“Serafina Linda Piras-Soddu (1917-1947): a cento anni dalla nascita” di Angelino Tedde junior
Il pastore di capre Michele Piras nato a Nulvi il 27 marzo 1886 (da Giovanni, Nulvi 12 marzo 1864) e da Antonia Farre, nulvese) e la casalinga chiaramontese Maria Chiara Soddu nata nel 1885, unica femmina tra sei fratelli maschi, figli di Giommaria Soddu e di Serafina Massidda, entrambi chiaramontesi si unirono in matrimonio in Chiaramonti il 23 settembre del 1911.
Nel 1914 venne alla luce il loro primogenito Giuseppe.
Michele, in quello stesso anno, fu chiamato alle armi e stette in osservazione, per tre mesi soltanto, a Cagliari, quando, riconosciuto fabico e oligoemico e con qualche disturbo cardiaco, fu definitivamente congedato.
Tre anni dopo, il 10 gennaio del 1917, nacque la secondogenita Serafina Linda alla quale fu dato il nome della della nonna Serafina Massidda.
La stessa fu battezzata nella chiesa parrocchiale di San Matteo il 16 gennaio dal viceparroco Nicola Urigo. Fece da padrino lo zio Antonio Piras e da madrina la zia Pietruccia Piras.
La neonata crebbe a Chiaramonti fino ai 10 anni col fratello Giuseppe, di tre anni più grande di lei, e solo nel 1925, le nacque la sorellina Georgia.
Tra le testimonianze di questo periodo si ricorda che quando la ragazza fu in condizioni di fare le commissioni, tra le più frequenti era quella di chiamare il fratello Giuseppe, preso dal gioco, con la curiosa e colorita espressione:
-Giuseppe, torra a domo. mi’ chi gia l’ischis chi mama at sa manu pesuda!-
-Giuseppe, torna a casa, lo sai che mamma è di mano pesante!-
La famiglia rimase in Chiaramonti fino al 1927, quando alla ricerca di pascoli più idonei per le capre si spostò a Luras, dove però al pastore nulvese morirono di epidemia le capre e dovette adattarsi a fare altra attività, dimorandovi per sei anni, sicuramente lavorando nelle ferrovie e nelle strade che da Sassari portavano con centinaia di curve a Palau.
Su quel periodo
più che da mio nonno, che ho avuto la fortuna di conoscere, ho raccolto testimonianze dalla lurese signora Caterina Zaccagni, allora novantaquattrenne, oggi defunta, su mia nonna definita un’inesauribile narratrice di contos de foghile, al punto che in estate ogni sera, i vicini di casa si riunivano presso casa sua per ascoltare i suoi racconti.
All’epoca (1927-1932) il fascismo mieteva i più calorosi consensi, specie dopo la Conciliazione e i Patti Lateranensi. L’ammodernamento delle infrastrutture, strade, ferrovie, scuole, uffici pubblici, creò posti di lavoro e fu un periodo di maggior serenità sociale al punto che furono definiti dallo storico Renzo De Felice “gli anni del consenso ”.
Luras, a poca distanza da Calangianus e da Tempio,in provincia di Sassari era ed è un’isola linguistica del sardo-logudorese in mezzo all’idioma sardo-corso parlato in Gallura e visto che c’era il lavoro per il capo famiglia Michele, Maria Chiara e le due figlie Serafina Linda e Giorgia dovettero trovarsi a loro agio tra le coetanee assai socievoli e aperte, con meno separatezza tra ragazzi e ragazze come usava in Gallura.
Giuseppe, tredicenne, non seguì i genitori, fermandosi a lavorare in paese presso i parenti.
Serafina Linda visse a Luras la sua adolescenza e la prima giovinezza con molta serenità sia aiutando la madre sia come portatrice d’acqua, sia come custode di qualche bambino, sia prestandosi ai lavori domestici. A 12 anni (1929) ricevette la Cresima; le fece da madrina una certa Giovanna Maria Bellu, originaria di Calangianus, ma vivente a Luras.
