Mauro Maxia: recensione di Les oiseaux sens plumes, di Anna Maria Sechi
ANNA-MARIA SECHI, Les oiseaux sens plumes, Strépy-Bracquegnies (Belgio), Ed. Le Livre en papier, 2017, pp. 230.
Questo libro di Anna Maria Sechi rappresenta il romanzo della sua vita ma anche delle persone che hanno condiviso tratti più o meno lunghi della sua vicenda. La scrittura è essenziale, priva di fronzoli, ma efficace. La trama è raccontata in presa diretta, quasi per fotogrammi, secondo uno schema spazio-temporale rettilineo. Da un punto di vista formale il volume si articola in 34 capitoli, per lo più brevi, che variano da una lunghezza di appena due pagine fino a una dozzina. I capitoli più brevi hanno la funzione di collegare dei momenti più importanti. Quelli più lunghi, invece, devono la loro estensione all’insopprimibile esigenza che spinge l’Autrice a descrivere fin nei minimi particolari le fasi più concitate e drammatiche di momenti fondamentali della sua vita. “Quando il padre di Anna-Maria lascia la natia Sardegna nel 1952 cerca di sfuggire alla povertà, alla miseria e alla mancanza di un futuro. Egli parte in avanscoperta in attesa che la sua famiglia lo raggiunga. Ma si confonde in un mare di lavoratori italiani che partono verso il Nord, verso il Belgio, per lavorare nelle miniere di carbone. Quando, qualche mese più tardi, al termine di un periplo in cui si mescolano il comico e il tragico, Anna-Maria in compagnia di sua madre e dei suoi fratellini giunge finalmente alla Terra Promessa si trova brutalmente di fronte a un mondo assai diverso da quello che lei ha conosciuto fino ad allora. La mancanza di sole e di luminosità del Nord, le condizioni degradanti nelle quali i minatori sono alloggiati, il terrore del lavoro in miniera: si capisce che quei lavoratori sradicati soffrono nel corpo e nell’animo. È in questo modo che inizia il racconto della vita di una famiglia sarda. Anna Maria fonda una famiglia per la quale si batterà coraggiosamente: aiutare suo marito a lasciare la miniera, trovare un impiego in una società che in lei non vede altro che una straniera e, ultima battaglia, si batte per salvare sua figlia affetta da una malattia allora poco conosciuta che finirà per portarsela via. Lei racconta questo lutto, ci mostra il suo coraggio e la sua ostinazione di donna semplice al cospetto di un ambiente scientifico che non le riconosce alcuna competenza ma che finirà per riconoscere il suo impegno e il suo lavoro. Questa è una storia di povera gente che lotta per una vita meno miserevole. Imperfetta ma sempre sincera, risoluta fino all’ostinazione, contrariata ma sempre generosa, Anna Maria Sechi non dà lezioni ma testimonia la sua storia in modo umile. E ci fa un regalo che aiuta a capire. Questo racconto mostra uno sguardo differente sulla storia dell’emigrazione in Belgio e ci spinge a riflettere sullo spazio che noi riserviamo allo straniero”. Questa sintesi riprodotta sulla 4^ di copertina offre un primo sguardo, privo di reticenze, sul contenuto del libro. Contenuto che tuttavia è assai più largo e profondo, che non è soltanto un resoconto sull’emigrazione dei sardi in Belgio durante il secondo dopoguerra né un semplice racconto delle pur difficili condizioni in cui si dibattevano allora gli emigrati e le loro famiglie. Questo libro è molto di più. Ha soprattutto il pregio di offrire dei quadri, crudi quanto si vuole, ma necessari sulla situazione di grande disagio economico che obbligava i sardi a fuggire da un’isola che offriva loro soltanto un incerto futuro di privazioni e miseria. Ma il libro non è soltanto questo. Esso è una testimonianza sofferta eppure minuziosa delle ansie e delle pene vissute da una donna che, ancor prima che donna, è stata bambina e madre. E lo è stata vivendo in prima persona la perdita del primo figlio durante il parto per imperizia del personale sanitario. Ma soprattutto lo è stata vivendo una tragedia immane come può esserlo solo una malattia incurabile