“Le vacanze estive a Lu Bagnu” tratto da “Le ragazze del Rifugio Gesù Bambino si raccontano” di Eleonora Ortu
Eleonora Ortu, Le Ragazze del Rifugio Gesù Bambino si raccontano, Edes, Sassari, 2017 pp. 265
Riprendiamo a pubblicare i passi più salienti del lavoro succitato in cui l’autrice racconta la vita di collegio che va dagli anni sessanta agli ottanta del novecento. Il libro è corredato di fotografie ormai storiche essendo trascorsi dagli anni d’inizio a quelli della fine ad oggi circa sessant’anni (1960-2020). Si tratta di un’autobiografia narrata e non certo di una serie di affermazioni apodittiche sia sul collegio sia sulle Dame della Carità amministratrici sia sulle Figlie della Carità educatrici. Il racconto è avvincente e le immagini sono suggestive. (Angelino Tedde)
Quando ero nella sezione di S. Giovanna per andare al mare si facevano i turni. Essendoci al rifugio quasi 150 ragazze, la colonia non aveva i locali e arredi sufficienti per ospitarci tutte. Il primo turno partiva appena finivano le scuole e rientrava a metà luglio per far posto al secondo turno che rientrava poco prima dell’inizio delle scuole. I preparativi per poter andare in colonia erano principalmente di natura sanitaria, bisognava fare i “raggi” al torace, per cui ogni suora di sezione portava le sue bambine/ragazze in via Amendola dove c’era un camion parcheggiato all’interno dell’ex istituto di igiene e ad una ad una ci facevano la radiografia. Per tre giorni ci davano una pastiglietta celeste dal sapore dolciastro che io succhiavo piano piano, con parsimonia, per assaporarla meglio, era la vaccinazione antitifica.
Quando ero nella sezione di S. Rosalia alcune di noi andavano a fare le pulizie in colonia, per prepararla all’arrivo delle altre ragazze/bambine, ci stavamo 4/5 giorni e il momento più bello, generalmente prima di pranzo, era quando S. Rosalia ci permetteva di scendere da sole in spiaggia a fare il bagno.
Il giorno della partenza dovevamo disfare i letti, fare il sacco che consisteva nel mettere all’interno della federa del cuscino le lenzuola per poi portarle in lavanderia. L’aria era frenetica, piena di eccitazione e di gioia, ognuna preparava le poche cose che aveva e le metteva nelle grandi valige, S. Rosalia non voleva che portassimo i giochi in colonia, ma noi facevamo di tutto pur di portarli di nascosto.
Dopo pranzo tutte le bambine che dovevano partire si mettevano nel lungo corridoio, dove stava la campana, per prendere le mentine che suor Chiara ci dava. Ogni bambina riceveva un flaconcino, di quelli che un tempo contenevano le compresse dei farmaci, e all’interno tantissime mentine colorate che la gran parte di noi mangiava quasi subito (adesso mi domando, ma suor Chiara per avere tutti quei contenitori di pastiglie a chi li chiedeva)?
Corridoio del rifugio dove s. Chiara ci dava le mentine prima di partire in colonia, in alto sulla sinistra vicino alla porta si vede anche la campanella che suonava per farci ballare.
Per portarci in colonia suor Mameli affittava un pullman tutto per noi e una volta salite iniziavano i bisticci perché tutte volevamo stare vicino al finestrino. Le suore prima di partire ci facevano recitare la preghiera raccomandandoci di non mettere la testa fuori dal finestrino perché un ostacolo improvviso poteva tagliarcela, poi ci davano una busta per il rigurgito, una che vomitava sempre era Maria Rosa. Durante il viaggio cantavamo a squarciagola tutte le canzoni che conoscevamo (voglia di mare era la più gettonata), comprese quelle religiose, povero autista costretto a sopportare tutte quelle scalmanate per quasi un’ora, chissà che sospiro di sollievo quando ci scaricava a destinazione. Mentre cantavo a squarciagola la voglia di mettere la testa fuori dal finestrino per godermi meglio il paesaggio e per sentire il vento tra i capelli era tanta, ma la paura di perdere la testa era più grande per cui evitavo di sporgermi troppo. Il pullman si fermava davanti alla colonia e le suore avevano il loro bel daffare per cercare di trattenerci per evitare di finire sotto le poche macchine che passavano.
