“Giovanni Andrea Tedde, (Chiaramonti 1906-1990) a trent’anni dalla scomparsa” di Ange de Clermont
Giovanni Andrea Tedde (Chiaramonti,1906-1990), conosciuto in paese col soprannome paterno di Tebachéra, fu l’unico zio paterno che ebbi. Quando rimasi orfano mi fece anche da tutore.
Lo conobbi fin da fanciullo anche se lui abitava in Via delle Balle, che preferisco chiamare Carruzzu de Ballas, nell’antico borgo ai piedi del fu castello dei Doria, mentre noi abitavamo in via Garibaldi, ora via Leopardi, alle pendici del Monte Codinarasa.
Presumibilmente nacque anche lui in Via Garibaldi nel 1906 dopo la nascita nel 1901 della sorella Filomena, nel 1903 dell’altra sorella Antonia, morta da signorina. L’anno successivo alla sua nascita, nel 1907, il padre Giovanni Matteo, noto Matteo s’imbarcò, con un centinaio di compaesani, da Genova per il Panama, per lavorare all’apertura del Canale omonimo ad opera degli statunitensi, mettendo a rischio la pelle, a quanto scriveva il quotidiano La Nuova Sardegna dell’epoca, non senza aver provveduto prima, per la terza volta, ad ingravidare la moglie Chiara della terza figlia, Maria Lucia, che nacque nel 1908 mentre egli lavorava in Panama.
Chiara Soddu (1873-1963), era più anziana di lui di due anni. Da notare che mia nonna era una brava tessitrice per sua buona fortuna, dal momento che il marito, figlio unico, gia Regia Guardia di Finanza, preferì sempre con la scusa del lavoro, andare e tornare all’estero. Zio, parlandomi di lui, mi disse che andò per qualche anno anche in Francia, ma non seppe indicarmi il periodo.
L’aveva sposata subito dopo essersi congedato da guardia di finanza il 30 dicembre dell’anno santo 1900, reduce da Tolmezzo nel Friuli, dopo essere stato prima a Maddaloni, in provincia di Caserta, per la scuola degli allievi e poi a Varese e a Roma. Da lì era stato spedito a Tolmezzo dove, terminato il periodo d’ingaggio, preferì congedarsi.
Zio Giovanni Andrea passò la sua infanzia e adolescenza con un padre che compariva e presto scompariva, dal momento che dal Panama, nel 1910 ritornò ancora per ingravidare la moglie dalla quale nacque mio padre Angelino e poi ancora per ripartire.
Mio padre nacque il 25 aprile del 1911 e sicuramente fu ben voluto dalla sorelle Filomena, Antonia e Maria Lucia e dal fratello Giovanni Andrea che alla sua nascita aveva 5 anni, a parte qualche mese visse anche lui più con la madre e con le sorelle più che col padre Matteo.
Zio sortì indole giocosa, mio padre piuttosto malinconica. L’eccessiva euforia di zio Giovanni Andrea contrastava con la perenne malinconia di mio padre.
E’ risaputo che il Canale di Panama fu ultimato nel 1913 e mia nonna, forse perse la pazienza con questo marito sempre in fuga, gli mandò 200 lire per il viaggio di ritorno, per conoscere il suo ultimo nato che aveva compiuto i 5 anni e che ancora non aveva conosciuto il padre.
Nonno Matteo tornò giusto per obbedire a nonna, ma una volta conosciuto il figlio ultimo nato, ripartì di nuovo non si sa con quale scusa, dal momento che il Canale come abbiamo detto sopra era ultimato benché sia stato inaugurato nel 1920.
Probabilmente nonno Matteo voleva sottrarsi al richiamo in guerra dal momento che l’Italia il 24 maggio del 1915 entrò in guerra.
Zio Giovanni Andrea, ormai alle soglie dei dieci anni, continuò a crescere in compagnia del fratellino di cinque anni. Può darsi che frequentasse già come apprendista maestro d’ascia la bottega di maestro Antonio Casu per apprendere il mestiere.
Nel dicembre del 1917, mio nonno, forse sicuro che la guerra volgesse alla fine, rientrò in paese, a quanto pare con un bel gruzzolo, ma fu subito richiamato dal Corpo della Regia Guardia di Finanza per tutti gli undici mesi della durata della guerra che terminò nel novembre del 1918. L’uomo aveva 42 anni e non credo che sia stato spedito in prima linea, presumibilmente lo misero a fare la guardia di confine.
Per fortuna scampò oltre che dal fuoco nemico anche dalla spagnola e finalmente rientrò a casa definitivamente nel novembre del 1918.
