogliessero anche coloro che non portavano necessariamente uno dei diciotto cognomi indicati appare consultando gli stessi “Qinque Libri” dell’archivio parrocchiale. Come non è detto che gli stessi componenti dei “diciotto” fossero obbligati ad essere seppelliti a San Paolo, visto che esistevano certamente altri luoghi di sepoltura immediatamente prossimi alla chiesa, e comunque genericamente indicati sotto quella cintura “in ecclesia Sancti Paoli” che nei registri parrocchiali (la data di inizio di questi è nell’anno 1663) segue comunemente il nome del defunto, la data di morte ed il luogo di seppellimento fino al 1835.

            Una preziosa notizia recentemente fornitaci da chi , poco più che adolescente, partecipò ai lavori di definitiva demolizione della chiesa di San Paolo negli anni del secondo conflitto mondiale, ci informa dell’esistenza di cripte anche in questa chiesetta minore forse cinquentesca, punto di riferimento fondamentale della Confraternità di S. Croce, i cui componenti e familiari potevano trovare qui – presumiamo – il loro più confacente privilegio di sepoltura. Sempre secondo la testimonianza di questo anziano olbiese, i resti ossei trovati in quantità cospiqua nella cripta di  Santa Croce furono pietosamente rimorsi e depositati all’interno di una cisterna romana trovata durante gli scavi per l’ampliamento dell’attuale sacrestia, dove rimangono. Lo stesso testimone ricorderebbe anche di due sepolture isolate, collocate davanti al presbiterio settecentesco poi spostato a seguito dei lavori di ampliamento: non ci è facile immaginare il perché di questa distinzione, che comunque spinge a pensare ad un rango superiore dei due sepolti.

            Sappiamo infine che vi erano altre chiese subalterne, in città e per una di queste, quella scomparsa intitolata a S. Antonio Abate, ubicata all’inizio di Corso Umberto I, in corrispondenza    della filiale della Banca Popolare di Sassari, è testimoniata l’esistenza certa di una cripta mortuaria, come ci testimonia il Panedda (D. PANEDDA, Olbia e il suo volto, cit., pp. 57-60).

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