All’epoca, anni 60/70, a Castelsardo il mezzo di “locomozione” che andava di moda era l’asino, davanti alla colonia c’era una fontana e spesso i contadini carichi di frutta e verdura, raccolta dalle proprie campagne, si fermavano ad abbeverarli. Ricordo il loro raglio incessante che noi ragazze avevamo l’abitudine di imitare compreso lo sbuffo finale “brrrr”. Anche noi in colonia avevamo un asino che era del primo bagnino che io ricordi, zio Titino, che lo usava come mezzo di salvataggio, legandogli la cima di corda sulla groppa, mentre l’altra sommità la gettava in mare sperando che il malcapitato l’afferrasse per poterlo salvare. Io gli stavo a debita distanza per paura che mi sferrasse qualche calcio, Teresa Dore invece aveva l’abitudine di accovacciarsi sotto la sua pancia mentre si ciucciava il pollice.
Arrivate in colonia ci facevano sedere sul muretto del cortile e per cena ci davano pane e salame con dei pomodori e poi a letto presto per riprenderci dall’emozioni della giornata.
Muretto dove mangiavamo appena arrivate e dove giocavamo alle 5 pietre o a carte
La colonia della mia infanzia era bellissima, la facciata, sulla strada principale, è rimasta invariata, ed ‘è la più bella fra tutte quelle che ci sono a Lu Bagnu, con le sue finestre allungate che la fanno somigliare ad una chiesa, con l’imponente statua di San Giuseppe al centro che le ha dato il nome.
La colonia inizialmente era di proprietà delle suore, poi suor Mameli, l’aveva donata all’amministrazione, per curarla e ristrutturala e per permettere alle bambine di passarci le vacanze estive. Questa precauzione non è servita a niente perché adesso è in completo stato di abbandono con gli escrementi degli uccelli e i calcinacci sparsi ovunque, l’attuale amministrazione non l’ha più ristrutturata, ma continua a portarci le bambine.
All’ingresso c’era un grande viale di circa 200 metri che portava al mare e che Pasqualino, marito di Piera C. (ragazza interna) percorreva in macchina a tutta velocità, con noi dentro che urlavamo di gioia e paura, per poi frenare bruscamente in prossimità di un piccolo promontorio che noi chiamavamo il monte. Non oso immaginare il volo che avremo potuto fare se disgraziatamente i freni si fossero rotti.
La facciata interna iniziale era bellissima, c’erano due grandi portici adiacenti l’uno all’altro, con grandi archi (tre, quattro) ciascuno. In uno confinava una piccola cappella, per questo veniva usato o per le funzioni religiose o ritrovo quando il tempo era brutto. L’altro portico invece, confinava con una stanza dove c’era un lavandino, che io usavo spesso per bere l’acqua salmastra, a mio avviso buonissima, che veniva erogata dai due rubinetti. E un grosso serbatoio in eternit sempre pieno d’acqua.
Questo portico veniva usato come refettorio dalla sezione delle mezzane inizialmente e poi per riposare dopo pranzo. In entrambi i portici nella parte interna davanti agli archi, lungo tutto il muro c’era una panchina in pietra, dove una volta suor Giovanna ci era salita, al volo, per sfuggire ad un piccolo topolino che aveva avuto l’ardire di gironzolare lì intorno, e che prontamente era stato ucciso con una scopata da una ragazza più grande. Tra i due portici c’era una grande scalinata che portava ai dormitori e che noi ragazze, spesso la sera dopo cena, la usavamo per sederci raccontandoci le nostre storie, con gli uccelli di Sant’Antonio, (grandi falene) che ci giravano intorno attirati dalla luce e dal profumo delle piante che stavano ai lati. Sopra i grandi portici c’era un grandissimo terrazzo che si affacciava sul mare, dove noi piccine stavamo la mattina dopo colazione, mentre le più grandicelle pulivano, in attesa di scendere in spiaggia.
