“Matteo Satta (1916-2016): 1. a cento anni dalla nascita, da sposo precoce e padre a caporale maggiore” di Angelino Tedde
Matteo Satta, figlio di Antonio- (figlio di Giovanni Maria e di Donna Antonia Tedde-Grixoni)- e di Francesca Mannoni, nacque a Chiaramonti il 13 luglio 1916, mentre l’Italia combatteva il suo secondo anno della Grande Guerra e il paese era amministrato dal sindaco Nicolò Madau e dai consiglieri del suo rango sociale in genere borghesi agrari e produttori di formaggio.
Il neonato fu battezzato il sei settembre nella parrocchiale di San Matteo Apostolo ed Evangelista in Chiaramonti dal parroco Giusppe Calvia (1893-1920) che annotò nel registro del 1916 dei battezzati a p. 184 che era figlio di Antonio Satta-Tedde figlio di Giovanni Maria e di Antonia e di Francesca Mannoni Perino. Gli fu imposto il nome di Matteo. per ricordare il bisnonno paterno, Matteo Lugi Tedde-Sanna. I padrini furono il fratello e la sorella Bachisio e Maria Canalis figli di Cesare e di Anna Maria Madau.
Claudio Coda molto gentilmente ha trascritto il testo latino che, ringraziadolo, riportiamo
Questo scrivo non per vanità, ma piuttosto per mettere in luce la contiguità tra i genitori di Matteo e le famiglie più abbienti del paese da cui poi il giovane Matteo non volle orgogliasamente ricevere incarichi e favori.
I Satta abitavano allora nella piazzetta della chiesa parrocchiale di San Matteo.
Matteo era l’ultimo figlio di una numerosa famiglia i cui capifamiglia, da alcune generazione, svolgevano il mestiere di cantoniere alle dipendenze della Provincia di Sassari.
I fratelli che lo avevano preceduto erano Cristoforo (1904-1989) (futuro cantoniere), Maria (1909-1987) (sposatasi (1939) con Gerolamo Carta (1906-1986) e vissuta a Roma fino alla morte), Giovanni Maria, noto Billia (1911-1963) , (futuro cantoniere) morto prematuramente a 52 anni.
La madre Francesca gli morì quando da bimbo viveva il suo secondo anno di vita e l’onere di sostentare ed educare la famigliola ricadde tutta sul padre Antonio e su sua sorella Maria Teresa, nota Teresa.
A quanto si apprende dalla memoria familiare i ragazzi furono tirati su abbastanza bene e crebbero sani e belli. Vissero in paese dell’eco delle peripezie della Grande Guerra, del chiassoso rientro a casa dei reduci e degl’invalidi, decimati di ventotto commilitoni rimasti sui campi di guerra,
Scuola e GIL
Matteo, come tutti i coetanei visse in un paese che, tra il censimento del 1911 da 2400 era passato nel 1921 a 2000 abitanti.
Nel 1922 ci fu la marcia su Roma, (il bambino aveva solo 6 anni) l’incarico del Re Vittorio Emaniele III a Mussolini e l’inizio delle fortune del Partito Nazionale Fascista che, col listone del 1924, prese le redini del governo dell’Italia, dissestata oltre che dalla guerra anche dal biennio rosso e dall’agitazione permanente dei reduci che man mano prendevano coscienza che la guerra era stata voluta dalla borghesia.
Il ragazzo compiva i suoi otto anni e a scuola cominciò a subire l’indottrinamento delle idee fasciste sia pure blandamente dal momento che la maggior parte delle maestre si era formata nella fiorente epoca giolittiana. All’epoca era stata adeguatamente curata la preparazione delle maestre, quasi un’anticipata formazione permanente con appositi corsi (direttore didattico, pedagogia, psicologia, agricoltura ecc.) senza contare che nel 1911 le maestre erano passate dai Comuni all’Ufficio Scolastico Provinciale secondo i dettami della legge Danéo-Credaro.
