Gian Paolo Brizzi: ricordo di Paolo Prodi, letto nella Cappella dei Bulgari in occasione del commiato accademico.
Lunedì 19 dicembre 2016.
Come allievo di vecchia data di Paolo Prodi credo di poter testimoniare quanto sia stato importante per tutti noi il suo insegnamento. Da Prodi ho sentito ripetere, in più di un’occasione, che lui non aveva una scuola: ma con questa affermazione non intendeva rinnegare quanti erano cresciuti nella ricerca sotto la sua guida, ma era invece persuaso che i più giovani dovessero individuare e mettersi alla prova in un proprio autonomo campo di ricerca, che non coincidesse necessariamente con il suo, come spesso accade. Prodi intendeva con ciò promuovere in ciascuno un cammino scientifico personale e diversificato, garantendo poi una costante attenzione al loro percorso. Una sua innegabile qualità era infatti la straordinaria attenzione ai temi di ricerca che gli crescevano attorno e che gli erano, solo apparentemente, estranei; questa apertura mentale ad interessi diversi egli la trasmetteva attraverso la prassi didattica: la impiegava già nella fase della preparazione della tesi di laurea che comportava per gli studenti la partecipazione ad un seminario settimanale che durava un biennio, nel corso del quale ciascuno illustrava lo stato di avanzamento del proprio lavoro condividendo in tal modo anche i temi trattati dai compagni, i dubbi scaturiti dalla lettura dei documenti o dalla loro interpretazione, i suggerimenti bibliografici che si trasformavano in letture e nella crescita di un nuovo segmento della ricerca. Ciò aiutava i più giovani a non rinchiudersi nel ristretto ambito del proprio lavoro ma ad arricchirsi dei temi e dei progressi degli altri. Questa modalità, forse appresa durante l’esperienza del soggiorno in Germania compiuta dopo la laurea, rappresentava per lui il punto focale di quel legame che doveva stabilirsi tra maestro ed allievo, un legame nel quale vedeva la continuità dell’essenza stessa dell’università come corporazione come bottega in cui, come ebbe a scrivere, il maestro addestra l’apprendista a praticare il “mestiere” dello storico. Questa modalità gli è stata comune per tutta la vita: la sperimentò a Bologna, avendo al fianco Adriano Prosperi, Serena Spanò e per un periodo più breve, Roberto Ruffilli; la introdusse a Trento negli anni in cui era impegnato nella creazione e direzione dell’Istituto storico italo-germanico, dove poté esprimere la sua straordinaria capacità di organizzatore di istituti di ricerca; la continuò a praticare durante i ripetuti rientri a Bologna, intervallati da impegni di studio e di insegnamento in Germania e negli Stati Uniti, coinvolgendo in tal modo un numero crescente di studiosi che oggi lo rimpiangono come Maestro.
Il mestiere dello storico lo ha assorbito per tutta la vita, è stata non solo una grande passione ma il contenuto di un impegno intellettuale nel quale riconoscere il senso stesso della propria esistenza. Aveva scritto recentemente “lo studio della genesi della modernità è fondamentale non soltanto per capire come sono andate le cose ma per capire noi stessi e la crisi del mondo in cui viviamo: dalla diagnosi dipenderanno le possibili terapie per la nostra democrazia malata e per lo Stato di diritto; quello dello storico è un mestiere entusiasmante perché necessario per la de-legittimazione di un potere che punta tutto sul consumo dell’istante (anche tecnologicamente “modernissimo”) e sulla cancellazione della memoria per riportarci ad una nuova schiavitù”. A questo impegno è rimasto fedele fino agli ultimi giorni della sua vita: quando nove anni fa uscì dal ruolo universitario ci confessò che profittando dell’assenza di responsabilità sul piano pratico avrebbe esercitato la massima espansione della libertà di riflettere sul nostro mestiere e sulla sua funzione nella società. Aveva delineato un programma di lavoro che giudicavamo velleitario ma che in soli nove anni, nonostante i problemi di salute che lo hanno afflitto, è ora presente in una collana dell’editore il Mulino che conta oltre dieci pubblicazioni. In questi ultimi tempi, il piacere di poter ricevere una visita di un collega o di un amico era per lui l’occasione di lunghe conversazioni nelle quali, per apprezzare pienamente il piacere dell’incontro, si permetteva di accendere un mezzo toscano: si ragionava sullo stato dell’Università, si informava sulle attività in corso (l’uscita di una rivista o di uno dei libri incolonnati accanto alla poltrona o su un tavolino, poi si dilungava spesso nel racconto delle sue esperienze: l’amicizia con Ivan Illich, le resistenze incontrate dal progetto di un’ università bilingue a Trento negli anni del suo rettorato, i rapporti con Dossetti e la ricca documentazione che conservava nel suo ricchissimo e ordinato archivio mentre si apprestava a scrivere il capitolo di un nuovo libro. Ho vissuto quegli incontri come un dono prezioso, l’ultimo che ha lasciato a me come agli altri amici che lo hanno incontrato. Vorrei concludere con una frase che egli ci rivolse in occasione di un incontro e che credo riassuma bene lo spirito cui affrontava i passaggi più difficili della sua vita: “Mi dichiaro ufficialmente “autorottamato” come mi è capitato tante volte. Ma voi dovete andare avanti”.