L’arrivo a Betlemme, la grotta-stalla, la nascita di Gesù, secondo la mistica Maria Valtorta
28. L’arrivo a Betlemme.
Vedo una strada maestra. Vi è tanta folla. Asinelli che vanno carichi di masserizie e di persone. Asinelli che tornano. La gente sprona le cavalcature, e chi è a piedi va in fretta perché fa freddo. L’aria è tersa e asciutta, il cielo sereno, ma tutto ha quel tagliente netto dei giorni di pieno inverno. La campagna, spogliata, sembra più vasta, e i pascoli hanno un’erbetta corta, bruciacchiata dai venti invernali; sui pascoli le pecore cercano un poco di nutrimento e cercano il sole che sorge piano piano. Stanno strette l’una all’altra perché hanno freddo anche loro, e belano alzando il muso e guardando il sole come dicessero: «Vieni presto, ché fa freddo! ». Il terreno è a ondulazioni che si fanno sempre più nette. E’ un vero posto di collina. Vi sono conche erbose e coste, vi sono vallette e dorsi. La strada vi passa in mezzo e va a sud-est. Maria è su un ciuchino bigio. Tutta avvolta nel pesante mantello. Sul davanti della sella è quell’arnese già visto nel viaggio verso Ebron, e sopra il cofano delle cose più necessarie. Giuseppe cammina a lato tenendo la briglia. «Sei stanca?» chiede ogni tanto. Maria lo guarda sorridendo e dice: «No». Alla terza volta aggiunge: «Tu piuttosto, che devi camminare, sarai stanco». «Oh! io! Per me è niente. Penso che, se avessi trovato un altro asino, potevi essere più comoda e fare più presto. Ma non ho proprio trovato. Occorre a tutti, ora, la cavalcatura. Ma fa’ cuore. Presto siamo a Betlemme. Oltre quel monte è Efrata». Tacciono. La Vergine, quando non parla, pare raccogliersi in interna preghiera. Sorride di un sorriso mite ad un suo pensiero e, se guarda la folla, pare non la veda per quello che è: un uomo, una donna, un vecchio, un pastore, un ricco o un povero. Ma per quello che Lei solo vede. Hai freddo? » chiede Giuseppe, perché il vento si leva. «No. Grazie ». Ma Giuseppe non si fida. Le tocca i piedi, penzolanti sul fianco del ciuchino, i piedi calzati nei sandali e che appena si vedono spuntare dalla lunga veste, e li deve sentire freddi, perché scuote il capo e si leva una coperta che ha a tracolla e avvolge le gambe di Maria e gliela stende anche sul grembo, di modo che le mani stiano ben calde sotto di essa e del manto. lncontrano un pastore, che taglia la via col suo gregge passando dal pascolo di destra a quello di sinistra. Giuseppe si curva a dirgli qualcosa. Il pastore annuisce. Giuseppe prende il ciuchino e lo trascina dietro al gregge nel pascolo. Il pastore si leva una rozza scodella da una bisaccia e munge una grassa pecora dalle gonfie mammelle e dà la scodella a Giuseppe, che la offre a Maria. «Dio vi benedica entrambi » dice Maria. «Tu per il tuo amore, e tu per la tua bontà. Pregherò per te ». «Venite da lontano? ». «Da Nazareth » risponde Giuseppe. «E andate?». «A Betlemme ». «Lungo viaggio per la donna in quello stato. E’ tua moglie? ». E’ mia moglie ». Avete dove andare? ». No ». «Brutta cosa! Betlemme è piena di popolo venuto da ogni dove per segnarsi o per andare a segnarsi altrove. Non so se troverete alloggio. Sei pratico del luogo? ». «Non molto ». «Ebbene… io ti insegno… per Lei (e accenna a Maria). Cercate dell’albergo. Sarà pieno. Ma ve lo dico per darvi una guida. E’ in una piazza, la più grande. Vi si va da questa via maestra. Non potete sbagliare. Vi è una fonte davanti, ed è grande e basso con un gran portone. Sarà pieno. Ma, se non trovate niente nell’albergo e nelle case, girate dietro all’albergo, verso la campagna. Vi sono stalle nel monte, che delle volte servono ai mercanti che vanno a Gerusalemme per mettervi le bestie che non trovano posto nell’albergo. Sono stalle, sapete, nel monte: umide, fredde e senza porta. Ma sono sempre un rifugio, perché la donna… non può rimanere per la via. Forse là trovate un posto… e del fieno per dormire e per l’asino. E che Dio vi accompagni ». «E Dio ti dia gioia » risponde Maria. Giuseppe invece risponde: « La pace sia con te ». Riprendono la strada. Una conca più vasta si mostra dal ciglione che hanno