La madrina da lei scelta, Caterina Zaccagni, non poté cresimarla perché non era in condizioni di comprarle la collanina d’oro con la medaglietta e gli orecchini come fece, invece, la madrina effettiva, secondo l’uso e il costume di Luras.
Nel 1932 Serafina Linda rientrò, ormai sedicenne, a Chiaramonti con la famiglia e si trovò subito a disagio di fronte alle coetanee che erano abituate, almeno in pubblico, a tenersi a debita distanza dai coetanei, mentre lei, abituata a Luras, andò contro corrente. Il che le procurò delle critiche malevoli da parte delle coetanee che non videro di buon occhio il suo modo di fare. Inoltre, essendo una bella ragazza, alta circa 1,70, snella, bianchissima di carnagione, dai capelli nerissimi e lisci, portati secondo l’uso degli anni trenta del novecento, il suo modo di fare urtava ancora di più con l’ambiente più riservato e attento nelle relazioni tra ragazzi e ragazze.
Serafina Linda s’innamorò di un giovanotto, ma la famiglia di costui, dopo vari ondeggiamenti, a quanto narravano le voci, impedì il fidanzamento. Questo fatto, purtroppo, la ferì per tutta la sua esistenza. Alcuni anni più tardi, nel 1937, con l’atmosfera romantica delle canzoni si cantava “Il primo amore non si scorda mai”. Col ritorno a Chiaramonti nonno fece di tutto per lavorare come giornaliero, nonna continuò ad allevare la piccola Giorgia mentre orientava verso i soliti servizi per conto terzi la figlia Serafina Linda che andava crescendo. Il figlio Giuseppe lavorò all’occorrenza come giornaliero.
Serafina Linda dovette andare a lavare i panni, a far la portatrice d’acqua e a svolgere altri lavori domestici presso altre famiglie per rimediare grano e altri prodotti alimentari per contribuire al vitto della famiglia. Giorgia, man mano che cresceva, seguì l’esempio della sorella, soprattutto facendo la custode dei bambini e portando l’acqua nelle case.
Michele e Maria Chiara ad un certo punto si resero conto che bisognava avviare al matrimonio Serafina Linda ormai diciannovenne. Essendosi presentato a chiederla in sposa Angelino Tedde senior, sia il padre Michele sia la madre Maria Chiara, considerandolo un buon partito, fecero di tutto per farli sposare. D’altra parte Angelino aveva ereditato la casa arredata di tutto punto dalla madre Chiara Soddu, Chiara Soddu morta nel 1935 e la stalla col forno e inoltre mezzo ettaro di vigna in località Bidda Noa. Aveva assolto anche il servizio militare ed avendo compiuto venticinque anni, pareva abbastanza maturo per metter su famiglia.
Firmato il contratto di matrimonio in Comune, i due fidanzati si sposarono il 18 luglio 1936 alle 5,30 del mattino, nella parrocchiale di San Matteo, avendo come testimoni i chierici Mario Casula, cugino di lei (figlio di Pietruccia Piras in Casula) e Gavino Unali, due testimoni futuri preti, gesuita il primo, e prete diocesano il secondo. Benedisse le nozze concordatarie il vicario dr. Pietro Dedola.
Nello stesso mese di luglio del 1936 scoppiò la guerra civile spagnola e Mussolini, viste le simpatie di Franco per il fascismo, non esitò ad arruolare volontari da inviare in suo aiuto a 15 lire al giorno, il triplo di guadagno di un giornaliero in patria.
Angelino non esitò ad arruolarsi sperando fino all’ultimo di vedere il neonato prima della partenza per la Spagna. Il neonato venne alla luce però quando lui, imbarcatosi a Napoli sul piroscafo “Lombardia” veleggiava verso Spagna. In questo frangente io nacqui primogenito e unico maschio il giorno in cui mia madre Serafina Linda compiva i suoi floridi vent’anni, il 10 gennaio 1937, alle sedici, nella casa che era stata costruita dal mio trisavolo Giovanni Andrea, in cui era nato mio bisnonno Antonio, mio nonno Giovanni Matteo e mio padre Angelino senior.
