Categoria : storia

“La grande peste mediterranea, ‘il Castigo de Dios’ (1652– 1656) a Sanluri”di Rosanna Pisano

Rosanna Pisano, nostra collaboratrice, in quest’articolo tratta della famosa peste manzoniana a Sanluri, ampiamente illustrata per la Sardegna dal compianto storico moderno sardo nulvese di padre e calangianese di madre Francesco Manconi (Sassari, 1941-1914) già ordinario di storia moderna presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Sassari , sepolto con l’amato figlio a Calangianus accanto, ma non nella tomba dei Corda, nobile famiglia di Calangianus a cui apparteneva per parte di madre. La peste ufficialmente infuriò in Sardegna dal 1652 al 1657 benché a Cagliari la fine ufficiale sia stata celebrata nel 1656 con una Messa solenne , ma in Sardegna riferiscono altri storici scomparve del tutto nel 1657. I viceré durante questa epidemia furono  Beltrán Vélez de Guevara, marchese di Campo Real (1651-1652) Pedro Martínez Rubio, arcivescovo di Palermo (1652-1653) Francisco Fernández de Castro Andrade, conte di Lemos (1653-1657) Bernardo Matías de Cervelló (ad interim) (1657) (2ª volta) Francisco de Moura, III marchese di Castel Rodrigo (1657-1661).
Il fattore dirompente, che mise in ginocchio Sanluri e tutta la società sarda, fu l’improvvisa irruzione nell’isola, nel quinquennio 1652/1656, della grande peste mediterranea, conosciuta come “Castigo de Dios”. Il morbo scoppiò nel 1652 in Alghero, importato dall’equipaggio di una nave catalana. Il Padre Cappuccino Giorgio Aleo, nella “Cronaca delle vicende seicentesche della Sardegna” ci descrive i particolari del mortale fenomeno: “L’epidemia fu preseduta nel maggio del 1652 da un’invasione di cavallette, che oscurava il cielo e ricopriva interamente la terra, e che fu accolta come “Ira y castigo de Dios”. […] “Su una popolazione di circa 280.000 persone, gran parte morirono contagiate a causa della mancanza di sincerità e la deficienza da parte dell’autorità regionale sia nella città di Cagliari che nell’isola tutta”. Dapprima, nel mese di maggio, il “contagio” partì da una nave proveniente da Tarragona (in Catalogna allora infuriava la peste), e si diffuse ad Alghero, decimando, nel giro di poco tempo, la popolazione; in cinquanta giorni erano morte più di settemila persone. Dilagò poi a Sassari (i deceduti furono dai ventitré ai ventiquattro mila) e nei paesi vicini. Ai confini di ogni villaggio, vigilavano le Guardie, i Commissari e i Capitani di Compagnia, inviati dalla “Junta del morbo” per impedire che “entrasse nessun forestiero se non portava una Fede di sanità firmata dallo Scrivano della Corte, attestante la sua perfetta salute”.
Nonostante tutti questi sforzi, la peste si manifestò anche a Sanluri: “Il primo villaggio a esserne colpito fu San Gavino Monreale; subito dopo dilagò nelle località del circondario, colpendo Guspini, Arbus, Uras, Selluri (Sanluri) e altri paesi. A introdurla furono i soldati e i commercianti che facevano la spola tra il capoluogo e questi villaggi”.
Così scriveva il Mannu: […] “Non perciò cessarono i clandestini trasporti delle robe dai luoghi appestati e così recossi l’estremo crollo della salute pubblica, e dalla parte settentrionale dell’isola si propagò il contagio alla meridionale dell’isola. Si apprese alla villa di san Gavino Monreale […] E di subito si sparse per li comuni vicini. Guspini, Arbus, Uras, Sanluri, quasi restarono spopolati. Nelle strade accadevano scene orribili e il morbo si propagava con rapidità del fulmine; i colpiti quasi tutti perivano; l’uomo sano che visitasse un malato, sfuggiva di rado alla morte. Si diventava pazzi dalla paura, amici e parenti abbandonavano i loro congiunti, i medici non osavano accostarsi agli infermi, i sacerdoti non riuscivano a prestare i conforti della religione”.
Nella 1652-53 Sanluri fu annoverata tra i centri maggiormente colpiti dalla peste bubbonica e polmonare. La pestilenza imperversò per tutta l’estate, stimolata dai calori estivi, attenuandosi nel periodo freddo, per ricomparire, però, all’inizio dell’estate dell’anno seguente, colpendo così per ben quattro anni, fino al 1656, quando alla fine colpì anche Cagliari dove, ai primi di giugno, scrive l’Aleo, i becchini non riuscivano più a seppellire i cadaveri.