Essendo legato al compare Nicola Baravaglia di Ozieri, padrino di mio padre, accettò di fare il mezzadro presso la località Teriales dove impiantò in breve tempo un’azienda agro-pastorale esemplare secondo le testimonianze di Maria Denanni vedova Schintu:
– Era un’agiata famiglia agro-pastorale. Allevavano pecore, capre, coltivavano i cereali, l’orto e un frutteto oltre ad alcuni suini e ad altri animali da cortile. Coltivavano anche il lino, perché Chiara Soddu aveva un bel telaio ed era una brava tessitrice. Vicino al fiume c’era la possibilità di tenere il lino (che era una pianta bella a vedersi), appena raccolto, doveva macerarsi nelle vasche d’acqua, filato nei fusi, quindi lavorato al telaio. La famiglia era numerosa a partire da tua nonna e tuo nonno Giovannui Matteo Tedde, seguivano le figlie e i figli: Filomena, Giovannandrea, Antonia, Maria e da ultimo tuo padre, Angelino. Tutti grandi e piccoli davano una mano.-
Finalmente zio Giovanni Andrea che dalla nascita era vissuto con le sorelle e poi col fratello a 12 anni cominciò a lavorare accanto al padre che aveva smesso di andare e tornare dall’estero.
Zio era esuberante e aveva preso l’abitudine di improvvisare in sardo con versi in rima baciata sia quando accudiva al bestiame, pecore e capre e buoi, sia quando scherzava con gli amici dei poderi vicini tra i quali i Murgia-Berchiddesu che accudivano al loro bestiame più a monte de Sas Baddes nei poderi dei Madau di cui Teriales era un’appendice interna scendendo a valle.
Questa famiglia Murgia era composta da Antonio Maria Murgia detto su Birchiddesu (1875-1958), sposato con Maria Leonarda Uneddu (1875-1919) che viveva con la moglie e sei figli: Giovanna Maria del (1903-1992), coetanea di zia Antonia, Giovanni Maria (1905-1981), Domenica del (1908-1935), coetanea di zia Maria Lucia, Giovanni (1914-1951), Maria Giusta (1910-1957).
Nei rapporti con i Murgia, mano mano che zio si faceva giovinetto era stato colpito da Domenica, una bella e operosa figlia di Antonio Maria su Berchiddesu, che sovente scendeva al fiume per lavare i panni e alle sorgenti con l’anfora per portare nella casa colonica l’acqua da bere. Zio Giovanni Andrea da me intervistato mi parlò di incontri furtivi con cui aveva modo di parlare con la ragazza della quale si stava innamorando e per la quale sapeva comporre versi d’amore.
Ma torniamo a nonno Giovanni Matteo.
La gioia di godersi il padre da parte della famiglia e di zio non durò molto perché nell’estate del 1925 fu colpito nell’aia da una trombosi cerebrale, dovette tornare in paese paralitico nella parte sinistra del corpo e due anni dopo nel 1927 ebbe a morire.
Zio Giovanni Andrea aveva compiuto 21 anni, e rimasto in campagna, dopo la morte del padre, si sposò con Domenica Murgia. Mio padre Angelino aveva compiuto i 16 anni mentre zia Filomena di 26 era già convolata a nozze col bolotanese Bachis Ortu, calzolaio, occupando il piano sopraelevato della casa a lei dovuto nella divisione dei beni in Via Garibaldi.
Zio Giovanni Andrea conduceva l’azienda a Teriales con la moglie Domenica Murgia ed ebbe da lei 3 figli: uno gli morì ancora infante, gli altri due, Antonio, detto Tonino, e Emidio Chiaro allietarono i coniugi.
La sua felice vita coniugale con questa prima moglie non durò molto perché, dopo aver messo al mondo l’ultimo dei tre figli, morì e così a 27 anni zio si ritrovò vedovo con tre figli piccoli da allevare. Lasciata la vita dei campi e trasferitosi in paese cominciò a svolgere la sua attività di carpentiere, ma contemporaneamente dovette nuovamente risposarsi vista la tenera età dei tre bambini. Finì per sposarsi con la giovanissima diciasettenne Maria Antonia Gallu, nota Antonina, che provvedeva già a tenergli i figli viventi, Tonino ed Emidio avuti dalla prima moglie.
Zio Giovanni Andrea, perseguitato dalla sfortuna, rimasto vedovo a 27 anni, fu quasi costretto a cercarsi moglie che pare avesse trovato a Osilo, ma siccome l’aspirante sposa non voleva schiodarsi da Osilo, la lasciò e si sposò con la giovane Maria Antonia Gallu, detta Antonina, di dieci anni più giovane di lui essendo nata nel 1916, che come abbiamo detto badava già ai figli ancora infanti.