Ricordo l’odore del fumo, credo di stoppie bruciate, che da adulta ho sentito raramente, ma che ogni volta mi riportavano sul quel terrazzo. Per accedere al terrazzo c’era una scalinata adiacente al portico dove mangiavamo. Questo collegava anche un altro dormitorio, che per la sua forma particolare veniva chiamato il “cassettone”. Sopra il “cassettone” c’era un altro terrazzo dove venivano messi i fichi a seccare, il cui unico accesso era dall’interno dei dormitori del secondo piano della struttura principale. Su questo terrazzo si affacciavano due piccole finestre di due piccolissimi bagni, composti solo da un water ciascuno. Un giorno mi ero affacciata alla finestrella e avevo visto una suora (del continente che veniva a farsi le vacanze da noi), che prendeva il sole a seno nudo (li ho capito finalmente che le suore erano femmine). In un attimo ho dato “l’allarme” a tutta la colonia gridando:
–C’’è una suora a titte nude, c’è una suora a titte nude!-
Sotto il cassettone c’erano due stanze una che si affacciava sul cortile, dove c’erano gli armadi contenenti il guardaroba estivo della mia sezione e l’altra, che si affacciava al viale dell’ingresso principale, che fungeva da dispensa e da dove noi rubavamo le angurie per mangiarcele di nascosto sotto gli alberi.
Tutti questi caseggiati si affacciavano sul cortile interno, con il pavimento in sabbia. Nella parte priva di caseggiati si trovava un muretto dove noi bambine a cavalcioni su di esso, giocavamo alle 5 pietre, qui si trovava e si trova tutt’ora una panchina in pietra, dove sulla spalliera è raffigurata con delle piccole pietre, la facciata principale della colonia.
Come accennato prima, il caseggiato principale era composto prevalentemente da dormitori, in quello al piano terra dormivano le mezzane, mentre in quello del secondo piano le grandi e in fondo a tutti c’era il dormitorio delle suore che venivano a farsi le vacanze. Tutti questi dormitori erano comunicanti l’uno con l’altro.
Il giorno dopo l’arrivo in colonia, la prima cosa che facevamo, la mattina appena alzate, aprendo le finestre era quello di controllare se il mare fosse calmo, facevamo colazione alle 8.30 e dopo aver fatto le pulizie si scendeva in spiaggia, qui lasciavamo la nostra roba, ordinata sopra una roccia.
In spiaggia il custode aveva preparato una tettoia che doveva proteggerci dal sole cocente, ma che noi non usavamo mai. I primi tre giorni per noi bambine erano un tormento, perché non potevamo fare il bagno, (non ho mai capito il perché, so solo che rischiavamo di andare incontro a non so quale pericolo per via della pastiglia antitifica che ci avevano dato tre giorni prima).
Per me che ho sempre adorato il mare, quella imposizione non mi piaceva affatto, per cui trovavo tutti i modi possibili e immaginabili per riuscire a farmi il bagno, inventando poi delle scuse che mi giustificassero con la suora tipo, “sono scivolata” “Grazia mi ha bagnato” “è Arrivata un’onda molto grossa che mi ha bagnato” e così via.
