Parte II/IQuattro figli e 400 poponi e due casse di Vermentino di Ange de Clermont
Sarebbe bene che prima di leggere questa I puntata della parte seconda vi leggeste le altre puntate dallo stesso titolo su accademia sarda, cercando i link appositi su google.
Son passati 45 (1971-2016) anni dalle prime vacanze all’Isola Rossa, sollecitato dall’amico fraterno Paolo ho scritto già tre o quattro puntate su quell’esperienza. poi, come di consueto, distratto da altri avvenimenti, ho dimenticato di continuare le puntate. Ora riprendo e in primo luogo voglio raccontare della sera in cui con gli amici, dopo aver mangiato almeno cinque grossi poponi sparsi nelle camere della casetta di ziu Dominugu, (oggi parte del ristorante pizzeria di Mario), presa in locazione per tremila lire al giorno, (1971) arrivò uno dei nostri abituali amici, Giuseppe, nipote del medico e mi pare nativo del luogo, ma ben sistemato a Sassari. Eravamo quasi al clou della serata seduti nel gradone e cominciavamo a parlottare un pò alto, arrivò Giuseppe, con due casse, le aprimmo: Vermentino di Gallura, dieci bottiglie in una e dieci bottiglie nell’altra. Con la pancia ripiena di angurie, la solita greffa formata da Alberto e Gemma, Mariolina e Giuseppe G. , Giuseppe S. con la morosa, Giannino e qualche altra amica della quale quale ricordo i connotati, ma non il nome (la genovese), io e mia moglie con una mia cognata col pargolo dormiente. Ad un certo punto cominciammo a bere con vero gusto il Vermentino, non ci volle molto perché diventassimo alticci e cominciassimo a parlare come se invece dell’una di notte, fosse mezzogiorno.
Puntuale come sempre zio Martino e la moglie che, poveracci avevano sgobbato tutto il giorno nella birreria-bar-tabacchi e edicola, si attaccarono al telefono e come di consueto chiamarono i carabinieri di Trinità. Questi, sapendo ormai che eravamo brave persone, ma dei tiratardi abituali, giunsero e senza mezzi termini c’invitarono ad andarcene a letto, a porre fine allo schiamazzo notturno oppure cercassimo riparo in qualche lontana tanca in modo che nessuno ci sentisse. Giuseppe S. non ci pensò due volte e rivolto a Giannino gli disse:
-Gianni’, prendiamo il motoscafo e ce ne andiamo all’Isolotto.- Noi tutti euforici ripetemmo:
-Andiamo all’Isolotto!-
l’Isolotto non era che quella piccola Isola rossastra tutta scogliere, nominata Isola Rossa nella cartina geografica per la cui poca distanza dalla lingua di terra dove stavamo noi aveva dato il nome alla piccola frazione dell’Isola Rossa,
L’Isolotto offriva ospitalità ai cormorani.
Detto fatto, noi affidammo il piccolo di sei mesi a mia cognata che però aveva bevuto con noi, e raggiunta la spiaggetta, con le rimanenti bottiglie, c’imbarcammo sul capiente motoscafo. Giannino ci dette una mano per salire anche se anche lui era mezzo cotto e via rombando raggiungemmo l’Isolotto, rompendo il sonno ai cormorani che si levarono nella notte come uccelli di malaugurio, ma visto che eravamo pieni di Vermentino l’augurio non ebbe effetto.
Approdammo all’Isolotto, dopo aver percorso un chilometro di mare, scendemmo come il Cielo volle su uno scoglio basso e occupammo, nuovi Cristoforo Colombo, la nuova terra della libertà di parola e di pensiero e di tono di voce.
Continuammo ben bene a sbronzarci sistemandoci alla bella meglio sulla scogliera e naturalmente alticci com’eravamo continuavamo a gridare, a cantare fino alle 6 del mattino, quando i Vitiello e i Morlé prendevano il mare più alto per ritirare le reti. Vedendoli passare veloci urlammo saluti e in seguito cominciammo a buttarci in acqua. In vita mia non feci bagno in acqua così calda, ma forse più che l’acqua ero accaldato io dal Vermentino ingollato e i compagni di baldoria. Voci e grida fino alle 8 del mattino, quando finalmente, sbronzi e assonnati tornammo dall’Isolotto alla lingua di terra che si chiama Isola Rossa.
Mia cognata era immersa nel sonno e il bimbo di sei mesi, stizzito e affamato, frignava invano alle stelle coi capelli biondi e ricci che si erano fatti diritti a causa della sua ira funesta.
Mia moglie, sussurrandogli:
-Figlioletto mio bello, vieni che mamma ti dà il latte,-
Corse a prenderlo, ad abbracciarselo e ad offrigli le poppe che certo abbondavano di latte, ma un pò annaffiato di Vermentino di Gallura, invece della birra di cui si dice produca latte abbondante visto che la si fa dalle erbe.
Io, che raramente mi sbronzavo, continuai a fare sceneggiate imitando nel marcipiedi sedute yoga. Ero del tutto preso dall’euforia lucida che cattura gli ubriachi.
I villeggianti cominciavano a raggiungere la spiaggia e ci guardavano come se fossimo marziani, ma nel minuscolo agglomerato dei cento residenti fissi, per lo più di origine ponzese, corsero voci di ogni genere sulla nostra riprovevole condotta, incrementata peraltro dai pescatori di ritorno dalle pingui retate.
Quel che pensarono e quel che dissero superò i limiti de “I peccati di Peyton Place”. Arrivarono a dire di riti orgiastici,
Ma c’era da credere che in mezzo a quegli spuntoni di roccia, con i cormorani che non tolleravano la nostra presenza, fossimo capaci di organizzare orge di cui ignoravamo, a quei tempi, anche il significato? Oggi, che per nostra disgrazia siamo “ammodernati” si parla di sesso estremo, ma allora di estremo c’era che le venti bottiglie di Vermentino versati sui poponi ci avevano semplicemente sbronzati
Non parliamo delle reprimemde benevoli, con pronuncia gallurese.napoletana, di zio Martino (aveva trascorso molti anni a Napoli come guardia di carcere).
Noi avevamo dimenticato che i poponi non si mangiano col Vermentino e che ci sarebbe voluta qualche buona arrostita di carne o di pesce per tollerarlo senza ubriacarci. La carne c’era in abbondanza intorno a noi e forse organizzandoci e catturando qualche vitello di ziu Pidreddu avremmo potuto avere anche la carne, ma vacche e vitelli erano pelle e ossa.
Giurammo che non avremmo più messo insieme poponi col Vermentino o altre bevande alcoliche anzi ce la prendemmo con Giuseppe S. che ci aveva teso il tranello, Giuseppe S. però era innocente al punto che si era sbronzato pure lui e la sua morosa e scocciato della nostra ingratitudine come un capo indiano si nascose nella tenda piazzata non molto lontano da casa. Si risvegliarono a notte fonda per farsi un giro a lume di pila pescatora in attesa del nostro risveglio.
Parte II/I Puntata.
La prossima: Quattro figli e 400 poponi e la gelosia di Battista dal passo felpato!
Commenti
Ora capisco da dove derivano i tuoi guai al fegato. Certo questo racconto va dedicato a Domitilla in spirito di complicità
Agosto 21st, 2016
Ora capisco l’origine dei tuoi guai al fegato-. Il racconto andrebbe dedicato a Domitilla che fu tua complice nell’impresa
Agosto 21st, 2016