Mia madre mi raccontava spesso che alla nascita pesavo 5 chili e che nell’attesa della mia nascita non faceva che mangiare mele cotogne. Mi ripeteva anche che non la finivo più di piangere.
Mio padre aveva lasciato detto di chiamarmi Matteo, perché voleva ricordare il nome del padre, se fossi nato maschio e Mattea se femmina, ma mia madre, preferì chiamarmi col nome di mio padre, quasi a ricordarlo qualora fosse morto in guerra.
Non si sa se la cartomante del paese le avesse preconizzato che mio padre sarebbe morto in Spagna.
Mio padre però, nonostante i pericoli della sanguinosa e fratricida guerra civile spagnola, e nonostante che, attraversando un ponte sul fiume, con altri 12 compagni che furono uccisi, lui gettandosi in acqua, riuscì a salvarsi. Così tra combattimenti e ricoveri nell’ospedale da Campo e di San Fernando, dopo sei mesi, fu mandato in congedo e poté conoscere il suo primogenito che portava il suo nome e non quello del defunto genitore.
Nel 1939 nacque mia sorella Antonia Chiara (7 giugno) e mio padre per fortuna fu mandato per novanta giorni a casa, in licenza agricola, e così poté essere presente alla sua nascita e al suo battesimo, ma fu subito richiamato in guerra per l’inizio della seconda guerra mondiale e così tra richiami e licenze agricole e ricoveri all’ospedale militare di Sassari passarono due anni e nel 1943, quando fu mandato a casa per la licenza di un anno, il 4 aprile nacque Mattea (4 aprile), la terzogenita, Finito l’anno di licenza fu richiamato, ma rimase di stanza a Sassari dove con opportune licenze agricole poté coltivare il frumento e i legumi per la famiglia dal momento che aveva avuto dall’allora cooperativa agricola circa mezzo ettaro presso Sas Coas.
Nel 1945, a guerra finita, fu congedato ed ottenne di lavorare all’eradicazione delle zanzare anofele spruzzando nei ruscelli e nelle piscine naturali il DDT in coppia con zio Antonio Luigi Villa, non facendo mancare mai i mezzi di sussistenza alla famiglia. Nel complesso mio padre, calcolando i due anni di leva a Genova Sturla, l’anno della guerra di Spagna, 1937, e in seguito il richiamo per la seconda guerra mondiale, trascorse da militare 11 anni, dai 23 ai 34 anni, quasi quanti io ne trascorsi tra il collegio e il seminario dai 10 ai 22 anni.
Bisogna dire che il ménage, fu decisamente precario e monogenitoriale e non può dirsi che la vicinanza tra i due coniugi fosse intensa come del resto fu per tutte le coppie che si sposarono alle soglie della seconda guerra mondiale e videro i loro coniugi assenti per sette anni e più. Mia madre come tante altre donne di Chiaramonti fu costretta a barcamenarsi col soldo di mio padre e ad amministrarlo in modo parsimonioso.
Il peggio però fu che, nel corso degli anni della loro convivenza, le condizioni di salute di mio padre peggiorarono a causa di varie malattie (bronchite, pleurite, gastrite) definite croniche, forse conseguenze dell’intera notte passata in acqua sotto quel maledetto ponte su cui aveva visto falcidiare i suoi 12 comapagni dai rojos.
Certamente di congenito aveva una grave allergia alle graminacee, agli olivi in fiore, alla polvere. E i ricoveri aumentarono.
Dopo l’ultimo ricovero gli fu proposta l’operazione allo stomaco, ma essendogli morta una cugina, operata sempre per l’ulcera gastrica, pochi mesi prima (Antonia Soddu-Ruiu), non accettò e lasciò l’ospedale ormai rassegnato al suo destino di morituro.