Finalmente dopo il terzo giorno, alle 11, potevamo fare il bagno e quando da lontano avvistavamo il bagnino, l’agitazione che ne scaturiva gridando “è arrivato il bagnino, è arrivato il bagnino”, era tantissima, facendoci correre verso di lui per non perdere neanche un secondo dal nostro ingresso in acqua. Da bambina erano due le vasche dove potevamo fare il bagno una piccola e poco profonda per noi mezzane, e una più grande, dove a volte non si toccava per le più grandi. Nella piccola ci trovavamo a “nuotare” una trentina di bambine, ed essendo gli spazi molto ridotti spesso “tuffandoci” finivamo addosso alla compagna, che prontamente ci accusava da suor Giovanna. Io tutt’ora porto un segno una sorta di piccola gobba, per essermi tuffata incautamente, sulla parte superiore del naso sbattendolo su una roccia. Il tempo che stavamo in acqua per noi era sempre troppo poco, per cui anche al fischio con il fischietto che aveva il bagnino, facevamo le orecchie da mercante e finché, non ci prendeva fisicamente, per portarci fuori non uscivamo. Io personalmente, pur con le labbra viola dal freddo e la punta delle dita raggrinzite non ne volevo sapere di uscire dall’acqua, e appena il bagnino girava l’occhio, subito ne approfittavo per fare un ultimo tuffo. Tutta questa passione per il bagno era dovuta al fatto che quello era l’unico momento della giornata che potevamo sguazzare in acqua, perché la sera non ci era permesso.
Il costume che avevamo era unico, le piccine portavano una sorta di mutandone a fiori, mentre le più grande una sorta di sacco, fatto con la stoffa della divisa, di color grigio che lasciava scoperte le braccia e le gambe, quel tanto necessario. Il più delle volte era molto grande, per cui io mi ritrovavo con il costume di due tre taglie più grandi e che quando uscivo dal bagno, il peso dell’acqua che conteneva, mi faceva arrivare il cavallo del costume fino alle ginocchia.
Con l’arrivo di S. Rosalia il bagno si faceva in un’insenatura naturale molto più grande, da contenere tutte le sezioni e il costume iniziava ad essere più decente, inizialmente intero e poi a due pezzi.
La giornata in spiaggia passava velocemente, sia la mattinata prima del bagno che il pomeriggio lo passavamo pescando, armate di un coltello in ferro e un secchiello, frugando nella più piccola insenatura in cerca di granchi e polpi. Di granchi ne trovavamo sempre, ed eravamo bravissime a prenderli senza farci pizzicare le dita, questi venivamo mangiati rigorosamente crudi, mentre il polpo, quando capitava di individuarlo, al grido “un polpo”, “un polpo” accorreva tutta la spiaggia, e la competizione per cercare di catturarlo era tanta, perché solo la fortunata che riusciva a prenderlo, aveva il diritto di mangiarlo.
Per stanare il polpo ci aiutavamo con uno straccio o ciabatta, rigorosamente bianco, che passavamo davanti alle tane nella speranza che ne uscisse uno, quando questo avveniva lo afferravamo con le mani cercando di girargli la testa per renderlo innocuo. Questa lotta con il polpo spesso ci lasciava le braccia segnate dalle ventose dei suoi tentacoli. Una sorta di disegno a pois che facevamo vedere con orgoglio alle compagne per dimostrare tutto il nostro coraggio, più erano grossi i pois, più era grosso il polpo che ce li aveva procurati. Il mare adiacente la spiaggia dove stavamo, aveva l’acqua che ci arrivava poco più su delle caviglie e spesso con la bassa marea si ritirava completamente (le famose secche), mettendo in risalto le vasche e le tane dei granchi e polpi e noi stavamo ore e ore chine a scrutare l’acqua per individuare le nostre prede. Questa posizione continua ci faceva diventare la schiena nerissima “da negro zumbò” come usavamo definirci.