Anche a Sanluri, man mano che crescevano i caldi primaverili, il numero dei malati e dei morti aumentava. Tra la fine di maggio e i primi di giugno, il numero quotidiano dei decessi era cresciuto tanto che gli “enterradores” facevano appena in tempo a dare sepoltura ai cadaveri. Per la densità della popolazione, che viveva ammassata anche in casa, e per le scarse condizioni igieniche, quasi tutti ne rimasero contagiati; e senza distinzione tra uomini e donne, tra vecchi e bambini, morì una grande percentuale della popolazione. Tutto accadde con tanta furia che non si fece in tempo neanche a seppellire i morti, le strade ormai, rappresentavano uno scenario di pianto e di orrore.
Le vittime del contagio, innumerevoli in tutta l’isola, furono a Sanluri 2500, come attesta un Registro parrocchiale dell’epoca: “Acquì entre la peste qual levò Antiogo enas – el ano 1652 a diciotto setiembre – murieron entre pequenos y grandes 2500 almas”.
Francesco Corona in “Sanluri, Monografia storica” rileva che “Da carte dell’epoca, nei primordi del secolo XVI, per una delle tante pesti, che decimarono più volte la popolazione sarda, Sanluri si ridusse a poco meno di 100 abitanti. Il censimento del 1689 annovera 463 fuochi, con 1171 abitanti di cui 549 maschi e 622 femmine”.
Nei “Registri Parrocchiali, del Villaggio di Sanluri” (AAC, Quinque librorum di Sanluri, Liber mortuorum, 1652), sono annotate le ultime volontà di coloro che ormai si sentono prossimi alla morte. Si disponevano riti funebri e conforti religiosi molto diversificati e, anche da una sfuggevole occhiata ai “Libri dei defunti”, questa disuguaglianza risulta evidente. È documentato che, solo per il primo anno, i poveri, di solito contadini e braccianti, colpiti dall’epidemia erano deposti in “su baullu de totus”, una specie di cassa con le stanghe nella quale i cadaveri erano esposti per la cerimonia funebre, per poi essere avvolti in un lenzuolo e scaricati nella fossa comune. In seguito, erano sepolti senza alcun servizio funebre, mentre i “signori”, i benestanti del paese, si assicuravano messe, messe basse e cantate, accompagnamenti funebri, messe di fondazione, ecc.
Proprio nel nostro paese, pur nella modestia del suo contesto sociale, il numero delle inumazioni compiute senza riti religiosi fu piuttosto alto a causa della povertà dei defunti. In tempo di peste, inoltre, non erano possibili cerimonie funebri, cortei, preghiere collettive, raduni in chiesa o nelle strade. Nel migliore dei casi i cadaveri erano portati direttamente al cimitero e inumati frettolosamente senza cerimonie né accompagnamento. La realtà, spesso, era ancora più triste: l’inumazione nelle chiese diventò ben presto impraticabile per ragioni sanitarie e di spazio, rapidamente anche i piccoli cimiteri esterni si saturarono. Fosse, pozzi, pertinenze di chiese divennero a poco a poco veri e propri carnai. I cadaveri dei poveri, spesso in stato di abbandono insopportabile, erano lasciati, alla rinfusa, nelle strade, o in fosse comuni, nei carneros, senza compianto, senza identità.
Gli appestati erano inumati in tutta fretta, talvolta persino ancora in vita, come, infatti, ci racconta l’Aleo: “Per seppellire i morti di peste, si chiamavano, come enterradores, schiavi turchi e galeotti, resi liberi per svolgere questa triste e scomoda mansione. La morte di peste è stata definita “morte indecente”, infatti questi loschi individui, molto raramente, mostrarono pietà o almeno rispetto sia verso i moribondi sia verso quelli già defunti. Passavano con i loro cavalli e carri sopra i corpi, caricavano e buttavano dentro i carneros persone ancora coscienti; restavano, indifferenti di fronte al dolore dei loro familiari.”
Scrive il Manconi: “[…]“In quei tempi una “buona morte” era viatico per una seconda vita e, pertanto, per abbreviare la permanenza in Purgatorio, i ricchi lasciavano sempre nei loro testamenti cospicue donazioni alla Chiesa perché celebrasse continue messe in suffragio delle loro anime. Anche i poveri affidavano i loro umili averi alla Chiesa perché celebrasse delle messe di suffragio. A Sanluri, Margarida Mereu, nel suo testamento, delega al parroco la vendita del suo “pabillon”, il baldacchino del letto, affinché “se le hisiesse la pompa funeraria” si dicessero tante messe quante ne permetteva il ricavato della vendita.”