superato. Nella conca, su e giù per le chine morbide che la circondano, vi sono case e case. E’ Betlemme. «Eccoci nella terra di Davide, Maria. Ora riposerai. Mi sembri stanca tanto… ». «No. Pensavo… penso…». Maria afferra la mano di Giuseppe e gli dice con un sorriso beato: «Penso proprio che il tempo sia giunto ». Dio di misericordia! Come facciamo? ». «Non temere, Giuseppe. Abbi costanza. Vedi come sono calma io?». Ma soffri molto ». «Oh! no. Sono piena di gaudio. Un gaudio tale, così forte, così bello, così incontenibile, che il mio cuore batte forte forte e mi dice: “Egli nasce! Egli nasce! “Lo dice ad ogni battito. E’ il mio Bambino che bussa al mio cuore e dice: “Mamma, son qui che vengo a darti il bacio di Dio”. Oh! che gioia, Giuseppe mio! ». Ma Giuseppe non è nella gioia. Pensa all’urgenza di trovare un ricovero e affretta il passo. Porta per porta chiede un ricovero. Niente. Tutto occupato. Giungono all’albergo. E’ pieno persino sotto i rustici portici, che circondano il grande cortile interno, di gente che bivacca. Giuseppe lascia Maria sul ciuchino dentro al cortile ed esce cercando nelle altre case. Torna sconfortato. Non vi è nulla. Il rapido crepuscolo invernale comincia a stendere i suoi veli. Giuseppe supplica l’albergatore. Supplica dei viaggiatori. Loro sono uomini e sani. Qui vi è una donna prossima a dare un figlio alla luce. Abbiano pietà. Niente. Vi è un ricco fariseo che li guarda con palese disprezzo e, quando Maria si accosta, si scansa come si fosse avvicinata una lebbrosa. Giuseppe lo guarda e un rossore di sdegno gli monta al volto. Maria posa la sua mano sul polso di Giuseppe per calmarlo e dice: « Non insistere. Andiamo. Dio provvederà». Escono e seguono il muro dell’albergo. Svoltano per una stradetta incassata fra questo e delle povere case. Girano dietro l’albergo. Cercano. Ecco delle specie di grotte, di cantine, direi, più che di stalle, tanto sono basse e umide. Le più belle sono già occupate. Giuseppe si accascia. «Ehi! Galileo! » gli grida dietro un vecchio. «Là in fondo, sotto quella rovina, vi è una tana. Forse non c’è ancora nessuno». Si affrettano a quella «tana». E’ proprio una tana. Fra macerie di qualche fabbricato in rovina vi è un pertugio, oltre il quale vi è una grotta, uno scavo nel monte più che grotta. Si direbbe che sono le fondamenta dell’antica costruzione, a cui fan da tetto le macerie appuntellate da tronchi d’albero appena sgrezzati. Per vedere meglio, poiché vi è pochissima luce, Giuseppe trae esca e acciarino e accende una lucernetta che trae dalla bisaccia che ha a tracolla. Entra, e un muggito lo saluta. «Vieni, Maria. E’ vuota. Non vi è che un bue». Giuseppe sorride. «Meglio che niente!… Maria smonta dal ciuchino ed entra. Giuseppe ha appeso la lucernetta ad un chiodo infisso in uno dei tronchi che fanno da pilone. Si vede la volta piena di ragnatele, il suolo – terreno battuto e tutto sconquassato, con buche, ciottoli, detriti ed escrementi – sparso di steli di paglia. In fondo, un bue si volta e guarda coi suoi occhi quieti mentre del fieno gli pende dalle labbra. Vi è un rozzo sedile e due pietre in un angolo presso una feritoia. Il nero di quell’angolo dice che là si fa fuoco. Maria si accosta al bue. Ha freddo. Gli mette le mani sul collo per sentirne il tepore. Il bue muggisce e si lascia fare. Pare comprenda. Anche quando Giuseppe lo spinge in là per levare molto fieno alla greppia e fare un letto a Maria – la greppia è doppia, ossia vi è quella dove mangia il bue e, sopra, una specie di scansia con su dell’altro fieno di scorta, e Giuseppe prende quello – lascia fare. Fa posto anche al ciuchino che, stanco e affamato, si dà subito a mangiare. Giuseppe scova anche un secchio capovolto, tutto ammaccato. Esce, perché fuori ha visto un rio, e torna con dell’acqua per l’asinello. Poi si impadronisce di una fascina di frasche messa in un angolo e cerca scopare un poco il suolo. Poi stende il fieno, ne fa un giaciglio, presso il bue, nell’angolo più asciutto e riparato. Ma lo sente umido, questo povero fieno, e sospira. Accende il fuoco e, con una pazienza da certosino, asciuga a