Suor Rosalia aveva un quaderno con la copertina nera, a mio avviso una sorta di scrigno magico, dove aveva scritto, giochi, canzoni, indovinelli, aneddoti e tant’altro che ci insegnava, fra i giochi oltre a quello della canna con la caramella, c’era quello della mela in una bacinella d’acqua, che noi a morsi dovevamo cercare di prendere. La sera dopo cena, faceva un tipo di giochi, a mio avviso un po’ pesanti, il gioco del cannocchiale consisteva nel far guardare la luna o le stelle attraverso la manica di un maglione, e mentre la malcapitata era intenda ad osservare il firmamento, le buttava una bacinella d’acqua dalla apertura della manica. C’era il gioco del confessionale, la ragazza che si offriva, doveva passare su una coperta stesa in terra per andare davanti alla suora che doveva confessarla, mentre lei camminava altre due ragazze, tiravano velocemente la coperta e la facevano cadere. Poi c’era il gioco del giudice, la ragazza veniva invitata a sedersi al centro, fra due ragazze già sedute in una “panca” coperta con una coperta e appena lei si sedeva (a sua insaputa in uno spazio vuoto) le due ragazze si alzavano di scatto facendola cadere malamente spesso sbattendo la schiena. Per fortuna, visto che nessuno apprezzava questi scherzi S. Rosalia non li fece più.
Quello che invece mi piaceva e che imparavo a memoria, era quando ci insegnava le canzoni come: la canzone del Piave, il capitan della compagnia, vecchio scarpone, campagnola bella e tante altre canzoni dei suoi tempi.
Spesso la sera, al chiaro di luna, ci raccontava di suo padre che aveva fatto la guerra, dei suoi fratelli e di tutto quello che combinavano e di lei, che nonostante fosse stata una bella ragazza, molto corteggiata, soprattutto quando andava a ballare, aveva scelto la strada della vocazione dando un grandissimo dispiacere alla madre perché era l’unica figlia femmina. Io ad ogni suo racconto mi immedesimavo nei personaggi delle sue storie, un giorno ero con il padre in guerra, un altro con il fratello mentre tirava con la fionda un sasso, colpendo il vetro di una finestra e così via.
Come già accennato, quando il tempo era brutto ci teneva impegnate portandoci a passeggio e più di una volta siamo andate a Castelsardo a piedi, sempre cantando, con le macchine e camion che sfrecciavano a pochi centimetri da noi.
Il bello dell’estate in colonia erano anche i vestitini colorati che ci dava ed io in particolare facevo il possibile per cercare di prendere il più bello.
Il caffellatte della colonia lo bevevo volentieri perché il latte era buonissimo, ce lo portava fresco, tutte le mattine, un pastore che abitava sulla strada per Tergu. Per pranzo mangiavamo tutto con appetito, fuorché il baccalà in scatola che a mio avviso era passato e faceva veramente nausea.
Subito dopo pranzo, quelle che non erano di turno nelle pulizie dei piatti o del refettorio dovevano andare a riposare. La pennichella pomeridiana la facevano sotto i portici coricate su delle piccole sdraio. Spesso dalle sdraio toglievamo l’asticella che teneva unito il telaio alla struttura in legno e la malcapitata, quando si sdraiava non avendo più il sostegno della tela, cadeva malamente a terra con il rischio di farsi molto male, soprattutto alla testa, se l’asticella tolta era nella parte superiore della sdraio.
Per me era un vero strazio cercare di dormire su quelle sdraio, con le mosche che camminavano sulle braccia e gambe nude, e che io tutta stizzita cercavo di cacciare via o di schiacciare con entrambe le mani. Signorina Pietrina stava in fondo, tra le due file in una sdraio più grande con gli auricolari ascoltando musica da un piccolo transistor.
Dopo il riposino, ci faceva fare i compiti e poi in spiaggia dove facevamo merenda, spesso pane e nutella e poi a pescare, ovviamente era vietato farsi il bagno ed io pur di bagnarmi spesso con la scusa di pescare un granchio da sotto una roccia, mi coricavo sull’acqua e se S. Rosalia non mi guardava mettevo la testa sott’acqua facendo finta di nuotare.