Abbandonò Teriales si dedicò alla carpenteria. Prima nella stessa via delle Balle e successivamente in una bottega di Via Rosario che si apre nella discesa che passa presso l’oratorio del Rosario dove avevano le loro botteghe il calzolaio Gavino Vincenzo Satta, noto Dorando, il fabbro Tigellio Mannu e più in là il falegname Antonio Casu, suo maestro e il fabbro cantatore di chitarra Paolo Deriu, maestro di canto e chitarra di Tigellio Mannu.
Il crocevia ebbi modo di frequentarlo con mio padre nei brevi periodi in cui non era ricoverato all’Infermeria Presidiaria di Sassari e ufficialmente sotto le armi. Stare a osservare gli artigiani mi divertiva un mondo. Da studente ginnasiale, a contatto con le poesie di Leopardi, capii che senza saperlo ero vissuto nel “sabato del villaggio”.
Zio Giovanni Andrea lavorava il legno e dava assistenza ai contadini e ai proprietari dei terreni che avevano i primi la necessità di buoni manici per gli arnesi del mestiere e i secondi di cancelli per i loro tancati. Zio Tigellio Mannu, del quale a 27 anni sposai la nipote, provvedeva a fornire ferri nuovi o a tenere più affilati i ferri e spesso a ferrare i cavalli, mentre zio Dorando sistemava le scarpe messe male degli stessi contadini.
Tra loro discutevano ad alta voce e talora ci scappavano i soliti contrasti d’opinione che presto si placavano.
Zio non perdeva l’abitudine di lanciare versi a rime baciate verso chiunque gli capitasse a tiro e naturalmente gli altri due lo rimproveravano quando esagerava. Di questi versi ne ricordo uno, in particolare, rivolto a chi metteva mano ai suoi ferri:
Ista frimmu e chietu
s’oju che. i s’achetu
che. i s’achetu s’oju
ti gitana a forroju.
Non li traduco perché in italiano non avrebbero la resa della lingua sarda.Alcuni nomi li ho cambiati per ovvie ragioni di privicy.
Quando passava per le strade lanciava versi alle ragazze, tipo questo assai famoso,
Nietta Nietta mesa libera ‘e petta,
bene umbuttida e chibera
de de petta mesa libera
t’intret in sa zuffetta.
Un suo cugino in vena di versi un giorno gli lanciò questi versi:
Giuannandria Tebachéra,
tue ses s’arga de tota sa garrela.
Zio di rimando
E tue ses Barosso, su grande corrudone ‘e Sassu Giosso.
Lasciato il seminario dopo la maturità classica, un giorno mi vide in via San Matteo con un nugolo di ragazze e mi lanciò questi versi
Nebode nebode meu,
cantu primu fisi religiosu
como ses diventadu fiagosu;
ista attentu chi non ti punet Deu.
Infine, poiché, dopo aver dato “ampria manu” alla giovane e riottosa seconda moglie che pure gli diede tre figlie e due figli: Maria Domenica, Giovannina, Chiara; Pietro e Mario e a volte questa lo chiudeva fuori casa per dispetto, zio si adirava davvero e allora le lanciò questi versi che coinvolsero, gl’incolpevoli parenti della moglie dei quali abbiamo cambiato per ovvie ragioni i connotati:
Frades puddos razza male
de familia numerosa
mai puddos apo tentu
in tota sa vida mia
e oe so frunidu e reduidu
a s ‘iscammentu!
Era solito scrivere su quaderni anche lunghe composizioni, ma la moglie pur essendo analfabeta, visto che talvolta coinvolgeva compaesani e compaesane glieli strappava senza misericordia.
Ne componeva tanti altri, ma generalmente piuttosto lascivi e non sarebbe corretto pubblicarli qualora si rintracciassero.
Sa notte e su treattu male este andadu su ballu,
su connadu de Antoni Gallu pro anzone ha cottu un’attu.
De sa beffa c’ana fattu Peppe Moro s’est atzadu,
Caccidda s’est cojuadu cun Bittoria Cattola.
Pedrantoni su becchinu bi fidi in sa briga issoro.
Bil’intrat Peppe Moro cun d’unu corru lanzinu,
chi essidi in su caminu che caveddu ostuladu,
Caccidda s’est cojuadu cun Bittoria Cattola.
La sua giornata era movimentatissima. A volte scendeva in vigna a Bidda Noa alle prime luci dell’alba per innaffiare l’orto, poi dalle 10 lavorava nella bottega artigiana, quindi scendeva nuovamente nella vigna e risaliva nel pomeriggio per aprire la bottega. Le sue giornate erano imprevedibili e non si fermava manco a Pasqua e a Natale.
Spesso era costretto a fare il giro della clientela per farsi pagare. Passando per le strade lanciava i suoi versi osceni rivolto a qualche donna o donzella, che però ci ridevano sopra!
