“Amare Chiaramonti: gli artigiani del sabato del villaggio” di Angelino Tedde
Tra i ricordi evanescenti, e certamente rielaborati dalle emozioni, della mia fanciullezza chiaramontese emergono spesso gli artigiani, in particolare carpentieri e falegnami, fabbri e calzolai. A tiu Antoninu Falchi lo escludo dal numero, perché, avvicinandolo a distanza, quando passavo nella piazzetta dell’Avvocato, m’incuteva a momenti soggezione, a tratti curiosità, per la sua lunga e fluente barba bianca e per gli occhiali.
In certi momenti sembrava una statua michelangiolesca, protetta dalla vetrina della sua bottega di orologiaio, che pareva collocarlo un gradino più su degli artigiani. Se dovevo recarmi in piatta da tia Tarsilla, per acquistare dello zucchero, mi tenevo lontano, se invece dovevo recarmi da tia Nannedda Calzone, per farmi appunto qualche paio di calzoncini, o a casa de tiu Giuannandria o di giaju Pira, in carruzzu de ballas, passando per sa carrela de su putu, dovevo essere guardingo e più svelto per non provocare i significativi movimenti della sua faccia espressiva. D’altra parte il buon vecchio era abituato al chiacchiericcio delle quattro vivaci fanciulle della numerosa famiglia della porta accanto al suo laboratorio: Ida, Iolanda, Franca e Giovanna e altre loro vicine compagnette che animavano appunto sa carrela de s’avvocadu.
Spesso però, da solo, o al seguito di mio padre, lasciata via Garibaldi, dovevamo svoltare per l’oratorio del Rosario e raggiungere la discesa e quindi il triangolo degli artigiani. A sinistra, in un grande stanzone operava di sega, di pialla e di martello tiu Giuannandria, soprannominato Tebachèra, fratello maggiore di mio padre. Il suo parlare urlato, per sovrastare gli arnesi che adoperava, usciva dal laboratorio come il sibilo di una trombetta dai toni alti; sulla sua stessa linea, a sinistra, armeggiava, spesso cantando, tiu Tigelliu Mannu, nella sua bottega di fabbro, picchiando sul ferro bollente poggiato sull’incudine; quasi di fronte a lui, di tono più pacato e basso, veniva fuori all’improvviso la voce de tiu Dorando.
Nei giorni di riposo dal lavoro dei campi o specialmente il sabato, il triangolo dei tre artigiani si popolava di contadini. Molti dovevano sistemare le lame degli arnesi da tiu Tigelliu, per passare poi da tiu Tebachéra e dare a quei ferri un nuovo e più robusto manico, altri dovevano sistemare le scarpe chiodate malmesse o ordinarne un paio nuove dal pacato calzolaio tiu Dorando.
Il carpentiere urlava più di tutti, seguito a ruota dal fabbro: entrambi si scambiavano talvolta pungenti rime baciate in sardo, a volte litigavano, a volte s’ignoravano.
Mio padre ed io, avvicinandoci alla porta del laboratorio di mio zio, salutavamo, lui ricambiava, ma continuava a vociare e a verseggiare, con disappunto di mio padre che non amava quell’urlare sconsiderato del fratello maggiore. Prima gli sistemava gli arnesi e prima abbandonavamo il triangolo artigiano.
Io, talvolta, m’infastidivo dal fare scanzonato dei tre fratelli Tanda, ragazzini come me, che a parte due sorelline, non potevo certo competere a cazzotti con loro, a quanto pare di padre sorsese e avvertiti da me come estranei. Ricordai questo triangolo artigiano, studiando nelle scuole medie Il sabato de villaggio di Leopardi.
Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
e tutto l’altro tace,
odi il martel picchiare, odi la sega
del legnaiuol, che veglia
nella chiusa bottega alla lucerna,
e s’affretta, e s’adopra
di fornir l’opra anzi al chiarir dell’alba.
Si era oltre la metà degli anni Quaranta del Novecento ed io avrò avuto otto o nove anni e non potevo di certo immaginare che di lì a qualche anno un terribile uragano avrebbe spazzato via la mia famiglia e avrei perso anche la gioia di quei felici momenti del sabato del mio villaggio che i versi del Leopardi avrebbe richiamato alle mie rimembranze.
Già tutta l’aria imbruna,
torna azzurro il sereno, e tornan l’ombre
giú da’ colli e da’ tetti,
al biancheggiar della recente luna.
Or la squilla dà segno
della festa che viene;
ed a quel suon diresti
che il cor si riconforta.
I fanciulli gridando
su la piazzuola in frotta,
e qua e là saltando,
fanno un lieto romore;
e intanto riede alla sua parca mensa,
fischiando, il zappatore,
e seco pensa al dí del suo riposo.
Anche su Chiaramonti l’aria imbruniva e il cielo tornava azzurro, mentre sul campanile compariva la luna. Le campane dell’Ave Maria segnavano la fine del giorno e i fratelli Tedde, Tolis, Pisanu, le sorelle Ruju e altre ancora, correndo con una canna dietro i pipistrelli, facevamo “un lieto romore” nella piazzetta del retro-caserma, mentre i nostri padri rincasavano dai campi, spossati dalle fatiche.
E’ quasi inutile dire che seguivano immediatamente i richiami della mamme, per la ricca cena contadina frammista di verdure, legumi e un po’ di pasta: un succulento minestrone che avrebbe soddisfatto l’appetito dell’intero giorno.
Domitilla Mannu dice,
Custos ammentos de Angelinu sunt fintzas sos mios, nessi pro una bona parte. Su de b’aer postu in mesu sa poesia de Leopardi, unu de sos poetes chi apo amadu meda, b’ annanghet sentidos galanos de nostalgia pro sa pitzinnia, e pro unu mundu, chi cun ojos de oe, mi paret pius bonu e pius umanu de custu. Grascias a tie Angeli’ e saludos coriales. Domitilla Mannu