Quando salivamo dalla spiaggia dovevamo lavare il costume e l’asciugamano e siccome le vasche erano solo tre, anche lì litigavamo per avere la precedenza. L’acqua insaponata andava a finire in piccolo orto che aveva fatto il custode e nonostante il sapone, ricordo che le piante del basilico crescevano belle rigogliose.
Il sabato pomeriggio, prima di fare merenda, S. Rosalia ci faceva lavare la testa con lo shampoo, in mare. Inginocchiate davanti alle vasche dovevamo lavare solo la testa, ma io con la scusa che non riuscivo a sciacquarla bene entravo nelle vasche e mi facevo il bagno.
Dopo cena, la sera del sabato, sedute nel grande cortile, sbucciavamo le patate che S. Paola il giorno dopo friggeva per pranzo. Quante risate e quanti racconti campati in aria, ognuna di noi voleva dire la sua cercando di attirare l’attenzione di tutte.
La domenica se il tempo lo permetteva, la Messa veniva celebrata nel cortile ed io passavo tutto il tempo della funzione, osservando la tovaglia dell’Altare che svolazzava, e quando la brezza diventava più forte, la mia paura era che tutto ciò che c’era sopra volasse per aria, compreso il “corpo e sangue di Cristo”
La domenica era anche motivo di festa perché arrivava S. Mameli, e spesso portava con se la pellicola del film che guardavamo nel cortile con il proiettore che proiettava il video sul muro esterno del cassettone. S. Mameli andava via la domenica sera tutta felice d’averci accontentate.
Il Prete della Missione che celebrava la messa era lo stesso che faceva le vacanze da noi, a lui erano riservati dei locali adiacenti alla cappella e spesso venivano a trovarlo altri sacerdoti, ne ricordo uno che intratteneva noi ragazze facendo con le mani delle figure cinesi proiettando sul muro ombre di animali.
La gran parte delle sere Suor Rosalia ci portava a passeggiare lungo la strada e a noi si accodavano le ragazze più grandi seguite a distanza dal moroso. Tutte insieme cantavamo a squarciagola, incuranti dei passanti che ci guardavano meravigliati e con sgomento, le canzoni erano tantissime ovviamente quelle che preferivamo erano le prime in classifica all’Hit Parade.La sera precedente la partenza, S. Paola ci permetteva di prendere i coperchi dei pentoloni per usarli nella nostra festa di addio alla colonia, noi sbattendoli uno contro l’altro facevamo un gran baccano cercando di coinvolgere tutte.
Il momneto della partenza dalla colonia è sempre stato un momento triste, perché se ne andava via quella grande libertà che avevamo. I tre mesi di mare avevano sul mio fisico un effetto talmente benefico che difficilmente, durante l’inverno, prendevo l’influenza.
Il tram tram del Rifugio e il rientro a scuola avevano la meglio sui ricordi della colonia, con l’arrivo di S. i portici furono buttati giù per fare spazio ad un corridoio, anche il cassettone fu modificato e il terrazzo che c’era sopra eliminato, il suo posto fu preso da un grande atrio con delle grandi vetrate chiuse da mattoni a quadretti che ci toglievano le ampie vedute: sembravamo delle suore di clausura.
La vecchia cappella fu sostituita da una nuova più grande e le funzioni all’aperto non si fecero più. A suor Rottermayer nessuna bambina le correva incontro e il suo arrivo in colonia non era ben visto dalla gran parte di noi. Finirono anche i tempi del cinema all’aperto, il viaggio in pullman solo per noi e alla fine anche le gite per Pasquetta che ci faceva fare S. Mameli, ma l’unica cosa che non riuscì a toglierci è stata la luce di gioia che brilla ancora oggi nei nostri occhi ogni volta che ricordiamo quei tempi. Un epoca di spensieratezza era finita per sempre, molte di noi furono dimesse comprese le mie care amiche Tina e Grazia e con loro tante e tante altre.
Il collegio era la nostra casa dalla nascita e lasciarla ci pareva un evento assurdo.