Era bella, colta ed emancipata. Il suo destino di grande donna, però, dovette pagarlo a caro prezzo. Si innamorò di Francesco, famiglia altolocata e provenienza da Gaeta, impiegato all’Ufficio del Registro in trasferta. Anche lui era preso, innamorato, appena ventenne, e per sposarla dovette vincere le resistenze della sua famiglia che voleva per lui un matrimonio migliore. I primi anni furono felici, ma presto iniziarono i problemi. Precisamente quando Nino (così fu sempre chiamato in famiglia Antonio), il quarto figlio, a diciotto mesi di vita manifestò i sintomi del suo male. Dolori alle ossa, una protuberanza sulla schiena, tremori e vomito. I medici lo danno per spacciato.
Praticamente da quel momento in casa arriva la morte e si ferma sulla soglia, pronta ad entrare, mentre l’angoscia di vivere con una spada che incombe sulla testa diventa il pane quotidiano. Giuseppina, chiamata da tutti Peppina, ne è sconvolta, ma non si dà per vinta, vive la cosa con grande dignità: se ne va a piangere in strada, di nascosto e semmai di sera, per non farsi scorgere dai figli, che intanto, nel frattempo, sono diventati sette. Il pensiero fisso di Nino malato, però, non l’abbandona. E lei non si rassegna, gli pratica essa stessa tutte le cure possibili, lo massaggia, lo strofina, ma con scarsi risultati. Unica sollevazione le viene dal rilevare la pronta intelligenza del suo bambino, unita alle inspiegabili riprese che si verificavano nel corpo del figlio dopo alcune forti crisi.
Per Giuseppina, però, quello che vive adesso è solo un anticipo delle disgrazie che dovrà sopportare. Per questioni e beghe politiche, Francesco viene prima sospeso dal lavoro e poi condotto in carcere, con l’accusa di peculato, concussione e falsità in atti d’ufficio.
Una insopportabile onta che infanga la famiglia. Ma i figli sono sette, e lei deve inventarsi qualcosa. Scarta subito l’ipotesi di chiedere aiuto alla famiglia del marito che potrebbe permetterselo ma c’è un ostacolo: in principio l’avevano rifiutata. Questo non è perdonabile. Da questi qua, quindi, non vuole niente. Allora tira fuori la vecchia Singer e via… tutto il giorno a cucire camicie e altri capi da vendere. Le bambine più grandi aiutano a stirare. Lei con grande dignità, accetta tutti i piccoli lavori che le vengono offerti per sfamare sette bocche; la sua, l’ottava è l’ultima e vive delle rimanenze, sempre poche. Qualche sera non solo lei, ma tutti insieme saltano la cena. Allora lei si inventa favole, racconti e fantasie e le propone al posto del cibo: con la sua fervida immaginazione regala ‘spazi di serenità’ a tutta la famiglia. Questi spazi saranno una costante nell’infanzia e nell’educazione dei suoi sette figli.
Il marito Francesco esce dal carcere e le ristrettezze e l’indigenza continuano. I soldi non bastano mai, ma quelli per far studiare Nino, pochissimi, lei riesce sempre a trovarli.
Poi il ragazzo vince una borsa di studio a Torino: frequenterà l’Università. L’orgoglio della madre alla sua partenza è misto all’angoscia di non vederlo più. Nino parte, a Torino si iscrive alla facoltà di Lettere. Ma il tempo per gli esami è poco. Studia, ma per sé, partecipa di più alle manifestazioni operaie, non ha neanche tempo per scrivere con continuità alla madre, che ne soffre. Le sue lettere la tenevano in vita, erano delle iniezioni di vitamine, erano il contatto subliminale, fisico e mentale, con il figlio amato. E mentre Nino fonda insieme ad altri il Partito Comunista d’Italia, lei, Giuseppina Marcias, costituisce il primo Circolo Femminile per diffondere nuove idee sull’emancipazione della donna, sulla cultura e sull’informazione. Tutto questo, partendo da un piccolo paese del centro della Sardegna.