che affligge per tutta la vita la sua seconda figlia fino a portarla alla morte prima ancora della giovinezza. È quasi impossibile per un lettore fornito di un minimo di sensibilità sottrarsi a un sentimento di forte condivisione. Per alcuni degli episodi raccontati si potrebbe parlare anche di “anatomia del dolore”. È qui infatti che Anna Maria raggiunge il punto più alto della sua capacità di descrivere il dolore. Dolore che è anche fisico quando riguarda particolari episodi di sofferenza. Ma che soprattutto è un dolore dell’anima quando la pur combattiva Anna Maria è costretta ad arrendersi ed accettare la dura realtà. Dolore dell’anima che lei sperimenta a lungo quando condivide l’angoscia della figlia Lucia che fin da ragazzina comprende che non può sfuggire a un destino che la crudele malattia ha già determinato. Il libro è anche un racconto della forza d’animo che Anna Maria riesce ad esprimere di fronte a una serie di ostacoli che avrebbero potuto fiaccare la resistenza della maggior parte delle persone. Il volume si apre con il netto rifiuto dell’Autrice rivolto all’ipocrisia dei politici italiani che nel 1979 si recano in Belgio a visitare gli emigrati italiani che per la prima volta erano chiamati a votare per eleggere il primo parlamento europeo. Politici che hanno la faccia tosta di affermare di sentirsi anche essi degli emigrati. Ma con l’enorme differenza che essi soggiornano a Bruxelles in una situazione colma di privilegi, cioè l’esatto contrario della situazione degli emigrati che hanno trascorso una parte della propria vita in miniera e che in gran numero vi si sono ammalati fino a morirne. Il racconto parte dai primi anni dell’infanzia, dai primi ricordi che l’Autrice ha della propria vita. La sua famiglia trascorre alcuni anni tra Macomer e Birori al seguito del padre che allora faceva il cantoniere. Il salario davvero misero che riceveva non consentiva di affittare degli alloggi degni di questo nome. La descrizione di questi tuguri dà subito un’idea dell’efficacia della scrittura dell’Autrice. Sono anni duri e il giudizio di Anna Maria è mitigato dal fatto che i tempi erano duri per tutti in Sardegna dove soltanto in pochi riuscivano a condurre un’esistenza dignitosa. Erano tempi in cui lo stato italiano concludeva accordi vantaggiosi con alcuni stati dell’Europa del nord verso i quali avviava una ondata migratoria che era favorita da false promesse di una vita agiata. False promesse che però convinsero anche il padre di Anna Maria ad abbandonare la Sardegna in cerca di miglior fortuna.
Il libro rappresenta una denuncia dettagliata delle condizioni non idonee e spesso anche degradanti nelle quali i minatori immigrati dovevano alloggiare dopo avere lavorato duramente per dieci ore al giorno in condizioni del tutto prive di sicurezza. E la stessa cosa valeva per le loro famiglie, costrette ad abitare in locali privi di acqua e servizi igienici che talvolta erano ricavati da fabbriche danneggiate dai bombardamenti della seconda guerra mondiale. Anna Maria poi si scaglia contro le istituzioni belghe, contro le autorità sanitarie e amministrative che rendevano più complicati, se possibile, i tentativi di integrazione degli immigrati ai quali non erano riconosciuti molti diritti elementari. In tutte queste avversità sta forse la ragione del titolo originale, Les oiseaux sens plumes, che l’Autrice ha scelto per il suo libro. Un titolo che ricorda appunto gli uccellini implumi, quelli che noi sardi definiamo puzoneddos noales essendo privi di difese e incapaci di volare. Il racconto continua descrivendo, attraverso diverse situazioni, i forti pregiudizi dei Belgi verso gli immigrati italiani. L’Autrice non tralascia di dire che per parecchi anni in numerosi esercizi pubblici comparivano odiosi cartelli di divieto di accesso agli animali e agli italiani. Non è difficile immaginare alcuni dei motivi che dovevano essere alla base di un disprezzo così profondo. Il