I. Lo schiavismo in Italia: Prato, i cinesi e lo schiavismo del XXI secolo di Elisabetta Cianfanelli
Diamo inizio ad alcuni servizi e interviste sullo schiavismo cinese in Italia e naturalmente in Sardegna, Sassari in primo luogo. Una realtà poco conosciuta e poco frequentata. Quello che i cinesi forse non fanno i patria si permettono di farlo impunemente in Italia.
Gl’ispettori del lavoro dove vanno? A fare ginnastica artistica?
Prato
La storia e la relazione che unisce la città di Prato ai cinesi è per molti nota. Cittadini, politici e forze dell’ordine della città, della provincia e della regione: tutti conoscono bene questa realtà. Non comprendo questo stupore nell’apprendere che di domenica mattina un’azienda prende fuoco. Tutti sanno che i cinesi lavorano 7 giorni su 7 e con turni di 24 ore su 24. In queste aree di Prato chiamate Macrolotto e Macrolotto 2, pensate e realizzate come aree di sviluppo del sistema tessile pratese, molto estese, con un numero immenso di capannoni industriali dove un tempo c’era il cuore imprenditoriale di Prato, oggi sono il centro dove i cinesi vivono e lavorano.
Quando si arriva al Macrolotto vediamo una serie infinita di capannoni in cui la vista si perde. All’esterno di questo insediamento industriale troviamo gli abiti dei cinesi stesi ad asciugare insieme a scatole di cavoli, sacchi di riso e pesci appesi ad essiccare. Al piano terra di questi capannoni si lavora: si taglia, si cuce e si incolla a seconda se ci troviamo in una azienda di abbigliamento o di pelletteria e tra queste montagne di materiale semilavorato e finito troviamo i bambini che giocano, mangiano e dormono in luoghi di fortuna come le scatole e sui prodotti in lavorazione. Questi capannoni sono spazi in molti casi impenetrabili in cui si produce per brand sconosciuti, ma anche per quelli molto famosi. Quei brand italiani, che non desiderano un prodotto tracciato e ritengono che qualunque operazione si possa fare per la certificazione del prodotto italiano sia inutile.
All’interno del capannone, spesso con tubi da ponteggio e fogli di cartongesso, vengono realizzati dei soppalchi dove è possibile dormire e cucinare qualcosa. I bagni sono posizionati a piano terra e sono i bagni di quando il capannone era utilizzato dagli operai pratesi.
In questi capannoni i cinesi lavorano a cottimo, i turni di lavoro sono dalle 12 alle 16 ore e non è difficile vede donne che si addormentano accanto alla loro macchina da cucire. Questo fenomeno non è frutto del caso e dei soli cinesi: noi italiani abbiamo affittato questi fondi ai cinesi e molte volte a caro prezzo. Noi italiani abbiamo insegnato questi lavori ai cinesi. Noi italiani per primi abbiamo sfruttato questi cinesi come nostri schiavi. I cinesi pratesi hanno lavorato per imprenditori italiani, hanno fornito prodotti finiti a basso costo rispetto ad aziende italiane, in quanto il costo del lavoro cinese è inferiore al costo del lavoro di operai italiani. Quindi il prodotto cinese è competitivosui mercati, ma loro sono operai senza alcuna tutela e sicurezza.
Oggi i loro padroni non sono più italiani, ma gli stessi cinesi, molte volte affiliati alle Triadi, che girano per il Macrolotto e non solo, con vetture di grossa cilindrata. A Prato tale fenomeno porta ad avere cinesi clandestini, enormi quantitativi di denaro circolante non tracciato, uso di droghe per sopportare e sostenere i duri orari lavorativi, furgoni che caricano e scaricano materiale e semilavorati senza bolla di consegna o fattura. Nessun cinese ha un regolare contratto di lavoro e il nostro sindacato non conosce tale fenomeno?
Questo sistema di lavoro sommerso non solo non è necessario alla città di Prato e all’Italia, ma distrugge l’economia del nostro paese. Prato ha necessità di un nuovo progetto culturale e di aziende regolari in un sano contesto di leale concorrenza. Invece spesso siamo allo stesso livello delle favelas brasiliane. I capannoni fatiscenti ed insalubri devono essere abbattuti e queste aree destinate a nuove tipologie di attività. I capannoni non devono essere affittati ad aziende illegali e a imprenditori che non hanno personale regolarmente assunto.
Elisabetta Cianfanelli
Da “Avanti”