Poi Nino diventa deputato al Parlamento. È impegnatissimo. In un ritaglio di tempo torna per qualche giorno in Sardegna ad abbracciare sua madre.
Pochi mesi di quiete seppure lontani dalla felicità (che sarebbe la salute del figlio e la loro vicinanza) e la vita di Peppina viene di nuovo sconvolta: Nino è messo in carcere dal fascismo. Il dolore e il suo chiodo fisso, il suo cruccio, sarà quello di non comprendere perché Nino sia stato incarcerato. Non riesce a capire, non sa che fare, non sa che cosa dire. Un figlio in carcere senza un perché…per lei è troppo. Non comprende, non trova le parole, né riesce a combattere contro questa ennesima prova della vita. Una prova che, a questo punto, lei sente solo come una profonda ingiustizia.
Insieme alla figlia Teresina manda in carcere a Nino pacchi con i suoi cibi preferiti, che diventano il suo unico sollievo, il suo unico contatto, oltre le lettere che madre e figlio ora si scrivono di più. E che alimentano tutti e due. Giuseppina perché il contatto con il figlio la mantiene in vita, per Nino, invece, le parole scritte dalla madre gli permettono di rivivere i sapori, i profumi della sua terra, insieme alla rievocazione dei momenti di felicità della sua infanzia. Poi, Peppina soccombe, non si alza più dal letto, non rivedrà mai più il suo Nino. Muore il 30 dicembre del 1932.
Nino scriverà a sua sorella Grazietta queste parole:
‘La sua vita è stata esemplare e ci ha mostrato quanto valga la pertinacia per superare le difficoltà che sembravano insuperabili anche a uomini di grande fibra. Ha lavorato per noi tutta la vita sacrificandosi in modo inaudito, se fosse stata un’altra donna chissà che fine disastrosa avremo fatto tutti fin da bambini, forse nessuno di noi sarebbe oggi ancora vivo’.
Nino gli sopravvive di cinque anni e muore nel 1937, in ospedale, tra enormi sofferenze, crudelmente impedito di curarsi dal fascismo.
Peppina, da donna emancipata sarebbe stata fiera di essere stata la madre di Nino, uomo dalla mente libera e partigiano della libertà di tutti. La madre di uno dei più grandi intellettuali vissuti nel Novecento.
Lettera di Nino Gramsci alla madre Giuseppina
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Carissima mamma,
sto per partire per Roma. Oramai è certo. Questa lettera mi è stata data appunto per annunziarti il trasloco. Perciò scrivimi a Roma d’ora innanzi e finché io non ti abbia avvertito di un altro trasloco.
Ieri ho ricevuto un’assicurata di Carlo del 5 maggio. Mi scrive che mi manderà la tua fotografia: sarò molto contento. A quest’ora ti deve essere giunta la fotografia di Delio che ti ho spedito una decina di giorni fa, raccomandata.
Carissima mamma, non ti vorrei ripetere ciò che ti ho spesso scritto per rassicurarti sulle mie condizioni fisiche e morali. Vorrei, per essere proprio tranquillo, che tu non ti spaventassi o ti turbassi troppo qualunque condanna siano per darmi.
Che tu comprendessi bene, anche col sentimento, che io sono un detenuto politico e sarò un condannato politico, che non ho e non avrò mai da vergognarmi di questa situazione.
Che, in fondo, la detenzione e la condanna le ho volute io stesso, in certo modo, perché non ho mai voluto mutare le mie opinioni, per le quali sarei disposto a dare la vita e non solo a stare in prigione. Che perciò io non posso che essere tranquillo e contento di me stesso. Cara mamma, vorrei proprio abbracciarti stretta stretta perché sentissi quanto ti voglio bene e come vorrei consolarti di questo dispiacere che ti ho dato: ma non potevo fare diversamente.
La vita è cosí, molto dura, e i figli qualche volta devono dare dei grandi dolori alle loro mamme, se vogliono conservare il loro onore e la loro dignità di uomini.
Ti abbraccio teneramente.
Nino
Ti scriverò subito da Roma. Di’ a Carlo che stia allegro e che lo ringrazio infinitamente.
Baci a tutti.