Nella chiesa parrocchiale di Sanluri, si conserva un grande dipinto seicentesco, di soggetto religioso, a olio su legno, dell’altezza di metri due per una larghezza di un metro e sessantasette, donato, a titolo di ex voto, da un notabile sanlurese, anonimo, scampato alla peste, in segno di gratitudine. Il quadro raffigura uno spaccato del villaggio durante un’epidemia di peste. Vi appare la Madonna delle Anime purganti col Bambino, assisa sulla roccia e dietro s’intravedono San Martino, Santa Rosalia e San Rocco; sul piano mediano appare la figura di un fedele, probabilmente il donatore del quadro. Nella parte inferiore si ha uno scorcio di Sanluri durante la pestilenza: vi appare l’antica Parrocchia (precedente all’attuale), il castello, il Convento, nel suo spazio quadrangolare, da dove si possono notare anche il chiostro, i merli che sovrastano la facciata, la porta, il rosone e le finestrelle. S’intravedono alcuni frati che si prodigano a favore degli appestati. Sono raffigurati numerosi morti o moribondi, uomini, donne e bambini, alcuni giacenti sulle strade e altri, trasportati su un carro a buoi, una coppia trascinata con i piedi avvolti in una corda, altri in stato di abbandono, in preda alla disperazione o, ormai rassegnati; sorvegliati da cavalieri spagnoli predisposti per far eseguire almeno alcune elementari norme sanitarie e di polizia. L’opera, di scarso valore artistico, l’ha però dal punto di vista storico, perché si può ritenere la più antica immagine del Villaggio di Sanluri durante questa terribile pestilenza.
I frati, apostoli tra gli appestati, si distinsero per l’abnegazione e l’amore fraterno, pur consci del pericolo di contagio. Furono esemplari per generosità e servizio verso i moribondi e malati gravi; subito aprirono la loro chiesa e il convento e non solo alla preghiera, ma prestando la loro opera di assistenza spirituale e caritativa. Trasformato il Convento a lazzaretto, si misero all’opera per alleviare il male, per incoraggiare le famiglie colpite, per distribuire i medicinali che potevano reperire con fatica; curavano e seppellivano la gente, vittima della peste. La loro dedizione verso gli appestati era tale che molti studiosi contemporanei ne restarono affascinati. Lo storico Cesare Cantù nella sua “Storia universale” li avrebbe definiti “eroi delle pesti del secolo”. Lo storico Boverio racconta che la loro carità era così completa che “quando li poveri infermi li vedevano, li chiamavano li loro angeli”.
Da “Sanluri Terra ’e lori”: “I Cappuccini (di Sanluri), grazie al loro operato, si assicurarono la perenne gratitudine del popolo, sino a meritarsi i titoli di “Eroi delle pesti del secolo”. I Religiosi cappuccini che, durante l’epidemia di peste, spiravano nell’altare della carità, per amore del loro prossimo, furono trenta. Nell’elenco sono annoverati: P. Vincenzo da Cagliari – Sac. Curato per gli appestati (Guardiano), P. Giovanni Battista da Samassi – Sac. Assistente al Curato, P. Giuseppe da Tonara – Sac. Assistente al Curato, Fra Francesco da Serramanna – Laico Assistente al Curato, Fra Lorenzo da Sanluri – Laico Assistente al Curato”.
Dall’ottobre del 1656 la peste cessò in tutta l’isola e si fecero i dovuti ringraziamenti a Dio. Questa tragica esperienza riportò in tutti una forte religiosità: a Sanluri molti s’impegnarono, per placare “l’ira di Dio”, a organizzare processioni e pubbliche preghiere, e grandissima fu la frequenza dei Sacramenti. In seguito a questa pestilenza, con lasciti testamentari e donazioni di molti nostri concittadini, furono edificate delle chiese. Quella edificata sulla strada che conduce al Convento dei Cappuccini, ebbe come santo titolare, San Rocco, originario di Montpellier, vissuto nel XIV secolo. Essendosi dedicato alla cura degli appestati; egli stesso si ammalò di peste, guarendo dal morbo. Per questo, invocato, soprattutto in passato, contro le pestilenze, è di solito raffigurato accompagnato da un cane, col bastone da pellegrino e la bisaccia, nell’atto di scoprire la gamba per mostrare un bubbone. Così appare anche nel prospetto principale della chiesa sanlurese a lui dedicata, scolpito in rilievo accanto al Cristo in croce e a San Sebastiano (la cui Chiesa sorse all’interno del borgo nei pressi del castello, sempre nello stesso periodo), protettore anch’egli contro le epidemie.
Foto
Dipinto seicentesco della peste presente nella Chiesa Parrocchiale di Sanluri.
La facciata della chiesa dei Cappuccini a Sanluri, secondo la struttura originaria del 1609, in un particolare del quadro votivo sulla peste 1652/1656, conservato nella chiesa parrocchiale.
Il convento di Sanluri, visto dal lato nord, nei secoli XVII-XVIII.
Chiesa di san Rocco a Sanluri e dettagli.
Bibliografia e testi consultati

F. Manconi, Castigo de Dios: la peste barocca nella Sardegna di Filippo IVCarta Raspi, Storia della Sardegna
G. Orrù, La peste in Sardegna
F. Masala, I luoghi della peste

Commenti sono sospesi.

RSS Sottoscrivi.