Mia madre, forse per togliersi un peso o forse per sperare ancora nel futuro, si rivolse ad una famosa cartomante di via Rosello in Sassari, che, venuta in paese, a casa nostra, per una settimana, mentre mio padre era ricoverato, predisse una fine assai precoce per entrambi.
E purtroppo, nel febbraio del 1947, a distanza di cinque giorni l’uno dall’altra, la morte se li portò via per sempre il primo a Chiaramonti la seconda a Sassari.
Di certo non erano nati per vivere felici e né tanto meno per morire in santa pace.
Dedicando questo breve profilo biografico a mia madre non starò qui a ricordare mio padre che fu un uomo provato dalla vita, massacrato dalla vita militare e distrutto dalle malattie.
Del resto di lui ho parlato in occasione dei suoi cento anni dalla nascita.
Il ricordo che mi resta di mia madre.
Tra le mie due sorelle, io, oltre ad essere il primogenito, sono stato quello che più è vissuto con mia madre. Il 10 gennaio 1947 compimmo insieme lei il trentesimo compleanno ed io il decimo. Essendo spirata all’ospedale di Sassari il 22 febbraio del 1947, visse esattamente 30 anni e 43 giorni, avendo io 10 anni e 43 giorni.
Di mia madre ho viva l’immagine di una bella donna, affabile, dal colorito bianchissimo, dai capelli scuri, folte sopracciglia e occhi profondi nonché dotata di una bella voce che metteva in mostra cantando mentre riordinava la casa. Le sue canzoni preferite erano Vento, Lili Marleen, Rosamunda e altre canzoni degli anni Quaranta. Si accalorava quando cantava il ritornello che mi è rimasto nel cuore:
-Vento, vento porta mia con te.- Sorrideva, invece, quando cantava traducendola alla bella meglio in sardo Rosamunda, cantando:- Rosamunda, Rosamuda, Rosa munda sa carrela non b’at lughe e candela, o che felicità!.-
E rideva a cascatella al termine di questa canzone.
Altri ricordi sono legati alle punizioni seguite poi da baci e abbracci.
Ricordo che da piccolo ero un bambino vivace, ma non rissoso e come tutti i bambini avevo le mie debolezze. Ogni volta che durante la notte bagnavo il letto, la mattina erano minacce di busse a palma nana accesa, che in effetti non si ci furono mai , tuttavia, trovò un modo più umiliante per punirmi ed ogni volta che non mi controllavo, la mattina mi vestiva con un lungo vestitino da bambina. Io mi vergognavo e cercavo di starmene in casa e non farmi vedere dai compagni. Quando la sera mio padre tornava dai campi, ordinava perentorio a mia madre: -Togli quel vestito ad Angelino e non umiliarmelo a quel punto!-
Mamma obbediva ed io ero riconoscente a babbo per questa sua solidarietà.
Spesso, fin da piccolo, mia madre mi mandava nella Piatta (Piazza) che era pure il luogo dei negozi del paese, io arrivato a quella piazzetta che era Sa Carrela de s’Avvocadu, trovando i compagni giocando a bagliaroculos, (specie di birilli di bacche di querce ghiandifere), mi univo al gioco e mi dimenticavo della compera. Così capitava che mi risvegliassi dal gioco con un sonoro schiaffo di mia madre che non vedendomi era uscita di casa e mi aveva trovato in ricreazione abusiva.