Il paese
La popolazione di Chiaramonti era agglomerata nelle 4 vie del centro storico orientate verso l’antica chiesa di San Matteo e l’intera superficie miocenica, inglobata a suo tempo nell’ormai scomparso castello dei Doria, e in quelle che andavano costruendo ed elevandosi tra il reticolo viario strambo del retro della chiesa parrocchiale, pendio di Codinarasa, e nel pendio del Monte de Cheja davanti alla stessa con case sopraelevate ingresso ad arco a tutto sesto e con mezza luna di ferro nei portoni per dare luce all’andito. Poche case oltre al palazzo dei Grixoni e dei Migaleddu sorgevano nel rione che andava sviluppandosi nel pendio Est di Codinarasa che già dal 1874 si distingueva per il grande fabbricato della Caserma dei Reali Carabinieri e a suo tempo dalla Torre del Mulino a Vento Est-Ovest e forse dalla Nivéra che aveva dato il nome a questo rione attraversato dalla Via Grande, dove esisteva tra l’altro il fabbricato con piano sopraelevato di Giovannadrea Tedde-Cossiga n. 187 (poi Via Garibaldi,17 e oggi Via Leopardi, 22), e che nella via a monte prendeva il nome di Sa Niéra.
La maggior parte della popolazione attiva era dedita alla pastorizia stanziale e alla conseguente trasformazione del latte in formaggio, in pere di formaggio e in altre specialità che i continentali avevano importato nei centri dell’Anglona. Si aggiunga la febbrile attività degli artigiani del legno e del ferro e quella delle donne tessitrici.
All’epoca fu costruito anche il lavatoio pubblico di Funtanedda alla periferia del centro storico nell’estremo pendio del Monte Carmelo.
I giovani Satta-Mannoni
Matteo e i suoi fratelli maggiori furono impegnati da giovani nei consueti lavori della campagna, (oltretutto possedevano parte de Sa Tanca de su Re e qualche vignetto), oltre che in altri lavori di campagna presso i loro parenti Grixoni e Falchi.
Piccoli proprietari, corroborati dallo stipendio di cantoniere del loro genitore e dalle cure della brava zia che ben surrogava la madre morta precocemente.
Il giovane Matteo era un divoratore di carne e per questo motivo gli fu affibbiato il soprannome di Pettei dal sostantivo sardo petta. Cresceva forte e bello e all’occorrenza, pur essendo di indole buona, sapeva difendersi egregiamente data la sua forza non comune.
Nel 1926 Mussolini inquadrò i giovani e le giovani nella Gioventù Italiana del Littorio GIL convocandoli ogni sabato all’ascolto delle sue patriottiche esternazioni che all’epoca, pervasa dall’idealismo non solo filosofico, erano musica alle loro orecchie, (quanto a noi oggi appaiono stucchevoli), si aggiungano anche le famose adunate ginniche in Codinarasa dei giovani di entrambi i sessi della GIL.
Il matrimonio precoce
Nei primi anni della sua giovinezza, avrà avuto sedici anni (1932), conobbe l’adolescente Tarsilla Mannu (1920-1994) facente parte di una famiglia di ben sette tra fratelli e sorelle, orfani di madre fin dai sette anni e quattro anni più tardi, nel 1936 la sposò. Non si capisce bene se per questo motivo, dopo la visita di leva nell’ottobre dello stresso anno del matrimonio (luglio 1936) Matteo fu mandato in congedo illimitato.
