“Visto che nei prossimi sei mesi… qui ci dovrò tornare” di Sarah Savioli
Che poi vado all’ospedale per fare degli accertamenti alle 7.30 del mattino e lo sterminato parcheggio è ovviamente pieno.
Mi preparo spiritualmente a fare un chilometro e mezzo a piedi quando di fronte a me e in un alone di luce mistica si libera il posto in assoluto più vicino a dove devo andare.
Una botta di kulo che se c’è una compensazione di qualche tipo, non troverò mai più un parcheggio per il resto della vita.
Non ci penso, parcheggio e poi mi avvio a piedi da dei medici che in modo affettuoso e scorato mi guarderanno come degli ingegneri meccanici guardano la vetusta panda di un vecchietto al quale è partito l’ennesimo pezzo ormai introvabile.
Che dire, io sul rottamarmi non avrei poi da ridire, ma Alessandro e Matteo si ostinano a volermi tenere. Ameranno il vintage…
Il gatto invece mi dà ragione. Alle volte si siede di fianco al bidoncino dell’umido e sembra che mi dica: “Buttati, dai. Ti tengo aperto il coperchio.” Son soddisfazioni.
Poi mi siedo nella sala d’attesa.
Una mamma tiene impegnato come può un bimbetto già annoiato e stanco.
Una figlia arresa accompagna a fare un giro per i corridoi un padre anziano con una vestaglia stropicciata e lo sguardo rabbioso.
Una signora elegante mi guarda. Le sorrido, ma lei si volta altrove.
Un’altra al telefono dice “Come faccio a dirglielo, adesso…come faccio….”. E se ne va a testa bassa.
La signora di prima la guarda, poi mi guarda ancora. Le risorrido. Si volta nuovamente da un’altra parte.
Il bimbo piange. La madre quasi.
Passano le ore.
Quando ho finito mi avvio verso la macchina e incrocio la donna della telefonata che torna indietro.
Mi vede e la saluto con un cenno della testa.
Mi getta uno sguardo come se l’avessi vista nuda e si allontana.
Strano come ci si senta soli soprattutto in cose per le quali non si è soli affatto. Forse perché quando si è fragili ci si aspetta di più di essere colpiti che di essere compresi, non lo so…
Arrivo al parcheggio e un ragazzo alto come una pertica e scuro come l’ebano mi dice “Ciao signora.”
“Ciao carissimo. Sai che ti dico? Io vado a prendere un caffè. Mi fai compagnia? Ti posso offrire un panino o una pasta?”
Mi fa un sorriso grande come il mondo.
Mentre facciamo una tardiva colazione parliamo un po’.
“Qui in Italia siete in tanti tanti vecchi.” mi dice.
“Nel tuo Paese no?” gli chiedo.
“In mio Paese non diventi vecchio.” mi risponde. Semplice.
Torniamo alla mia macchina e ci salutiamo.
Lui mi augura di fare tanti figli perché sarei una mamma bravissima, io gli dico che ormai ho un età che dovrei quasi fare la nonna e che lo ringrazio perché mi ha rallegrato la giornata. Mi sorride ancora mentre si allontana con le sue lunghe gambe giovani che chissà su quante terre hanno camminato e corso. E su quante terre ancora dovranno passare.
Intanto passa la signora raffinata che mi guardava in sala d’attesa. Mi riguarda nuovamente. Le sorrido ancora e lei si rivolta altrove.
Forse si è innamorata di me, ma è timida.
O forse le dà da fare che io a quarant’anni suonati abbia i capelli viola mentre lei a trenta ha iniziato a portare le gonne al ginocchio. Mah.
Abbandono il mio splendido posto auto che quasi quasi tornerei a casa in autobus pur di non mollarlo visto che nei prossimi sei mesi qualche volta qui ci dovrò tornare. Così c’avrò già parcheggiato vicino.
E intanto dietro ho già una macchina che aspetta di infilarcisi con su qualcuno che secondo me dice “Mama, che kulo. Se c’è una compensazione di qualche tipo, non trovero’ mai più un parcheggio per il resto della mia vita.”