Talvolta la mia passione, per la costruzione del carro da buoi coi tutoli di grano turco, assente mamma, mi azzardavo a lasciare da sole le mie sorelline e me ne andavo coi compagni di strada ad un chilometro dal paese, nella località chiamata Codinas e Sa Rughe, dove erano ammassate montagnole di tutoli, di cui facevamo provvista per costruire coi compagni i nostri giocatoli preferiti. Al rientro, proprio all’ingresso del paese, in Caminu de Litu, mia madre mi richiamava, e vistomi di ritorno dalla “caccia” me ne dava di santa ragione subito sulla strada, ma il resto con una corda continuava a darmene in casa. Il mio maggior dolore era per i tutoli persi per la strada, perché quando mia madre iniziava a percuotimi, il problema era andare sotto i colpi, e io mi consolavo psicologicamente mormorando:
-Como finit como finit.-
-Ora la smette ora la smette!-
E finalmente, sbollita l’ira, stanca e affaticata finiva di fustigarmi. In genere mi spediva a letto e io mi addormentavo sognando i tutoli persi. Più tardi, forse presa dal pentimento per avermi picchiato esageratamente, mi risvegliava e mi dava qualche leccornia (fette d’anguria o di melone o delle caramelline comprate a Sassari e conservate in una bella scatola). Poi mi esortava a non compiere azzardi del genere, ché avrei potuto cadere nel precipizio rasente la sterrata che seguiva il bosco dei frassini. Quindi mi baciava esclamando
-Fizu meu bellu!-
Qualche volta mi mandava al bosco dei frassini, appena fuori dal paese, per cogliere i ciclamini che a lei piacevano tanto. Io ne raccoglievo un bel po’ e glieli portavo e lei tutta felice, li prendeva e mi abbracciava calorosamente, con mia grande soddisfazione.
Nei periodi in cui mio padre era in licenza era solito portarmi pere e sorbe selvatiche, ma soprattutto una tortora in gabbia o un falchetto con le ali mozze con cui giocavo. Mai una volta mia madre vista la mia felicità si mostrò infastidita per questi volatili, anzi mi guardava incuriosita. Quando si recava a lavare i panni a Funtana Noa o a prendere l’acqua o a fare qualche commissione mi affidava le mie due sorelline, la più grandetta della quali partecipava all’apertura del cassetto del cantarono dove era nascosto lo zucchero e mangiava quanto me, solo che al rientro di mamma spifferava il reato e per me erano busse secondo il solito rituale.
La sfacciata sorella, dopo essersi ingozzata con me dello zucchero, era capace di dire:- Ciullua cattivo ha rubato lo zucchero.-
L’avrei strozzata, ma quei desideri erano irrealizzabili e le perdonavo.
Mia madre non mi è sembrata mai né religiosa né praticante, tuttavia a Pasqua, visto che Mattea tardava ad allungare, mentre per il paese passava la processione di Cristo Risorto accompagnato dalla Vergine, ci dava l’ordine di tenere al centro della strada Mattea, in piedi, e mia sorella con il matterello doveva picchiare come su un tamburo ai fianchi della cassapanca dove conservavamo il pane.
A tempo debito mia sorella Mattea crebbe e divenne la più alta dei tre figli.
Lo spidocchiamento
Altro momento confidenziale con mia madre era il rito dello spidocchiamento, rito compiuto a volte dentro casa a volte sui gradini della porta. Mi dovevo inginocchiare pr terra, poggiare la testa sul suo grembo e lei con una velocità insolita procedeva a frugare nella mia testa e a schiacciare rapidamente quei maledetti insetti bianchi e grassi che si aggiravano nella foresta dei miei folti e arruffati capelli. Il rito si compiva a periodi una volta, a periodi due o tre volte la settimana. Quando vedeva che noi figli ci grattavamo la testa, era il segno che doveva ricorrere al rito dello spidocchiamento come del resto facevano anche le altre mamme. Non era religiosa mia madre, ma lo era la sorella zia Giorgia, che m’insegnava in sardo le preghiere che allora s’insegnavano ai bambini.
La stessa, essendo acquaiola dalle suore dell’asilo, mi portava con sè all’asilo e quando dovevo andare da solo, il mio terrore era quel soldato minaccioso che stava sul monumento ai Caduti. Quel tratto lo facevo correndo e non guardando il milite con la bomba a mano.
Altro ricordo di mia madre è quel suo levarsi alle tre del mattino, prendere la farina e l’acqua e mettersi a lavorare la pasta per il pane che nella prima mattinata cucinava nel forno acceso della stalla.
