La poesia sarda e Antoni Maria Pinna di Giovanna Elies
Parlare di “ poesia” nella tradizione popolare e culturale della Sardegna è quasi una forzatura. Si scrive “poesia”, in quest’isola al centro del Mediterraneo, ma nella realtà si pronuncia “càntigu”. La nostra poesia, infatti, altro non è se non quel modulare cadenzato di voce con il quale i nostri pastori, contadini, viandanti, riempivano le grandi solitudini. Rimodulare quel canto (che tra l’altro sembra essere derivato dal canto degli antichi aedi greci ed usato per magnificare i propri eroi) non deve essere una impresa facile, dal momento che non a tutti riesce. Occorre di certo essere padroni del proprio pensiero, delle parole, della musicalità, del verso e profondi conoscitori dell’animo umano. Oggi occorre anche saper entrare nelle pieghe di un lessico che- nel tempo- se pur ricco di effetto e di pathos, non è riuscito a conservarsi interamente Antoni Maria Pinna è una delle poche voci poetiche che ancora resiste alla moda novecentesca di una poesia facile, intimistica, scevra di significati (se non per l’autore), dal verso libero e spesso scarno. Non è il solo, certo, per fortuna, resiste ancora un manipolo di poeti a s’antiga, tuttavia è tra i caposcuola; tra coloro che sanno assoggettare il verso alle dolcezze del pensiero e dell’animo, coniugandole nel modo più musicale ma anche diretto. Quasi come se prima di mettere nero su bianco la futura poesia venisse provata e riprovata a “boghe bàscia oppure a mesa ‘oghe”, trattenendo il fiato all’interno della corona dentale e lasciando al cuore l’ultima parola. “ In suaves anderas m’incaminas In s’ora de iscrier mi turmentas Mi das paghe santa e m’accuntentas Ch’essere pitzinneddu in suidura. Antonio Maria sa ben manipolare il materiale poetico tanto da inglobare nel timbro della sardità i momenti ed i tormenti che precedono la scrittura. “ che unu raju de sole t’avvicinas” Sentza pasu né umbra e faghes nidu” In su coro da ue pesas bolu.
Interessantissimi e d’effetto questi versi( tratti da un sonetto intitolato “Poesia”) che descrivono non solo lo stato d’animo del poeta ma anche lo scopo della poesia e dell’arte poetica. “ Mudu est su cantore / Pensat e no iscriet / In custu sero / Chi paret attunzu! Ma cal’est su dolore / Ch’in s’anima li friet / Pensamentosu cun la barra in punzu? Arcanas melodias / de montes e de zente / cantait cun antiga passione / Undas de poesias / l’han fertu sa mente /’oltulende in mudesa ogni cantone. (versi tratti dalla poesia “ Mudu”) Diversamente dalle grandi corti greche, troiane, macedoni, anatoliche, i sardi cantano per una passione individuale, forse anche per una necessità come ebbe a dire l’indimenticabile Enzo Espa. Necessità derivata principalmente dalle grandi transumanze a cielo aperto e dalle tante notti trascorse lontani dal focolare domestico. Nella storia primordiale dei sardi non immaginiamo grandi corti con armigeri, cortigiani e cortigiane, nelle quali esprimere i nostri talenti, ma purtroppo come tutti sappiamo i nostri capi, i nostri Judiches erano più propensi a guerreggiare che a poetare. Ciò che a noi interesserebbe maggiormente altro non è se non capire che tipo di circolazione interna potrebbe aver avuto il sistema poetico sardo e con quali modalità. Storicamente e geograficamente, le zone maggiormente isolate possono sviluppare tradizioni più marcate a livello locale e sicuramente più intense. La Sardegna è uno di questi casi e da ciò deriva la difficoltà di affrontare la storia del sistema letterario poetico con tracciati ben precisi. E. Pais “esclusa l’età nuragica, la Sardegna perde ogni autonomia ed è destinata in ogni età a riprodurre elementi suggeriti da altre nazioni, altre civiltà” A questo proposito ci si interroga sul come mai un popolo come quello sardo, capace di esprimere particolarissime forme architettoniche e quindi di scrivere una bella pagina di arti figurative, possa essere stato distratto nei confronti della poesia. Di sicuro il mondo dei nuragici non doveva essere immune da miti e potrebbero essere proprio i miti i custodi di una eventuale sconosciuta civiltà poetica. Di sicuro conosciamo ciò che F. Altziator ha scritto, ossia che a contatto con il mondo fenicio i sardi hanno appreso la scrittura entrando così a far parte di un sistema di comunicazione, per quanto non brillante e non di prim’ordine. Tutto ciò che resta in Sardegna della civiltà fenicia farebbe ipotizzare una sorta di vita letteraria, della quale non si ha traccia, ed è per questa ragione la difficoltà di indagare e affrontare un sistema letterario con tracciati ben precisi. Tra il 1500 ed il 1600 possiamo registrare le prime voci poetiche a partire, come tutti sappiamo, da Antonio Cano, dall’algherese Antonio Lo Frasso,, da Gerolamo Araolla a Pietro Delitala. Nel 1638 (siamo già nel Basso Medioevo e ben oltre la data della scoperta dell’America), il frate Salvatore Vidal ( al secolo Giov.Andrea Simone Contini) attesta l’esistenza di un canto sardo caratterizzato da un ritornello “enniano” ( in quanto lo stesso Vidal afferma che sia stato il poeta Ennio a insegnare ai sardi l’arte della poesia) e denominato “ tesi” rifacendosi ad una fonte del XV sec. Lo stesso Vidal scrisse un poema in sardo–logudorese diviso in 586 ottave strutturate in 21 canti, nei quali racconta in poesia la vita di Sant’Antioco. Comunque sia, la nostra poesia “ su càntigu” se non ha origini nuragiche ha ben Cinquecento anni di vita ed è pur sempre un bel retaggio, che si spera l’incuria non disperda. Per concludere, i versi di A. M. Pinna potrebbero essere indicati per un’isola come la nostra, più che mai abituata alle grandi solitudini ( è sufficiente percorrere la 131 da Sassari a Cagliari per toccare con mano una infinita distesa di solitudine) e più che mai disponibile alle americanizzazioni selvagge e “se ci va bene” anche a quelle del sol levante: le nuove colonizzazioni. Sa zente felta e lua / su mundu a paleretta / cun sos valores postos in revudu / intro s’anima sua / ch’est anima ‘e poeta / no lu faghen cantare …. E restat mudu. Giovanna Elies