manate il fieno tenendolo presso il calore. Maria, seduta sullo sgabello, stanca, guarda e sorride. Ecco pronto. Maria si accomoda meglio nel soffice fieno, con le spalle appoggiate ad un tronco. Giuseppe completa… l’arredamento stendendo il suo mantello come una tenda sul pertugio che fa da porta. Un riparo molto relativo. Poi offre pane e formaggio alla Vergine e le dà da bere l’acqua di una borraccia. «Dormi, ora» le dice poi. «Io veglierò perché il fuoco non si spenga. Vi è della legna, per fortuna, speriamo duri e arda. Potrò risparmiare l’olio del lume ». Maria si stende ubbidiente. Giuseppe la copre col mantello di Maria stessa e con la coperta che aveva prima ai piedi. «Ma tu… avrai freddo, tu ». «No, Maria. Sto presso al fuoco. Cerca di riposare. Domani andrà meglio». Maria chiude gli occhi senza insistere. Giuseppe si rincantuccia nel suo angolo, sullo sgabello, con degli sterpi accanto. Pochi. Che durino a lungo non credo. Sono situati così: Maria a destra, con le spalle alla… porta, semi nascosta dal tronco e dal corpo del bue, che si è accosciato nella lettiera. Giuseppe a sinistra e verso la porta, in diagonale perciò, e, avendo il volto al fuoco, ha le spalle verso Maria. Si gira però a guardarla ogni tanto e la vede quieta, come dormisse. Spezza piano le sue fraschette e le getta una per una sul fuocherello perché non si spenga, perché dia luce, e perché la poca legna duri. Non vi è che il bagliore, ora più vivo ora quasi morto, del fuoco. Perché il lume è stato spento e nella penombra spicca soltanto il biancore del bue e del viso e delle mani di Giuseppe. Tutto il resto è una massa che si che si confonde nella penombra greve.
La nascita di Gesù
Vedo ancora l’interno di questo povero rifugio petroso dove hanno trovato asilo, accumunati nella sorte a degli animali, Maria e Giuseppe. Il fuocherello sonnecchia insieme al suo guardiano. Maria solleva piano il capo dal suo giaciglio e guarda. Vede che Giuseppe ha il capo reclinato sul petto come se pensasse, e pensa che la stanchezza soverchi il suo buon volere di rimanere desto. Sorride d’un buon sorriso e, facendo meno rumore di quanto ne può fare una farfalla che si posi su una rosa, si mette seduta e da seduta in ginocchio. Prega con un sorriso beato sul volto. Prega a braccia aperte, non proprio a croce, ma quasi, a palme volte in alto e in avanti, né mai pare stanca di quella posa penosa. Poi si prostra col volto contro il fieno in una ancora più intensa preghiera. Lunga preghiera. Giuseppe si scuote. Vede quasi morto il fuoco e quasi tenebrosa la stalla. Getta una manata di eriche fini fini e la fiamma risfavilla; vi unisce rametti più grossi, e poi ancora più grossi, perché il freddo deve esser pungente. Il freddo della notte invernale e serena che penetra da tutte le parti di quella rovina. Il povero Giuseppe, presso come è alla porta – chiamiamo pure così il pertugio a cui fa da tenda il suo mantello – deve essere gelato. Accosta le mani alla fiamma, si sfila i sandali e accosta i piedi. Si scalda. Quando il fuoco è ben desto e la sua luce è sicura, egli si volge. Non vede nulla, neppure più quel biancore del velo di Maria, che prima metteva una linea chiara sul fieno scuro. Si leva in piedi e lentamente si avvicina al giaciglio. «Non dormi, Maria? » chiede. Lo chiede tre volte, finché Ella si riscuote e risponde: «Prego». «Non abbisogni di nulla?». «No, Giuseppe ». Cerca di dormire un poco. Di riposare almeno ». «Cercherò. Ma pregare non mi stanca». «Addio, Maria». «Addio, Giuseppe ». Maria riprende la sua posa. Giuseppe, per non cedere più al sonno, si pone in ginocchio presso il fuoco e prega. Prega con le mani strette sul viso. Le leva ogni tanto per alimentare il fuoco e poi torna alla sua fervente preghiera. Meno il rumore delle legna che crepitano e quello del ciuchino, che di tanto in tanto batte uno zoccolo sul suolo, non si ode niente. Un poco di luna si insinua da una crepa del soffitto e pare una lama di incorporeo argento che vada cercando Maria. Si allunga, man mano che la luna si fa più alta in cielo, e la raggiunge, finalmente. Eccola sul capo della