Belgio, pur essendo un piccolo stato, allora aveva un suo impero coloniale e i belgi erano abituati a guardare dall’alto in basso chiunque si trovasse in una condizione di inferiorità. Ma erano anche gli anni del secondo dopoguerra durante i quali nelle società dell’Europa settentrionale si era sviluppato un forte risentimento e avversione nei confronti di uno stato come l’Italia che per la seconda volta in trenta anni aveva finito una guerra combattendo proprio contro gli alleati con i quali l’aveva iniziata. Il libro però non è solo una denuncia verso la situazione degli immigrati in Belgio. L’autrice infatti esprime anche una forte reazione contro la mentalità nella società sarda in fatto di rapporti coniugali che vedevano la moglie quasi del tutto sottomessa al marito specialmente nel caso, allora quasi generalizzato, delle mogli casalinghe che non disponevano di propri mezzi economici che consentissero loro un’autonomia pari a quella dei mariti. Il libro è dunque anche un racconto della lotta dell’Autrice per affrancarsi da questa inferiorità. E qui la trama diventa avvincente perché il lettore è naturalmente spinto a riconoscersi in questa donna che, a poco a poco ma ostinatamente, riesce a ribaltare la sua condizione iniziale raggiungendo la propria indipendenza e una condizione di parità che le consentiranno di decidere liberamente il proprio avvenire. Le considerazioni sui contenuti del libro si fermano qui anche per non anticipare più del dovuto la legittima curiosità dei lettori ai quali si consiglia calorosamente la lettura di ogni singola pagina perché ne vale davvero la pena. È molto interessante, però, leggere le frasi finali con le quali il libro si chiude: “A volte mi prende il pensiero che se mio padre, invece di lasciare la Sardegna per venire a lavorare nelle miniere di carbone del Belgio, fosse partito a lavorare verso la ricca regione del nord d’Italia, la nostra famiglia avrebbe potuto conoscere una vita migliore. Ma io facevo parte integrante del bagaglio di mio padre e sono stata vittima della propaganda governativa dell’epoca che ha tradito le nostre speranze. La mia più grande amarezza è che al nostro arrivo noi abbiamo dovuto vivere come dei servi, nella miseria, al margine di una società e di una comunità che non voleva saperne di noi alla faccia dei vantaggiosi accordi raggiunti dai due stati…Oggi noi siamo integrati in questo paesaggio grigio e piovoso come lo sono altre comunità e altre situazioni culturali…Ancora oggi mi capita di trovarmi in difficoltà nel riconoscere la mia esatta situazione. Allora nel mio profondo, aggrappata a questo appiglio, ritorno alle mie radici di donna sarda. Questa terra rude dove sono nata è la mia sorgente di energia. Essa mi ha dato la stabilità per mezzo dei valori del suo popolo, molto semplice in apparenza ma dotato di una incrollabile capacità di adattamento e una inattesa forza di carattere trasmessa attraverso i secoli e il silenzio delle sue rocce di granito”. Già dal titolo il libro annuncia che la lingua scelta dall’Autrice è il francese, lingua di cui Anna Maria è riuscita a impadronirsi fin da ragazzina. Non è una scelta che limita l’accesso al libro. L’Autrice infatti – essendo stata presidente del Circolo 4 Mori di Charleroi oltre che fondatrice e presidente dell’Associazione belga di lotta contro la thalassemia – è molto conosciuta da tanti sardi e italiani in Belgio che parlano il francese forse meglio della lingua italiana appresa in frammentari percorsi scolastici nei villaggi di origine. I lettori sardi che non sono pratici del francese dovranno attendere l’edizione in italiano che Anna Maria Sechi ha già annunciato per l’anno prossimo. Ma c’è di più. La nostra Autrice, essendo trilingue, ha intenzione di pubblicare il libro anche in sardo, cioè nella propria lingua materna che ha conservato gelosamente e che continua a parlare fluentemente dopo oltre sessanta anni trascorsi all’estero. 11 settembre 2017 M