Era tanto bella quando, bianca e rossa, per il caldo del forno infornava e sfornava il buon pane che costituiva la provvista per 15 giorni e poi era da capo a rifarlo.
Il mal d’occhi
Ricordo che da bambino soffrivo, specie nella stagione primaverile, di attacchi talmente forti di allergia al punto che mi toglieva la vista. Mia madre, vestendomi al meglio, mi portava a Sassari nel reparto oculistico, dove sostavo per circa 15 giorni, guarendo perfettamente anche se le visite dei professori davanti agli studenti non finivano più, immagino per far notare le cornee cheratinate, a detta loro ero “un caso linfatico”.
I medici mi volevano bene, da loro imparai a parlare l’italiano, visto che a scuola non andavo per via del male agli occhi, perché si pensava che potessi contagiare gli altri ragazzi. Con quella scusa dai sei anni ai 10 me la sono spassata a giocare nella strada e dell’essere anafalbeta poco m’importava, ero appagato dai giocattoli che riuscivo a costruirmi e dai relativi giochi coi compagni, quali “il gioco ai bagliaroculos”, “Luna Monte luna”, “Guardia e Ladri”, “Caccia ai pipistrelli” e “ Portare a spasso il Falchetto” tenendolo per le zampe tra l’indice e il pollice e facendolo vedere ai compagni che soffrivano d’invidia anche se talvoltam se lo desideravano, glielo prestavo per un un giro molto corto. Il falchetto d’altra parte finché aveva la ali mozze se ne stava buono, ma appena crescevano tanto da prendere il volo se ne andava lasciandomi a bocca aperta. Babbo non si spazientiva e si preoccupava di trovarne un altro tra i picchi de sas Coas dove il vento d’inverno fischiando furioso lo schiaffeggiava.
L’unico che fosse preoccupato della mia alfabetizzazione era lui che avendo frequentato le scuole elementari e del resto essendo figlio di una guardia di finanza che aveva frequentato anche lui le scuole elementari cercava d’insegnarmi le lettere dell’alfabeto anche quando stava a letto e si sentiva male. Mamma, semi-analfabeta, non se ne preoccupava ben sapendo che con i mali agli occhi non potevo essere accolto a scuola .
Appresi a parlare speditamente l’italiano dai medici e dalle suore del reparto oculistico. I medici del resto li rivedevo tutti gli anni per 15 giorni e tra loro e le suore l’italiano lo apprendevo e lo parlavo discretamente. D’altra parte mia madre tra grano, salsicce, formaggio e altri prodotti paesani era assai generosa con loro che la trattavano signorilmente come del resto volevano un gran bene anche a me.
Come dimenticare i professori Richeli, Panzardi, Saba, Pasca e altri che mi usavano tutti i riguardi! E la brava Suor Gabriella che mi preparò per la Prima Comunione. che ricevetti in quella meravigliosa cappella dell’Ospedale Santa Annunziata, più comunemente detto Ospedale Civile anche se la Clinica Oculistica apparteneva all’Università di Sassari.
Mia madre veniva a trovarmi e a riportami a casa bell’e guarito, almeno fino alla successiva primavera.
Altri ricordi di mia madre sono legati alla vita materiale quotidiana. Del pane quindicinale ho già detto, ma c’era anche l’acqua quotidiana da portare dall’Acquedotto con un bel recipiente. Ricordo che mia madre, tornando a casa con la pentola in testa, mi sembrava ancora più bella, ma anche brava perché poggiava la pentola sul cercine (tidile) che posava in testa e camminava senza dover sollevare le mani per mantenere la pentola. Tornando o dall’Acquedotto o dalla Fontana Nuova pareva che danzasse e che sia la pentola sia il lamone non le pesasse affatto.
Non mi soffermo a parlare di quel che faceva con destrezza quando si ammazzava il maiale e quando mi mandava a portare alle vicine una parte de “s’ipinu” o del sanguinaccio o dei dolci fatti in casa nel nostro forno.
