“Scrittore e maestro. Nuovi studi sul poeta di Santu Lussurgiu (1914 – 1987)” di Giorgio Galetto
Giovanni Corona (1914-1987) è un poeta ancora poco conosciuto al di fuori della Sardegna. Nato e vissuto nel paese di Santu Lussurgiu, sulle boscose pendice del Montiferru, fu persona schiva e riservata e pubblicò in vita una sola plaquette, cedendo alle insistenze degli amici. Se si esclude quella prima raccolta, Ho sentito la voce del vento, e i pochi componimenti apparsi su alcuni riviste isolane o in volumi collettivi, la maggior parte della sua produzione è stata pubblicata postuma, ad opera di famigliari e di affezionati estimatori.
Non era, tuttavia un dilettante di poesia e neppure un verseggiatore ingenuo. Mario Luzi, che ebbe occasione di leggere una scelta delle sue liriche, inviategli per il tramite del linguista Emilio De Felice, le accolse con un giudizio molto lusinghiero – e il secondo dei volumetti che videro la luce dopo la sua scomparsa, Sassi della mia terra, fu premiato dal Concorso Internazionale di Poesia “Città di Venezia”, scelto nel 1993 tra tutte le proposte editoriali dell’anno.
Corona aveva iniziato a scrivere da ragazzo, al ginnasio, e non aveva più smesso, senza mai preoccuparsi di raccogliere la propria opera in volume, i suoi versi, vergati su quaderni a righe, su taccuini e su foglietti volanti di cui aveva sempre piene le tasche, erano diffusi manoscritti e letti nella cerchia di giovani e meno giovani che si riuniva attorno a lui, riconoscendogli il carisma di un maestro laico, innamorato della poesia e sensibile alle questioni umane e sociali dell’isola.
L’ampiezza delle letture, d’altronde, unita alla curiosità intellettuale e a un’idole irrequieta ed espansiva, aveva permesso a questo uomo mite, autoconfinatosi nel natio borgo selvaggio, di seguire con attenzione le correnti e le tendenze letterarie che si andavano manifestando sulla scena internazionale, di meditarle e di elaborarle, riconducendone via via le suggestioni alle proprie esigenze espressive. Pur con le tracce che la tradizione letteraria vi ha lasciato – non solo nelle sue declinazioni novecentesche-, la poesia di Corona possiede infatti un suo peculiare centro di ispirazione, un timbro riconoscibile e persuasivo. Nell’universo poetico coroniamo, il paese si fa metafora del mondo e della condizione dell’uomo, ontologicamente confitto entro un limitato orizzonte, e la comunità che lo popola diviene immagine della stessa società umana, governata da egoismi e profitto. In questo ambito, anche il senso di solitudine esistenziale si intensifica, perché chiamato a confrontarsi, su un altro fronte, con il paesaggio circostante, aspro e solenne. Si potrebbe affermare che la Sardegna è, per Corona, ciò che la Liguria fu per Montale un luogo propizio al raccoglimento alle illuminazioni, uno scenario evocativo dove fenomeni, spazi e presenze acquistano, per reciproca interferenza, una speciale intensificazione, trascolorando in simbolo. Né l’ispirazione si esaurisce nel registro contemplativo: a fianco del Corona lirico, c’è il poeta civile, dello sdegno politico e dell’impegno sociale – e c’è sempre l’attento compositore, la cui apparente immediatezza è tramata da attente scelte prosodiche e innervate da consapevoli e ricorrenti stilemi.
L’interesse per lui è cresciuto negli ultimi anni, in parallelo con la graduale pubblicazione della sua opera, che continua a riscuotere sempre maggiori consensi. Ne testimonia oggi una miscellanea di studi pubblicata da Carocci, a cura di Simona Cigliana, che raccoglie contributi di studiosi sia italiani sia americani, poiché negli Stati Uniti il mondo dell’italianistica ha recentemente manifestato una notevole attenzione per Corona, apprezzando non solo la concentrata intensità delle sue liriche anche l’impegno morale e gli esiti sperimentali del suo riscoperto romanzo Questo nostro fratello, di cui il volume appena pubblicato presenta alcune pagine inedite, tratte dalla prima stesura, intitolata l’uomo è uomo.
