“Radiografia e visioni inattese” di Sarah Savioli
Belli i disegni dei nodi del legno del soffitto accarezzati dalla lucina blu della camera di Matteo.
Stanotte incubi, allora sto coricata con lui, con la mano sul suo petto a sentire il respiro che piano piano si rasserena, ma il cuore che batte ancora come quello di un uccellino spaventato.
E lì sulle travi ecco un muso di cinghiale, una farfalla, una chiocciola gigante. Poi un arco e una freccia… ma no, è un cammello…e poi chissà.
E poi vado con la mente fino ad altri soffitti. Soffitti che ho guardato per troppe volte, per troppo tempo.
Quelli scrostati di corridoi attraversati rotolando su barelle dalle ruote cigolanti.
Quelli dove ti scruta crudamente una luce bianca fredda, tu la fissi e “Signora, conti fino a cinque” e al tre la luce già non la vedi più.
Quelli con le macchie d’umido del colore della ruggine dovute a qualche vecchia infiltrazione, a qualche grana che per una buona volta non hai dovuto risolvere tu.
Quelli di stanze d’ospedale per bambini dove tutto è curato, tutto è colorato ma quelli no, restano grigi e spenti come in ogni altro reparto.
Quelli affrescati dello studio di grandi professori di fama internazionale.
Quelli di consultori con plafoniere montate male e negli angoli i resti di insetti suicidi rimasti lì chissà da quando.
I soffitti.
Come quello dell’altro giorno. Sul letto metallico e freddo della macchina dei raggi.
E nell’assurdo, la più assurda immagine dei pannelli del controsoffitto con delle impronte di stivale.
Resto desolante di qualche operaio che chissà quanto tempo prima ci aveva camminato sopra con la grettezza di chi non rispetta ciò che non sente roba sua.
E già che non c’era stata la voglia di passarci uno straccio prima di metterli su, era mancato anche il buon gusto e il senso giocoso di montare i pannelli in modo da ricostruire il percorso della trionfale camminata.
Invece no, solo pedate a caso. Sul soffitto color topo di una stanza color topo.
E mentre indicavo le impronte e chiedevo “Ma nel vostro organico avete anche l’Uomo Ragno?”, in risposta solo uno sguardo un po’ bovino dell’infermiere e un boffonchiato “Vè, ci lavoro da otto anni e questa roba non l’avevo mai notata.”
Ma il tono stava per “Adesso con questa qui mi sa che devo chiamare la neuro. E poi catzo ride, che questo è un luogo di sofferenza e di cura e soprattutto per quest’anno ho già finito le ferie.”
Catzo rido? Rido perché alle volte è l’unico modo che ho per riuscire a respirare quando mi manca l’aria.
Per poter ancora avere la voglia di immaginare quei soffitti sui letti d’ospedale dipinti con parole, poesie o finestre aperte su cieli azzurri con le nuvole rosa dell’alba.
Con rami e fronde carichi di frutti e uccellini colorati.
O aquiloni sollevati dal vento di primavera per sognare di coricarcisi sopra e volare lontano.
Volare via.