I due sposi andarono ad abitare nella grande casa che i Mannu possedevano, con due ingressi, tra Carrela Longa e Piatta. I genitori, Domitilla Ruiu e Sebastiano Mannu non erano poveri, ma oltre a varie campagne a Bidda Noa e a Pianu ‘e Cabras, gestivano il tabacchino e un grande bazar dove si vendeva di tutto. Con la morte della madre Domitilla Ruiu (1880-1927), il calzolaio vignaiolo Sebastiano, suo marito vedovo, si sposò con una donna di Martis (dalla quale ebbe una figlia di nome Sebastiana), ma non seppe governare la sua numerosa prole composta da Lucio (I matrimonio), Silvio, Clelia, Tigellio, Daniele, Tarsilla e Cesarina (II matrimonio) e Sebastiana (III matrimonio) e fu costretto a cedere il tabacchino agli Scanu, (oggi ceduto alle sorelle Murrone). Il bazar lo gestì con scarso successo Clelia, di 14 anni, che era punto di riferimento per le sorelline rispettivamente di 7 e 2 anni.
La felicità per il primo figlio, Benito (1936-1937), fu di breve durata, perché il primogenito se ne andò in Cielo dopo pochi mesi di vita.
I due giovani sposini erano già stati inquadrati e indottrinati fin dal periodo scolastico al verbo fascista che seppero accogliere con grande entusiasmo frequentando le adunate in Codinarasa, anzi a Tarsilla data l’altezza, l’avvenenza e le doti atletiche, fu proposto dalla maestra l’invio a Roma nel vivaio delle sportive del Regime, ma essendosi legata a Matteo, ella rifiutò l’invito.
Morto Benito, scoppiata la guerra di Spagna, il giovane sposo Matteo, fu chiamato alle armi nel 1938 e dovette imbarcarsi per il Continente. La moglie, Tarsilla, viste le scarse opportunità di lavoro in paese, con le altre tre sorelle, (a Roma erano già militari, l’uno nell’esercito e l’altro nell’OVRA, Tigellio e Daniele), partì con la sorella Clelia di sette anni più grande di lei e la sorella minore Cesarina di 16 anni, per lavorare come domestiche in case patrizie mentre il consorte, chiamato alle armi era di stanza a Trieste tra gl Alpini della Brigata Julia e la cognata Maria era sposata a Roma. Si può ben concludere che tutti i giovani e le giovani Mannu avevano scelto come luogo di adozione la città eterna.
Matteo, si era presentato a suo tempo alla visita di leva nell’ottobre del 1936, ma era stato messo in congedo illimitato. Dai dati forniti dal Foglio matricolare figura alto 1,63, capelli neri e lisci, occhi castani (anche se non erano tali), colorito bruno, col titolo di studio di licenza elementare, di professione bracciante. Fu chiamato alle armi ai sensi della Circolare 4062 del Ministero della Guerra del 34 febbraio 1938. Dovette presentarsia a Trieste il 18 marzo 1938. Il 30 aprile dello stesso anno divenne soldato scelto e assegnato alla Compagnia Sanità dell’Ospedale Militare della stessa città.
Il 20 luglio fu promosso Caporale addetto all’ Infermeria, quindi, trattenuto alle armi nel settembre del 1939 e inviato per 30 giorni in licenza.
Tornato a Trieste, in base alle scelte politiche di Mussolini, che voleva scimmiottare Hitler occupando l’Albania come quello aveva occupato la Polonia, s’imbarcò con la sua Brigata a Bari in un piroscafo diretto a Durazzo dove giunse il 20 luglio 1940. Nell’aprile dello stesso anno aveva compiuto 24 anni, mentre la moglie ne aveva compiuto 20.
La moglie Tarsilla viveva già a Roma e fece di tutto per cercarlo alla stazione per salutarlo, ma con la ressa che c’era non potè vederlo. Allora, salì sul primo treno per Bari, vi giunse e lì fortunatamente ritrovò il giovanissimo marito col quale ebbe modo d’intrattenersi, prima dell’imbarco. Da quell’incontro nascerò di lì a nove mesi la secondogenita Teresa.
Caporale Maggiore
Matteo, giunto in Albania, partecipò alle operazioni di supporto all’occupazione, già avvenuta, e il 15 ottobre lo ritroviamo Caporale Maggiore sempre nel comparto sanità.