orante. Glielo innimba di candore. Maria leva il capo come per una chiamata celeste e si drizza in ginocchio di nuovo. Oh! come è bello qui! Ella alza il capo, che pare splendere nella luce bianca della luna, e un sorriso non umano la trasfigura. Che vede? Che ode? Che prova? Solo Lei potrebbe dire quanto vide, sentì e provò nell’ora fulgida della sua Maternità. Io vedo solo che intorno a Lei la luce cresce, cresce, cresce. Pare scenda dal Cielo, pare emani dalle povere cose che le stanno intorno, pare soprattutto che emani da Lei. La sua veste, azzurra cupa, pare ora di un mite celeste di miosotis, e le mani e il viso sembrano farsene azzurrini come quelli di uno messo sotto il fuoco di un immenso zaffiro pallido. Questo colore, che mi ricorda, benché più tenue, quello che vedo nelle visioni del santo Paradiso e anche quello che vidi nella visione della venuta dei Magi, si diffonde sempre più sulle cose, le veste, le purifica, le fa splendide. La luce si sprigiona sempre più dal corpo di Maria, assorbe quella della luna, pare che Ella attiri in sé quella che le può venire dal Cielo. Ormai è Lei la Depositaria della Luce. Quella che deve dare questa Luce al mondo. E questa beatifica, incontenibile, immisurabile, eterna, divina Luce che sta per esser data, si annuncia con un’alba, una diana, un coro di atomi di luce che crescono, crescono come una marea, che salgono, salgono come un incenso, che scendono come una fiumana, che si stendono come un velo… La volta, piena di crepe, di ragnateli, di macerie sporgenti che stanno in bilico per un miracolo di statica, nera, fumosa, repellente, pare la voltadi una sala regale. Ogni pietrone è un blocco di argento, ogni crepa un guizzo di opale, ogni ragnatela un preziosissimo baldacchino contesto di argento e diamanti. Un grosso ramarro, in letargo fra due macigni, pare un monile di smeraldo dimenticato là da una regina; e un grappolo di pipistrelli in letargo, una preziosa lumiera d’onice. Il fieno che pende dalla più alta mangiatoia non è più erba, sono fili e fili di argento puro che tremolano nell’aria con la grazia di una chioma disciolta. La sottoposta mangiatoia è, nel suo legno scuro, un blocco d’argento brunito. Le pareti sono coperte di un broccato in cui il candore della seta scompare sotto il ricamo perlaceo del rilievo, e il suolo… che è ora il suolo? E’ un cristallo acceso da una luce bianca. Le sporgenze paiono rose di luce gettate per omaggio al suolo; e le buche, coppe preziose da cui debbano salire aromi e profumi. E la luce cresce sempre più. E’ insostenibile all’occhio. In essa scompare, come assorbita da un velano d’incandescenza, la Vergine… e ne emerge la Madre. Si. Quando la luce torna ad essere sostenibile al mio vedere, io vedo Maria col Figlio neonato sulle braccia. Un piccolo Bambino, roseo e grassottello, che annaspa e zampetta con le manine grosse quanto un boccio di rosa e coi piedini che starebbero nell’incavo di un cuore di rosa; che vagisce con una vocina tremula, proprio di agnellino appena nato, aprendo la boccuccia che sembra una fragolina di bosco e mostrando la lingnetta tremolante contro il roseo palato; che muove la testolina tanto bionda da parere quasi nuda di capelli, una tonda testolina che la Mamma sostiene nella curva di una sua mano, mentre gnarda il suo Bambino e lo adora piangendo e ridendo insieme e si curva a baciarlo, non sulla testa innocente, ma su, centro del petto, là dove sotto è il cuoricino che batte, batte per noi… là dove un giorno sarà la Ferita. Gliela medica in anticipo, quella ferita, la sua Mamma, col suo bacio immacolato. Il bue, svegliato dal chiarore, si alza con gran rumore di zoccoli e muggisce, e l’asinello volge il capo e raglia. E’ la luce che li scuote, ma io amo pensare che essi hanno voluto salutare il loro Creatore, per loro e per tutti gli animali. Anche Giuseppe, che, quasi rapito, pregava così intensamente da esser isolato da quanto lo circondava, si scuote, e dalle dita strette al viso vede filtrare la luce strana. Leva le mani dal viso, alza il capo, si volge. Il bue ritto in piedi nasconde Maria. Ma Ella chiama: «Giuseppe, vieni». Giuseppe accorre. E quando vede si arresta, fulminato di riverenza, e sta per cadere in ginocchio là dove è. Ma Maria insiste: «Vieni, Giuseppe » e punta la mano sinistra sul fieno e, tenendo con la destra stretto al cuore l’Infante, si alza e si dirige a Giuseppe, che cammina impacciato per il contrasto fra il desiderio di andare e il timore di essere irriverente. Ai piedi della lettiera i due sposi si incontrano e si gnardano con un pianto beato. «Vieni, ché offriamo al Padre Gesù» dice Maria. E, mentre Giuseppe si inginocchia, Ella, ritta in piedi fra due tronchi che sostengono la volta, alza la sua Creatura fra le braccia e dice: «Eccomi. Per Lui, o Dio, ti dico questa parola. Eccomi a fare la tua volontà. E con Lui io, Maria, e Giuseppe, io sposo. Ecco i tuoi servi, Signore. Sia fatta sempre da noi, in ogni ora e in ogni evento, la tua volontà, per tua gloria e per amor tuo ». Poi Maria si curva e dice: « Prendi, Giuseppe » e offre l’Infante. «Io? A me? Oh, no! Non sono degno! ». Giuseppe è sbigottito addirittura, annientato all’idea di dover toccare Iddio. Ma Maria insiste sorridendo: «Tu ne sei ben degno. Nessuno più di te lo è, e per questo l’Altissimo ti ha scelto. Prendi, Giuseppe, e tienilo mentre io cerco i panni ». Giuseppe, rosso come una porpora, stende le braccia e prende il batuffolino di carne che strilla di freddo e, quando lo ha fra le braccia, non persiste nell’intenzione di tenerlo scosto da sé per rispetto e se lo stringe al cuore, dicendo con un grande scoppio di pianto: «Oh! Signore! Dio mio! » e si curva a baciare i piedini e li sente freddi, e allora si siede al suolo e se lo raccoglie in grembo e con la sua veste marrone e con le mani cerca coprirlo, scaldarlo, difenderlo dalla sizza della notte. Vorrebbe andare verso il fuoco, ma là c’è quella corrente d’aria che entra dalla porta. Meglio stare qui. Meglio, anzi, andare fra i due animali, che fanno da scudo all’aria e che mandano calore. E va fra il bue e l’asino e sta con le spalle alla porta, curvo sul Neonato per fare del suo petto una nicchia, le cui pareti laterali sono una testa bigia dalle lunghe orecchie e un grosso muso bianco dal naso fumante e dall’umido occhio buono. Maria ha aperto il cofano e ne ha tratto lini e fasce. E’ andata al fuoco e le ha scaldate. Eccola che va a Giuseppe e avvolge il Bambino nella tela intiepidita e poi nel suo velo per riparargli la testolina. « Dove lo mettiamo ora? » chiede. Giuseppe guarda intorno, pensa… «Aspetta » dice. «Spingiamo più in qua i due animali e il loro fieno e tiriamo giù quel fieno là in alto e lo mettiamo qui dentro. Il legno della sponda lo riparerà dall’aria, il fieno gli farà guanciale e il bue col suo fiato lo scalderà un pochino. Meglio il bue. E’ più paziente e quieto». E si dà da fare, mentre Maria ninna il suo Bambino, stringendoselo al cuore e tenendo la sua gnancia sulla testolina per dargli calore. Giuseppe ravviva il fuoco senza risparmio per fare una bella fiamma e scalda il fieno e, man mano che lo asciuga, perché non raffreddi se lo mette in seno. Poi, quando ne ha raccolto tanto da farne un materassino all’Infante, va alla mangiatoia lo dispone che sia come una cunella. «E’ pronto » dice. «Ora ci vorrebbe una coperta, perché il fieno punge, e per ricoprirlo… Prendi il mio mantello » dice Maria. «Avrai freddo ». «Oh! non fa nulla! La coperta è troppo ruvida. Il mantello è morbido e caldo. Io non ho freddo per nulla. Ma che Egli non soffra più! ». Giuseppe prende l’ampio mantello di morbida lana celeste cupo e lo accomoda in doppio sul fieno, con un lembo che pende fuor dalla greppia. Il primo letto del Salvatore è pronto. E la Madre, col suo dolce passo ondeggiante, ve lo porta e ve lo depone, e lo ricopre con il lembo del manto e lo conduce anche intorno al capino nudo, che affonda nel fieno, appena riparato da questo dal sottile velo di Maria. Rimane scoperto solo il visetto grosso come un pugno d’uomo, e i Due, curvi sulla greppia, lo gnardano beati dormire il suo primo sonno, perché il calduccio delle fasce e del fieno ha calmato il pianto e conciliato il sonno al dolce Gesù.