Zio era una specie di Burchiello del paese, vale a dire quel poeta quattrocentesco fiorentino che associava versi non sempre sensati purché colpissero le persone verso cui erano indirizzati. Burchiello fu costretto a fuggire da Firenze e zio a leggere a pochi amici i versi e le composizioni ingiuriose e maldicenti.
Curava il mezzo ettaro di vigna che aveva ereditato nella località valliva di Bidda Noa. Piantava la vigna e possedeva “su laccu” scavato nel tufo per fare il mosto e imbottigliare il vino. Da una parte della vigna curava il frutteto con una varietà di mele squisitissime, mentre dalla parte opposta aveva tre grosse piante di quasi centenari fichi da cui oltre a mangiarli freschi faceva anche i fichi secchi. Non mancavano le mele cotogne e le susine gialle dette limoninche. All’ingresso della vigna, nella sinistra mi ripeteva sempre:-Questo pero lo ha piantato mio padre.-
Altra grande cura di zio era quella di mettere nel solaio di legno della sua camera da letto come provvista invernale uva, mele cotogne e mele gialle in mezzo alla paglia. D’inverno saliva nel solaio e tirava fuori questo ben di Dio. Curava anche l’allevamento del “mannale” dalla cui mattanza ricavava lardo abbondante, salsiccia e sanguinaccio che i figli e quando capitava i nipoti gustavano volentieri.
Una volta l’anno attaccava l’asino al carretto, in una strada impercorribile, per portare in vigna delle mercanzie e riportarlo carico di legna.
Ha lavorato come boscaiolo coi Brizzi di Ploaghe. Nel secondo dopoguerra i figli e le figlie sono emigrate a Varese e lui periodicamente andava a trovare un pò tutti.
Io vissi in casa sua con le mie due sorelline per qualche settimana dopo la scomparsa dei miei genitori e poi ci collocò in collegio non potendosi accollare oltre ai sette figli anche noi, ma periodicamente veniva a trovarci w a sui tempo diede l’assenso per l’asozone della sorella minore.
Anche i suoi figli emigrarono per lavoro a Varese, ma due tornarono presto a casa per mandare avanti la bottega di carpentiere che si era modernizzata con macchinari nuovi e di grande aiuto nel lavoro.
Raggiunti gli 80 anni, recandosi in vigna col suo asinello, avuta una trombosi, riuscì a farsi riportare a casa in basto all’asinello e passò gli ultimi anni della sua vita assistito dai familiari. Un giorno andai a trovarlo. Aveva smarrito quel suo consueto buonumore e per farlo sorridere gli lanciai questi versi
Giuanne Andria Tebachéra
ses liju che. i sa chera
e frittu che. i sa iddia
Tebachéera Giuannandria.
Mi sorrise mesto, non passarono molti mesi e scomparve non senza aver chiesto di me.Quando giunsi, cinque minuti dopo il decesso, gli recitai l’ufficio dei defunti.
Ogni volta che visito il Camposanto non manco mai di fargli una visita e recitargli un requiem. La moglie di una vita, Antonina, morì sette anni dopo di lui.
Anche il figlio Emidio ereditò le qualità poetiche del padre che lo aveva soprannomato Leone per la forza che dimostrava. Ma quando qualche estraneo lo chiamava col soprannome che gli aveva appioppato il padre, lui rispondeva:
Deo non so né leone e né pantera
deo so su fizu ‘e su grande Tebachéra!
Non fu un notabile del paese mio zio, ma rappresentò la parte briosa dei chiaramontesi che generalmente sono seri e non amano gli scherzi, si sarebbe trovato meglio se fosse vissuto in Toscana o nelle Marche. Certo è che non passò ignorato dai suoi contemporanei che vissero la loro stagione variegata che va dall’epoca giolittina a quella postbellica della Grande Guerra, al Ventennio fascista al secondo dopoguerra e alla ricostruzione che vide mano mano svuotarsi il paese per il grande flusso migratorio che portò molti sardi all’estero, nell’Italia settentrionale, dove emigrarono figlie e figli e lo sviluppo sociale ed economico della Sardegna con infine un misurato benessere.
Morto a 84 anni fu il più longevo dei maschi del nostro ramo dei Tedde, che non ebbero lunga vita e che morirono quasi tutti non oltre il mezzo secolo, soltanto la sorella Maria Lucia, sposata a Nulvi scomparve all’età di 87 anni.
Per lei, assente al funerale del fratello, zio scrisse una lunga composizione poetica che si è persa, di cui ricordo i primi due versi:
Sorre mia istimada
ammentadi de frade tou
su sambene non est brou
e ne abba buliada.
Sorre mia istimada.