D’altra parte i primi sbarchi e l’occupazione dell’Albania erano avvenute già l’anno prima e quindi la Brigata degli Alpini Iulia di Matteo fu di rincalzo e di preparazione all’occupazione della Grecia.
Sollecitato da me, talvolta, durante le feste, a
ricordare alcuni episodi, mi confessò che la depressione era tale che, disperato, tentò di farsi congelare una gamba, esponendola al freddo, e se si salvò lo dovette all’amico Giovanni Spano da Ploaghe che impedì il congelamento dell’ arto e lo tirò su di morale. Quando gli chiesi come si erano comportati gl’italiani con le donne del luogo mi rispose che queste si concedevano facilmente ai soldati, spinte dalle necessità del vivere, ma che lui, pensando alla moglie, diede spesso del pane alle poverette, ma rifiutò qualsiasi relazione o rapporto con loro tanta era la pena che gli procuravano.
A nove mesi dall’arrivo in Albania ricevette il telegramma della nascita della secondogenita, gli furono concessi 15+4 giorni di congedo per conoscere la figlia Maria Teresa (1941-1912), nel frattempo tutta la sua Brigata Iulia del sud si era imbarcata per rientrare in Italia, ma attaccata da un sommergibile inglese calò a picco nel canale di Otranto con tutti i suoi compagni. Egli fu salvo, grazie alla figlia, ma non accettò mai quella perdita e ne soffrì finché visse, ricordando sempre l’amico Giovanni Spano.
Terminata la licenza fu ricoverato nell’Infermeria Presidiaria di Sassari ed ottenne altri 30 giorni di licenza in tal modo passò tutto il settembre del 1941 tra Sassari e Chiaramonti e rientrò in territorio di guerra soltanto alla fine di ottobre dello stesso anno. Viene segnalato ai primi di febbraio del 1942 nell’ospedale da campo 631 nella V compagnia di sanità a Trieste durante l’attacco alla Croazia e alla fine del 1942 rientrò al distretto di Cagliari e fu di stanza a Lanusei e poi, secondo la sua testimonianza, fu trasferito ad Ozieri dove godette di varie licenze in famiglia. Nell’agosto del 1943 gli nacque la terzogenita, Domitilla,
Il fascismo cadde il 25 luglio del 1943 e il caporal maggiore fu sempre assegnato al comparto sanità anche in Sardegna, Fu stanziato per un certo tempo a Selargius e quindi spedito a Orvieto. ma nel frattempo gli Alleati occupavano l’Italia e si andava verso la conclusione della guerra. Nel 1944 e 1945, figura in Sardegna e finalmente il 22 ottobre del 1945, dopo sette anni di vita militare fu collocato in congedo illimitato. La guerra era finita, ma nel frattempo era nata la quartogenita Francesca, nota Franca (1944-2000).
Il soldato-marito, secondo gli orientamenti formativi del fascismo, pur servendo la patria, aveva messo su una numerosa famiglia. I suoi commilitoni chiaramontesi del resto non avevano agito diversamente da lui come risulta dai loro fogli matricolari e dagli stati di famiglia, In fondo tutti i nati dei sette anni di guerra figurano coetanei o coetanee. Le licenze sembravano date per la procreazione.
La pausa di Rimini e l’indottrinamento al Comunismo
In un determinato periodo del 1943, quando la sua Brigata stazionava a Rimini, mi raccontò, d’essere stato indottrinato da un capitano al comunismo e da quel momento si iscrisse al PCI e fu tesserato per tutta la sua esistenza, fino all’anno della sua scomparsa. Quest’adesione lo allontanò dalla Chiesa, ma non dalla fede.