In gioventù, studente magistrale a Cagliari, Corona aveva aderito per un breve periodo al Gruppo Futurista Sant’Elia e, sedotto dalla carismatica personalità di Marinetti gli aveva dedicato un lungo poema- purtroppo andato perduto-, ricevendone in cambio stima, libri autografati e dediche altisonanti. L’adesione al turbolento movimento di avanguardia non era durato a lungo: misurate le distanze tra la propria natura meditativa e quel dinamismo a tutti costi, tra il proprio malinconico pessimismo e l’ottimismo artificiale a tutti i costi, tra il proprio malinconico pessimismo e l’ottimismo artificiale della “caffeina d’Europa” tra le proprie convinzioni pacifiste e il bellicismo guerrafondaio degli slogan futuristi, il poeta aveva avvertito la necessità di prendere le distanze. Quell’esperienza, osserva la curatrice, lo aveva però aiutato a maturare una nuova libertà compositiva, svincolandolo dall’ossequio al metro e dalla fedele osservanza della sintassi. Molte pagine di Questo nostro fratello confermano l’intento sperimentale e anche il debito di Corona nei confronti della lezione futuristica: da una parte, la prospettiva tutta in Slashback e il montaggio a sequenze giustapposte; dall’altra, la tendenza all’asciuttezza e alla sintesi espressiva,l’insistito ricorso alla paratassi, i bruschi salti di tempi verbali, l’uso del dialogo lbero indiretto e la mescolanza di linguaggio alto e linguaggio basso, nonché la rinuncia a metaforizzare. Il comune senso del pudore copre con un velo di reticenza: i bisogni fisiologici, le parti “innominabili” del corpo, gli effetti raccapriccianti della decomposizione. Ma è soprattutto nei momenti di climax narrativo che la prosa di Corona, tra onomatopee, fusione e crasi di parole, uso di caratteri tipografici dissimili, sprezzo per la punteggiatura e rifiuto della sintesi, tocca, talvolta, il paroliberismo. Ciò colpisce tanto più in un romanzo – documento,e che, a partire da un fatto di cronaca nera, si dipana con andamento indiziario, e che, ambientato nel mondo aspro di una Sardegna arcaica e pastorale, ha l’obiettivo di denunciare l’implacabile durezza, posizionandosi, a ciglio asciutto, dalla parte dei vinti.
Proprio sull’analisi di questa prova narrativa, forte del volume ora dedicato da semente poetica, si concentra tutta la prima parte del volume ora dedicato da Carrocci allo scrittore, su cui i saggi offrono diverse prospettive di outsider del protagonista, Chiccu Ginestra, che lo accomuna agli altri emarginati della terra. Silvia Boero (Portland State University) rileva come, sullo sfondo della vicenda di Chicu, si compamga un intenso quadro antropologico e socio-economico dell’isola, esplorata anche nei suoi tratti di più suggestiva bellezza. Simona Cigliana (Università “La Sapienza” di Roma), si sofferma sugli aspetti compositivi e stilistici, e sulla fitta rete di rimandi simbolici attraverso cui l’autore formula il suo j’ accuse e il suo severo richiamo alla solidarietà, Natale Felice (University of Leeds) propone una lettura evangelica del romanzo, mettendone in risalto alcune significative consonanze con il libro dell’Apocalisse di Giovanni. Ilaria Serra (Florida Atlantic University), che nella parte iniziale del volume sottolinea l’intensità poetica di Questo nostro fratello, nella seconda sezione propone invece la lettura ecocritica dell’intero corpus poetico di Giovanni Corona, rimarcando la concreta traduzione della geografia isolana nei suoi versi, Francesco Porcu, che ha qui trascritto e curato la pubblicazione delle pagine inedite della prima parte del romanzo, ricostruisce i dati autobiografici sui quali esso è tramato e i vari motivi di cui si sostanzia l’impianto metaforico della poesia di Corona.
Nelle pagine a seguire, si esaminano altri momenti della produzione coroniana, relativi soprattutto alla poesia e a all’epistolario (Angela Cacciarru e Silvia Boero). Completa il profilo una accurata bibliografia: la prima, a quanto ci risulta, che sia stata compilata sul poeta sardo.
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1 Questo nostro fratello. Romanzo. Trento: Ed. Uni Service, 2012. Introduzione di Emanuele Pettener e di Ilari Serra.