D’istinto un figlio ama la madre, ma la mia era speciale, forse perché era bella, talvolta spiritosa, tal’altra assai triste.
Certo un bambino non può mai immaginare le cause dell’infelicità della propria madre.
Ogni tristezza scompariva quando riordinava la casa, perché cantava tutte quelle canzoni che ho citato sopra.
L’ultimo e più bel ricordo di mia madre risale al 10 gennaio del 1947. Dopo avermi lavato, indossai l’abito più bello poi si sedette su uno sgabello di sughero come una regina e cominciò a ravviarmi i capelli e a farmi la riga, tenendomi con una mano il mento, e mi disse:
-Ormai hai compiuto dieci anni e sei un giovanetto e devi dare a me a tuo padre del “Voi”.
Fu l’ultima volta che fui in gran confidenza con mia madre e ne provai una gran gioia. Da lì al 17 febbraio, giorno del suo ricovero in ospedale, dovevano trascorrere soltanto 28 giorni.
Il mio dolore per la sua perdita non è mai cessato, ma soprattutto quel che ancora mi spiace è che mentre mi recavo ad una commissione e camminavo per la strada, senza nemmeno fermarmi, una zia acquisita mi annunciò la sua morte. Provai uno strappo al cuore, ma non piansi non so se per dignità o per reagire a quell’insopportabile dolore. La peggior cosa fu, quando alcuni giorni dopo, la stessa zia mi disse che non avendo fatto in tempo a giungere a Sassari con mio zio Giuseppe, al funerale e alla sepoltura parteciparono solo gli agenti funebri e l’autista.
Quando ad un mese dalla sua morte fui accompagnato in collegio, la suora chiese dove fosse sepolta e così potei pregare sulla sua tomba, situata nel Campo V tumulo 101 nel Cimitero di Sassari, Oggi quel Campo non esiste più perché vi hanno costruito delle cappelle mortuarie.
Sono certo che tanto mio padre quanto mia madre, morti precocemente, dal Cielo avranno visto che, il buon Dio si è occupato di noi che ci siamo sistemati meglio di quanto si potesse immaginare per tre orfani. Io, senza manco ambirla, sono diventato docente universitario, mia sorella Antonia, sposatasi con un compagno d’infanzia è finita in Belgio ed ha avuto quattro figli e sette nipoti, La sorella più piccola, che era stata adottata, ha studiato e ha fatto l’insegnante elementare: sposatasi ha avuto dal figlio maggiore (sergente maggiore capo dell’Aeronautica) due nipoti, mentre dalle due figlie, entrambe laureate (una in Pedagogia e l’altra in Biologia) altri quattro nipoti, fra maschi e femmine. Certamente perdere i propri genitori in tenera età è una tragedia incolmabile, ma la Provvidenza raddrizza le sorti di coloro che per svariati motivi li hanno persi e i genitori anche se morti prematuramente hanno il merito di averli messi al mondo.
I figli del resto se si son fatti onore sono sempre debitori delle loro abilità ai genitori.
Sono certo che un domani nell’aldilà con mia madre e con mio padre c’incontreremo nella luce di Dio per riempire d’amore quel vuoto che ci hanno lasciato sulla terra
Mamma
Bella
tu fosti,
mamma,
come rosa
vivida
di maggio.
Il tuo riso,
i tuoi occhi,
i tuoi capelli
le tue bianche
braccia
sapevano
di primaverile
fragranza.
Infelice
tu fosti,
mamma,
come foglia
d’autunno
che il vento
tormenta.
Trovi
pace
il tuo
inquieto
spirito,
mamma,
dalla vita
reciso
ancora
in boccio.
Commenti
bellissima storia, grazie Angelino per averci fatto partecipe di un periodo così doloroso e felice della tua infanzia.
Gennaio 6th, 2017
Grazi per la solidarietà. Un caro saluto.
Gennaio 7th, 2017