Subito dopo la guerra si pensava che i comunisti in un modo o nell’altro sarebbero saliti al potere e così facendo avrebbero fatto fuori preti e chiese, secondo l’dea dominante della propaganda comunista, perché avversi alla dittatura del proletariato. Non la pensavano così per l’Italia i “grandi”, riuniti ad Yalta, che si divisero sulla carta e anche con gli eserciti le zone d’influenza e l’Italia toccò all’Occidente controllato da statunitensi e inglesi. Da ciò le conseguenze dell’estromissione dal governo, formato dai partiti della Resistenza, del PCI e la scelta socio-religiosa della Chiesa di Pio XII che dichiarò solennemente l’assoluta incompatibilità dei credenti con un partito che si diceva marxista leninista e aderiva al materialismo storico (art. 14 dello Statuto, espunto dal Congresso di Enrico Berlinguer dopo il raffreddamento con l’URSS nel 1979). Da quel momento i credenti praticanti furono definiti dalla propaganda comunisti clerico-fascisti. La classe operaia rossa abbandonò la Chiesa e tese a scristianizzarsi, sebbene non tutti i comunisti abbandonarono la fede in Cristo per Marx, Lenin e Stalin e furono chiamati dalla pubblicista, più tardi, catto-comunisti, non in uso però nel linguaggio del proletariato.
Questo fatto non impedì a Matteo di dare una formazione cristiana alle figlie e ai figli e di partecipare alle conseguenti cerimonie della Comunione, Cresima e Matrimoni e ai funerali dei compagni che man mano se ne andavano all’altro mondo.
L’educazione impartita alle figlie fu molto severa e la cintola veniva usata senza tanti complimenti per le figlie riottose, mentre si ammorbidiva quando vedeva segni evidenti di paura. Educazione tradizionale visto che tutti i contemporanei biblicamente cercavano di raddrizzare la schiena a figli, ad alunni a scuola, con verghette, cordicelle e ogni genere di punizione ivi compresa quella di mandare a letto senza cena. A questi rimedi estremi, grande solidarietà di fratelli e sorelle che fornivano di nascosto pane da consumare sotto le lenzuola con cautela.
Nel suo portafoglio insieme alla tessera del partito erano collocate le immaginette dei santi ai quali era devoto, tuttavia, la moglie Tarsilla e gli altri figli seguirono il PCI, eccetto, la terzogenita, Domitilla, che non sopportava il persistente atteggiamento battagliero e perennemente teso del padre comunista, tipico anche oggi dei nostalgici della rivoluzione del proletariato e dell’odio viscerale per la borghesia agraria e industriale del passato e del presente. pur così diversa da quei tempi “eroici”, dato che questi ultimi resti della flotta veterocomunista hanno redditi e tenori di vita borghesi con case e giardini costruiti e arredati con dispendio di denaro, tutt’altro che in sintonia con le parsimoniose aspirazioni del proletariato urbano e rurale. Si può asserire lo stesso di certi credenti che esibiscono opulenza e trascurano gli esclusi.
Matteo però, sebbene un pò tardi,ma sempre con dieci anni di anticipo dalla caduta del muro di Berlino, aveva capito sia le stragi compiute da Stalin sia il sostanziale inganno del socialismo reale della Russia e dei paesi satelliti come chiarisce in una video intervista da me curata nella Pasqua del 1988 all’Isola Rossa, tre mesi prima della sua prematura scomparsa a soli 72 anni.
(I Continua)
La prossima puntata. “Matteo Satta (1916.1988): da operaio scrupoloso a nonno amabile.”
Nota. Questi contributi sul blog hanno carattere giornalistico e non richiedono note a margine, ma sono ricavati dai documenti accennati nel testo e dalla memoria storica familiare e paesana.
Inoltre rientrano nel filone della “nuova storia” che mira a narrare non solo le storie degli uomini e delle donne illustri, ma anche di quelli e quelle comuni che, quanto e talvolta forse più dei grandi notabili hanno fatto la storia della nazione. (A. T.)